Quanti morti dopo oltre 100 giorni di guerra in Ucraina? Il bilancio delle vittime è parziale e incerto. Secondo l’ONU i civili uccisi sono, al 25 maggio scorso, 3998. Ma la stessa fonte ammette che potrebbero essere di più. Morti che si aggiungono ai più o meno altrettanti civili uccisi dal 2014 in Donbass, nella guerra “dimenticata” da quegli stessi media ora con i riflettori puntati su quei territori dopo l’invasione decisa da Putin.
Sui combattenti uccisi è calata la censura militare: ognuna delle parti in conflitto non parla delle perdite, per non “fiaccare il morale delle truppe” e non dare argomenti al fronte pacifista interno. Dal Cremlino tacciono. Da Kiev invece hanno sciorinato dati precisi sulle perdite… dei russi: “29.200 soldati uccisi; 204 caccia, 170 elicotteri e 476 droni abbattuti; distrutti 1.293 carri armati, 604 pezzi di artiglieria, 3.166 veicoli blindati per il trasporto delle truppe, 110 missili da crociera, 201 lanciamissili, 13 navi, 2.206 tra veicoli e autocisterne per il trasporto del carburante, 93 unità di difesa antiaerea e 43 unità di equipaggiamenti speciali”. Se questo inventario di morte e distruzione è vero, e non gonfiato dalla propaganda, possiamo pensare che da parte ucraina ci possano essere perdite analoghe, a meno di ritenere che i russi bombardino solo palazzi residenziali vuoti di cui i tg ci fanno quotidianamente vedere le rovine fumanti.
Ma il numero preciso dei morti, dopo tutto, è un dato secondario se facciamo nostra la frase del Talmud resa celeberrima da Schindler’s List: “Chi salva una vita salva il mondo intero”. Se la consideriamo vera, dovremmo anche pensare che “chi uccide una vita uccide il mondo intero”. Infatti, anche una sola vittima è di troppo. E per non avere vittime occorre perseguire e manutenere la pace, un valore assoluto perché contrapposta al male assoluto della guerra, la condizione che libera i peggiori istinti dell’animo umano, in cui tutto è permesso per sopraffare “il nemico”.
La guerra “uccide sette volte”, ci ha spiegato il fondatore del Sermig Ernesto Olivero, e vi invito a leggere o rileggere il suo articolo (CLICCA QUI) per capire a quali abissi fa sprofondare. Tanti li hanno scoperti attoniti dalle immagini televisive dei cadaveri dilaniati, delle fosse comuni, delle case distrutte, dalle interviste ai testimoni e ai profughi piangenti; ci indigniamo anche pensando alle montagne di cereali bloccate nei porti ucraini che non possono arrivare a sfamare intere popolazioni. “È la guerra, bellezza!” potremmo cinicamente sbottare parafrasando Humphrey Bogart in Quarto potere.
La guerra, da sempre, è questa schifezza qui. Che andrebbe ben studiata e conosciuta a scuola. Ma non è il caso di aprire un capitolo dolente sulle carenze del nostro sistema educativo. Una cultura di pace parte proprio dalla consapevolezza di cosa è la guerra. Non per caso l’immane tragedia del secondo conflitto mondiale ha portato in Europa il più lungo periodo di pace della Storia. Ma dopo settant’anni è come se ce ne fossimo dimenticati, preoccupati solo delle frivolezze quotidiane, delle esigenze del nostro ego da soddisfare nel Paese dei balocchi. Senza accorgerci che la pace – e così la democrazia – non è per sempre, ma va coltivata con pazienza e convinzione. Cosa che in Ucraina non si è fatta, come dimostrano i disattesi accordi di Minsk, con precise responsabilità di tutti gli attori.
Siamo stati tra i primi a domandarci se fosse davvero tutta colpa di Putin (CLICCA QUI), il cattivo aggressore dell’inerme Ucraina. Qualche buona lettura o bel dibattito preventivi (vedi ad esempio questo video - CLICCA QUI - con Lucio Caracciolo e Dario Fabbri del 6 dicembre 2021) permettono di farsi un’opinione slegata dall’emotività cavalcata dalla propaganda. Che ha subito additato come “filo-putiniani” coloro che si sono smarcati dalla narrazione dominante.
Stranamente però nessuno ha osato bollare apertamente come “amico di Putin” chi ha giudicato “una follia” la corsa al riarmo e indicato “nell’abbaiare della NATO alle porte della Russia” una causa non secondaria della guerra: accusare papa Francesco di sostenere l’autocrate russo andrebbe oltre la soglia del ridicolo, che comunque alcuni yankees nostrani hanno dimostrato di saper superare (CLICCA QUI).
Considerare la realtà a 360° è indispensabile per comprendere gli interessi in gioco e individuare un percorso che possa portare prima al “cessate il fuoco” e successivamente a una difficile, difficilissima composizione del conflitto. Scoppiata la guerra, contati i morti a migliaia, a decine di migliaia, se non si vuole portare lo scontro sino alla disfatta di uno dei due contendenti (anche perché prima della resa entrerebbero in gioco gli arsenali nucleari…) ogni negoziato diventa più complicato, dato che aumenta il carico d’odio delle due parti. Ecco perché la pace va difesa quando si è in pace, perché sono così critico con ciò che non si è fatto, anche da parte ucraina e occidentale, per risolvere una questione che rischiava di degenerare, a partire dal cambio di regime a Kiev (possiamo anche definirlo “colpo di stato”) del 2014. Il disinteresse, voluto o no, per la mancata attuazione degli accordi di Minsk rischia ora di creare una seconda “questione palestinese” nel cuore dell’Europa.
Sulle prospettive di pace, sul progetto italiano, sugli interessi divergenti tra Europa e Stati Uniti, che tanti atlantisti – in buona e cattiva fede – non vogliono vedere, parlerò in un successivo articolo.
Vorrei invece intervenire nel dibattito valoriale originato dalla considerazione che la guerra di resistenza ucraina sia una “guerra giusta”, che va quindi sostenuta come gli Alleati fecero con i nostri partigiani sulle montagne per opporsi al nazifascismo.
Sul piano storico il parallelo tra l’Italia del 1943 e l’Ucraina del 2022 non è proponibile per le troppe profonde differenze non solo temporali tra le due situazioni. Ma entrambe vengono accomunate come “guerre per la libertà” di un popolo contro l’aggressore esterno, quindi “guerre giuste” che si devono concludere con “la vittoria finale”. E qui vi invito a leggere il bell’articolo di Umberto Baldocchi (CLICCA QUI) che auspica invece “una pace senza vittoria” e chiude ricordando che, giusta o ingiusta, la guerra è deleteria per il mondo civile e mette a rischio le democrazie.
Non dissimili le posizioni del presidente dell’ANPI Gianfranco Pagliarulo, che è stato bersagliato dalle polemiche per aver ricordato che l’Associazione partigiani sostiene prima di tutto la pace, sapendo “che nel nostro tempo in una guerra non ci sono vinti né vincitori ma solo superstiti”. E quindi che l’unica condizione giusta, tra le persone e le nazioni, è appunto la Pace. Perché rispetta la Vita e la Persona. La guerra le nega. Ci sarebbe ancora da riflettere sul rapporto tra Vita e Libertà (cosa è più importante?), ma sento che su questo tema potrebbero arrivare commenti da qualche lettore, e mi riservo un intervento successivo.
Nella cultura di ispirazione cristiana I promessi sposi occupano un posto importante. Del capolavoro di Manzoni, cesellatore di personaggi indimenticabili, ricordiamo l’episodio della visita di fra Cristoforo a don Rodrigo nel capitolo V. Il signorotto era impegnato con altri commensali a discutere se fosse giusta o no la bastonatura di un messo che aveva recapitato l’invito per una sfida a duello. Costretto dai presenti a esprimersi sulla questione, il frate – che per Manzoni è il modello del prete e del cristiano – disse: “Il mio debole parere sarebbe che non vi fossero né sfide, né portatori, né bastonate”.
Il mio debole parere sarebbe che non vi fossero né guerre, né armi, né uccisioni.
Quando muoiono decine, migliaia, milioni di soldati, dietro ognuno di loro c’è una storia, una famiglia, degli affetti spezzati, che sono uguali ovunque: perché il dolore e la gioia, i sogni, le paure e gli umori sono identici, anche se la divisa è di un altro colore.
Nelle trincee della Prima guerra mondiale morirono oltre 5 milioni di soldati e, passato un secolo, nessuno più pensa di essere stato dalla parte “giusta”. Il 4 novembre non festeggiamo più “la vittoria”, ma ricordiamo doverosamente i nostri 680.000 caduti in quella che Benedetto XV chiamò “l’inutile strage”. Inutile anche per completare l’unità d’Italia, dato che la neutralità – sarebbe bastato seguire Giolitti – avrebbe egualmente riportato alla patria Trento e Trieste, risparmiando tutte quelle vite.
Poi è pienamente comprensibile che ogni nazione costruisca una propria narrazione per dare un senso alle scelte politiche e a così tanto dolore di madri, vedove, orfani; che si inneggi al “senso del dovere”, alla “difesa della patria”; che si celebrino gli “eroi”, con più o meno retorica. Ma noi la pensiamo come Berthold Brecht: “Beati i popoli che non hanno bisogno di eroi”.
Malgrado tutte le lezioni che ci ha fornito il Novecento sull’insensatezza della guerra, qua e là nel dibattito sull’Ucraina è tornato a far capolino uno dei più subdoli e classici cliché della retorica guerrafondaia dell’umanità: come sia nobile e persino dolce morire per la propria patria. Quella che Wilfred Owen, il soldato inglese testimone nelle sue poesie delle atrocità della Grande guerra sul fronte occidentale (come Eric Maria Remarque lo fu da parte tedesca) bollò come la “vecchia menzogna”:
“(…) se potessi sentire il sangue, ad ogni sobbalzo,
fuoriuscire gorgogliante dai polmoni guasti di bava,
osceni come il cancro, amari come il rigurgito,
di disgustose, incurabili piaghe di lingue innocenti –
amico mio, non ripeteresti con tanto compiaciuto fervore
a fanciulli ansiosi di farsi raccontare gesta disperate,
la vecchia menzogna: Dulce et decorum est pro patria mori”.
No, Orazio e i suoi epigoni di ogni tempo hanno torto: morire per la patria non è né dolce né onorevole. Morire in guerra è atroce e insensato. È la pace che salva le vite e dà loro valore. La guerra le sacrifica, e il più delle volte senza uno scopo accettabile. Ancora nel terzo millennio, purtroppo, per molti poteri costituiti quello che conta è credere, obbedire, combattere. E morire.
Sui combattenti uccisi è calata la censura militare: ognuna delle parti in conflitto non parla delle perdite, per non “fiaccare il morale delle truppe” e non dare argomenti al fronte pacifista interno. Dal Cremlino tacciono. Da Kiev invece hanno sciorinato dati precisi sulle perdite… dei russi: “29.200 soldati uccisi; 204 caccia, 170 elicotteri e 476 droni abbattuti; distrutti 1.293 carri armati, 604 pezzi di artiglieria, 3.166 veicoli blindati per il trasporto delle truppe, 110 missili da crociera, 201 lanciamissili, 13 navi, 2.206 tra veicoli e autocisterne per il trasporto del carburante, 93 unità di difesa antiaerea e 43 unità di equipaggiamenti speciali”. Se questo inventario di morte e distruzione è vero, e non gonfiato dalla propaganda, possiamo pensare che da parte ucraina ci possano essere perdite analoghe, a meno di ritenere che i russi bombardino solo palazzi residenziali vuoti di cui i tg ci fanno quotidianamente vedere le rovine fumanti.
Ma il numero preciso dei morti, dopo tutto, è un dato secondario se facciamo nostra la frase del Talmud resa celeberrima da Schindler’s List: “Chi salva una vita salva il mondo intero”. Se la consideriamo vera, dovremmo anche pensare che “chi uccide una vita uccide il mondo intero”. Infatti, anche una sola vittima è di troppo. E per non avere vittime occorre perseguire e manutenere la pace, un valore assoluto perché contrapposta al male assoluto della guerra, la condizione che libera i peggiori istinti dell’animo umano, in cui tutto è permesso per sopraffare “il nemico”.
La guerra “uccide sette volte”, ci ha spiegato il fondatore del Sermig Ernesto Olivero, e vi invito a leggere o rileggere il suo articolo (CLICCA QUI) per capire a quali abissi fa sprofondare. Tanti li hanno scoperti attoniti dalle immagini televisive dei cadaveri dilaniati, delle fosse comuni, delle case distrutte, dalle interviste ai testimoni e ai profughi piangenti; ci indigniamo anche pensando alle montagne di cereali bloccate nei porti ucraini che non possono arrivare a sfamare intere popolazioni. “È la guerra, bellezza!” potremmo cinicamente sbottare parafrasando Humphrey Bogart in Quarto potere.
La guerra, da sempre, è questa schifezza qui. Che andrebbe ben studiata e conosciuta a scuola. Ma non è il caso di aprire un capitolo dolente sulle carenze del nostro sistema educativo. Una cultura di pace parte proprio dalla consapevolezza di cosa è la guerra. Non per caso l’immane tragedia del secondo conflitto mondiale ha portato in Europa il più lungo periodo di pace della Storia. Ma dopo settant’anni è come se ce ne fossimo dimenticati, preoccupati solo delle frivolezze quotidiane, delle esigenze del nostro ego da soddisfare nel Paese dei balocchi. Senza accorgerci che la pace – e così la democrazia – non è per sempre, ma va coltivata con pazienza e convinzione. Cosa che in Ucraina non si è fatta, come dimostrano i disattesi accordi di Minsk, con precise responsabilità di tutti gli attori.
Siamo stati tra i primi a domandarci se fosse davvero tutta colpa di Putin (CLICCA QUI), il cattivo aggressore dell’inerme Ucraina. Qualche buona lettura o bel dibattito preventivi (vedi ad esempio questo video - CLICCA QUI - con Lucio Caracciolo e Dario Fabbri del 6 dicembre 2021) permettono di farsi un’opinione slegata dall’emotività cavalcata dalla propaganda. Che ha subito additato come “filo-putiniani” coloro che si sono smarcati dalla narrazione dominante.
Stranamente però nessuno ha osato bollare apertamente come “amico di Putin” chi ha giudicato “una follia” la corsa al riarmo e indicato “nell’abbaiare della NATO alle porte della Russia” una causa non secondaria della guerra: accusare papa Francesco di sostenere l’autocrate russo andrebbe oltre la soglia del ridicolo, che comunque alcuni yankees nostrani hanno dimostrato di saper superare (CLICCA QUI).
Considerare la realtà a 360° è indispensabile per comprendere gli interessi in gioco e individuare un percorso che possa portare prima al “cessate il fuoco” e successivamente a una difficile, difficilissima composizione del conflitto. Scoppiata la guerra, contati i morti a migliaia, a decine di migliaia, se non si vuole portare lo scontro sino alla disfatta di uno dei due contendenti (anche perché prima della resa entrerebbero in gioco gli arsenali nucleari…) ogni negoziato diventa più complicato, dato che aumenta il carico d’odio delle due parti. Ecco perché la pace va difesa quando si è in pace, perché sono così critico con ciò che non si è fatto, anche da parte ucraina e occidentale, per risolvere una questione che rischiava di degenerare, a partire dal cambio di regime a Kiev (possiamo anche definirlo “colpo di stato”) del 2014. Il disinteresse, voluto o no, per la mancata attuazione degli accordi di Minsk rischia ora di creare una seconda “questione palestinese” nel cuore dell’Europa.
Sulle prospettive di pace, sul progetto italiano, sugli interessi divergenti tra Europa e Stati Uniti, che tanti atlantisti – in buona e cattiva fede – non vogliono vedere, parlerò in un successivo articolo.
Vorrei invece intervenire nel dibattito valoriale originato dalla considerazione che la guerra di resistenza ucraina sia una “guerra giusta”, che va quindi sostenuta come gli Alleati fecero con i nostri partigiani sulle montagne per opporsi al nazifascismo.
Sul piano storico il parallelo tra l’Italia del 1943 e l’Ucraina del 2022 non è proponibile per le troppe profonde differenze non solo temporali tra le due situazioni. Ma entrambe vengono accomunate come “guerre per la libertà” di un popolo contro l’aggressore esterno, quindi “guerre giuste” che si devono concludere con “la vittoria finale”. E qui vi invito a leggere il bell’articolo di Umberto Baldocchi (CLICCA QUI) che auspica invece “una pace senza vittoria” e chiude ricordando che, giusta o ingiusta, la guerra è deleteria per il mondo civile e mette a rischio le democrazie.
Non dissimili le posizioni del presidente dell’ANPI Gianfranco Pagliarulo, che è stato bersagliato dalle polemiche per aver ricordato che l’Associazione partigiani sostiene prima di tutto la pace, sapendo “che nel nostro tempo in una guerra non ci sono vinti né vincitori ma solo superstiti”. E quindi che l’unica condizione giusta, tra le persone e le nazioni, è appunto la Pace. Perché rispetta la Vita e la Persona. La guerra le nega. Ci sarebbe ancora da riflettere sul rapporto tra Vita e Libertà (cosa è più importante?), ma sento che su questo tema potrebbero arrivare commenti da qualche lettore, e mi riservo un intervento successivo.
Nella cultura di ispirazione cristiana I promessi sposi occupano un posto importante. Del capolavoro di Manzoni, cesellatore di personaggi indimenticabili, ricordiamo l’episodio della visita di fra Cristoforo a don Rodrigo nel capitolo V. Il signorotto era impegnato con altri commensali a discutere se fosse giusta o no la bastonatura di un messo che aveva recapitato l’invito per una sfida a duello. Costretto dai presenti a esprimersi sulla questione, il frate – che per Manzoni è il modello del prete e del cristiano – disse: “Il mio debole parere sarebbe che non vi fossero né sfide, né portatori, né bastonate”.
Il mio debole parere sarebbe che non vi fossero né guerre, né armi, né uccisioni.
Quando muoiono decine, migliaia, milioni di soldati, dietro ognuno di loro c’è una storia, una famiglia, degli affetti spezzati, che sono uguali ovunque: perché il dolore e la gioia, i sogni, le paure e gli umori sono identici, anche se la divisa è di un altro colore.
Nelle trincee della Prima guerra mondiale morirono oltre 5 milioni di soldati e, passato un secolo, nessuno più pensa di essere stato dalla parte “giusta”. Il 4 novembre non festeggiamo più “la vittoria”, ma ricordiamo doverosamente i nostri 680.000 caduti in quella che Benedetto XV chiamò “l’inutile strage”. Inutile anche per completare l’unità d’Italia, dato che la neutralità – sarebbe bastato seguire Giolitti – avrebbe egualmente riportato alla patria Trento e Trieste, risparmiando tutte quelle vite.
Poi è pienamente comprensibile che ogni nazione costruisca una propria narrazione per dare un senso alle scelte politiche e a così tanto dolore di madri, vedove, orfani; che si inneggi al “senso del dovere”, alla “difesa della patria”; che si celebrino gli “eroi”, con più o meno retorica. Ma noi la pensiamo come Berthold Brecht: “Beati i popoli che non hanno bisogno di eroi”.
Malgrado tutte le lezioni che ci ha fornito il Novecento sull’insensatezza della guerra, qua e là nel dibattito sull’Ucraina è tornato a far capolino uno dei più subdoli e classici cliché della retorica guerrafondaia dell’umanità: come sia nobile e persino dolce morire per la propria patria. Quella che Wilfred Owen, il soldato inglese testimone nelle sue poesie delle atrocità della Grande guerra sul fronte occidentale (come Eric Maria Remarque lo fu da parte tedesca) bollò come la “vecchia menzogna”:
“(…) se potessi sentire il sangue, ad ogni sobbalzo,
fuoriuscire gorgogliante dai polmoni guasti di bava,
osceni come il cancro, amari come il rigurgito,
di disgustose, incurabili piaghe di lingue innocenti –
amico mio, non ripeteresti con tanto compiaciuto fervore
a fanciulli ansiosi di farsi raccontare gesta disperate,
la vecchia menzogna: Dulce et decorum est pro patria mori”.
No, Orazio e i suoi epigoni di ogni tempo hanno torto: morire per la patria non è né dolce né onorevole. Morire in guerra è atroce e insensato. È la pace che salva le vite e dà loro valore. La guerra le sacrifica, e il più delle volte senza uno scopo accettabile. Ancora nel terzo millennio, purtroppo, per molti poteri costituiti quello che conta è credere, obbedire, combattere. E morire.
bello, scritto bene
Ottimo, condivido in pieno questa riflessione.
Chiara
Per seri motivi familiari non ho potuto seguire con attenzione il dibattito sulla guerra russa ucraina. Ho rapidamente letto le motivazioni che hanno indotto l’amico Alessandro sostanzialmente a giustificare le mire espansionistiche di Putin che considera l’ucraina un covo di filo nazisti. Se è così, cominciamo a preoccuparci di quasi tutta l’Europa. Il fatto che Zalesky ha utilizzato un battaglione di presunti filonazisti non lo si può colpevolizzare affatto per la infame aggressione dell’Ucraina, che ora si vuole chiaramente accorpare alla Russia. Tutto ciò come aperitivo delle prossime aggressioni dei territori prima facenti parte dell’URSS e della stessa Europa intera. A questa delusione, si associa la mia preoccupazione per gli indecenti sondaggi che accreditano l’Italia come uno dei maggiori Paesi che parteggiano per l’amico Putin!
E’ davvero un bell’articolo, che pur essendo scorrevole e lineare, “vola alto”. Al di la dei numeri e delle notizie date, non soffermarsi a pensare sulle riflessioni che specie il finale induce a fare, sarebbe veramente non solo cinico ma senza senso. Purtroppo l’overdose di news continue e rapide che ci arrivano sul telefonino porta ormai molti a rifiutarsi di leggere articoli completi su argomenti davvero pregnanti per tutti. LA GUERRA é sempre sbagliata, chi proprio non vuol leggere vada almeno a riascoltare queste due canzoni: La guerra di Piero di Fabrizio De Andrè ed “Il reduce” di Davide Van De Sfroos