In 90 giorni di guerra, di cose orribili ne abbiamo viste tante. E abbiamo anche ascoltato scempiaggini da paura.
L’oscar va di diritto a Lavrov, con la surreale “Hitler aveva sangue ebreo”, battendo di un’incollatura il suo capo Putin che nel discorso di avvio delle ostilità aveva parlato – in spregio alla Storia – di russi e ucraini come di “due popoli fratelli”. Sul terzo gradino del podio si è issato Biden con “gli Stati Uniti vogliono l’Europa unita”, davvero esilarante se non la si esplicita aggiungendo “e obbediente come un cagnolino”.
Ma in questa rubrica non ci allarghiamo al di fuori dei confini italici, i cui protagonisti riescono già a fornirci materiale abbondantissimo. Sulla guerra ucraina si sono distinti alcuni soloni del partito “yankee”, in una sorta di revival del maccartismo anni Cinquanta con la caccia alle “streghe putiniane”.
Così abbiamo sentito Federico “Ricky” Rampini bollare come amico di Putin il mite direttore di “Avvenire” Marco Tarquinio, reo di aver espresso – in linea con papa Francesco – la sua contrarietà all’escalation degli armamenti. E lo stesso trattamento ha riservato “Johnny” Riotta al colto ed equilibrato Lucio Caracciolo, colpevolizzato per la sua forma mentis di valutare tutte le concause storiche degli avvenimenti geopolitici, il che lo porta a considerare anche il punto di vista dei russi. Il direttore di “Limes” potrebbe inoltre a ragione sostenere – ma non lo fa da un vero signore qual è – di essere tra i pochi a seguire in Italia le guerre dimenticate, tipo quella in Donbass dal 2014. Che altre penne, e pennivendoli, del giornalismo nostrano perdono di vista, troppo impegnati a passare da un party a un vernissage sulle terrazze tra New York, Londra, Milano e Roma, con immancabili puntatine a Capalbio o Forte dei Marmi.
Nella nostra hit-parade va segnalato anche l’infortunio di “Roby” Saviano che ha postato su Facebook la foto di un bambino ucraino amputato degli arti per lo scoppio di una bomba, con il monito di “non cercare alibi alla guerra di #Putin”. Senza accorgersi che il piccolo è stato ridotto così nel 2015 da una granata ucraina usata contro i separatisti vicino a Mariupol, rimasta inesplosa e trovata in un campo dal povero Mykola e dal fratellino Danyo, morto nella deflagrazione. Evidentemente Saviano, documentatissimo sulla Gomorra di Scampia e Secondigliano, ha qui peccato di superficialità ed è incorso in una desolante gaffe.
Ma con tanti candidati, l’oscar della castroneria nostrana a chi lo assegniamo?
Vince per distacco Beppe “Joe” Severgnini – che vedremmo benissimo in coppia con Alan Friedman, un altro “atlantista sino alla morte”, nel remake di “Stanlio e Ollio” – con la stentorea: “Se non ci fosse la NATO, Putin sarebbe già arrivato a Lisbona”. Forse da turista in aereo, dato che le sue colonne di carri armati nemmeno a Kiev sono riuscite ad entrare; e neppure, ad oggi, hanno saputo conquistare l’intero Donbass.
Ma come? – si chiederà qualcuno – neanche una menzione d’onore per le “liste di proscrizione” dei presunti putiniani d’Italia vergate da Fabrizio Rondolino?
Cosa volete, per uno che si è formato nel PCI e a “L’Unità”, entrato poi nello stretto entourage di D’Alema, e finito per “infatuarsi di Renzi” (così dice lui) e diventarne consigliere occulto, parla la sua parabola. E, per carità cristiana, non ci piace infierire sui casi umani...
L’oscar va di diritto a Lavrov, con la surreale “Hitler aveva sangue ebreo”, battendo di un’incollatura il suo capo Putin che nel discorso di avvio delle ostilità aveva parlato – in spregio alla Storia – di russi e ucraini come di “due popoli fratelli”. Sul terzo gradino del podio si è issato Biden con “gli Stati Uniti vogliono l’Europa unita”, davvero esilarante se non la si esplicita aggiungendo “e obbediente come un cagnolino”.
Ma in questa rubrica non ci allarghiamo al di fuori dei confini italici, i cui protagonisti riescono già a fornirci materiale abbondantissimo. Sulla guerra ucraina si sono distinti alcuni soloni del partito “yankee”, in una sorta di revival del maccartismo anni Cinquanta con la caccia alle “streghe putiniane”.
Così abbiamo sentito Federico “Ricky” Rampini bollare come amico di Putin il mite direttore di “Avvenire” Marco Tarquinio, reo di aver espresso – in linea con papa Francesco – la sua contrarietà all’escalation degli armamenti. E lo stesso trattamento ha riservato “Johnny” Riotta al colto ed equilibrato Lucio Caracciolo, colpevolizzato per la sua forma mentis di valutare tutte le concause storiche degli avvenimenti geopolitici, il che lo porta a considerare anche il punto di vista dei russi. Il direttore di “Limes” potrebbe inoltre a ragione sostenere – ma non lo fa da un vero signore qual è – di essere tra i pochi a seguire in Italia le guerre dimenticate, tipo quella in Donbass dal 2014. Che altre penne, e pennivendoli, del giornalismo nostrano perdono di vista, troppo impegnati a passare da un party a un vernissage sulle terrazze tra New York, Londra, Milano e Roma, con immancabili puntatine a Capalbio o Forte dei Marmi.
Nella nostra hit-parade va segnalato anche l’infortunio di “Roby” Saviano che ha postato su Facebook la foto di un bambino ucraino amputato degli arti per lo scoppio di una bomba, con il monito di “non cercare alibi alla guerra di #Putin”. Senza accorgersi che il piccolo è stato ridotto così nel 2015 da una granata ucraina usata contro i separatisti vicino a Mariupol, rimasta inesplosa e trovata in un campo dal povero Mykola e dal fratellino Danyo, morto nella deflagrazione. Evidentemente Saviano, documentatissimo sulla Gomorra di Scampia e Secondigliano, ha qui peccato di superficialità ed è incorso in una desolante gaffe.
Ma con tanti candidati, l’oscar della castroneria nostrana a chi lo assegniamo?
Vince per distacco Beppe “Joe” Severgnini – che vedremmo benissimo in coppia con Alan Friedman, un altro “atlantista sino alla morte”, nel remake di “Stanlio e Ollio” – con la stentorea: “Se non ci fosse la NATO, Putin sarebbe già arrivato a Lisbona”. Forse da turista in aereo, dato che le sue colonne di carri armati nemmeno a Kiev sono riuscite ad entrare; e neppure, ad oggi, hanno saputo conquistare l’intero Donbass.
Ma come? – si chiederà qualcuno – neanche una menzione d’onore per le “liste di proscrizione” dei presunti putiniani d’Italia vergate da Fabrizio Rondolino?
Cosa volete, per uno che si è formato nel PCI e a “L’Unità”, entrato poi nello stretto entourage di D’Alema, e finito per “infatuarsi di Renzi” (così dice lui) e diventarne consigliere occulto, parla la sua parabola. E, per carità cristiana, non ci piace infierire sui casi umani...
Grandioso, provoca buonumore che non è mai abbastanza, pur essendo in realtà una tragedia ed una disfatta per un giornalismo serio.