Ci voleva un intervento dello spessore di quello pronunciato dal presidente Mattarella a Trieste per ricacciare nel nulla l’ignoranza delle strumentalizzazioni che ha segnato l’anniversario 4 novembre 1918 - 4 novembre 2018.
Due chiavi mi paiono particolarmente adatte a interpretarlo.
La prima chiave sta nelle parole iniziali del Presidente, che ha fatto non di Trieste, ma delle sue stesse parole, “una metafora della complessità e delle contraddizioni del Novecento”.
Una metafora anti-ideologica come non mai anzitutto sul piano umano – quello del vissuto dei fanti e delle crocerossine – e dunque capace di tenere insieme “l’orgoglio” e “il dolore” di quella pagina di Storia.
Ma una metafora anti-ideologica come non mai anche e soprattutto sul piano storico, e perciò capace di rimettere in fila la trama impazzita delle distorsioni. Capace di dire il “nazionalismo aggressivo” come germe della guerra, la “barbarie dei totalitarismi” come suo portato e la “persecuzione razziale” – più d’una orecchia dev’essere fischiata – come suo approdo. E capace di dire, in un percorso inverso, la “Costituzione italiana, nata dalla Resistenza” come contro-approdo delle leggi razziste, “l’Unione Europea” come contro-approdo alla guerra.
La seconda chiave sta nelle parole finali del discorso, in cui il Presidente ha mostrato cosa vuol dire saper rendere la storia cultura viva. Cosa vuol dire non ricordare, ma ripensare la memoria. Cosa vuol dire farne futuro, o, tragicamente, di nuovo passato: “quei momenti oscuri, il tempo e le sofferenze delle due guerre mondiali, a voi ragazzi – coetanei di tanti caduti di allora – sembrano molto lontani; remoti. Ma rammentate sempre che soltanto il vostro impegno per una memoria, attiva e vigile, del dolore e delle vittime di quei conflitti può consolidare e rendere sempre più irreversibili le scelte di pace, di libertà, di serena e rispettosa convivenza tra le persone e tra i popoli”.
Due chiavi mi paiono particolarmente adatte a interpretarlo.
La prima chiave sta nelle parole iniziali del Presidente, che ha fatto non di Trieste, ma delle sue stesse parole, “una metafora della complessità e delle contraddizioni del Novecento”.
Una metafora anti-ideologica come non mai anzitutto sul piano umano – quello del vissuto dei fanti e delle crocerossine – e dunque capace di tenere insieme “l’orgoglio” e “il dolore” di quella pagina di Storia.
Ma una metafora anti-ideologica come non mai anche e soprattutto sul piano storico, e perciò capace di rimettere in fila la trama impazzita delle distorsioni. Capace di dire il “nazionalismo aggressivo” come germe della guerra, la “barbarie dei totalitarismi” come suo portato e la “persecuzione razziale” – più d’una orecchia dev’essere fischiata – come suo approdo. E capace di dire, in un percorso inverso, la “Costituzione italiana, nata dalla Resistenza” come contro-approdo delle leggi razziste, “l’Unione Europea” come contro-approdo alla guerra.
La seconda chiave sta nelle parole finali del discorso, in cui il Presidente ha mostrato cosa vuol dire saper rendere la storia cultura viva. Cosa vuol dire non ricordare, ma ripensare la memoria. Cosa vuol dire farne futuro, o, tragicamente, di nuovo passato: “quei momenti oscuri, il tempo e le sofferenze delle due guerre mondiali, a voi ragazzi – coetanei di tanti caduti di allora – sembrano molto lontani; remoti. Ma rammentate sempre che soltanto il vostro impegno per una memoria, attiva e vigile, del dolore e delle vittime di quei conflitti può consolidare e rendere sempre più irreversibili le scelte di pace, di libertà, di serena e rispettosa convivenza tra le persone e tra i popoli”.
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