
L’Argentina ha sempre suscitato un notevole interesse in Italia, accentuato in questo periodo dall’entrata in scena del discutibile e discusso presidente Javier Milei, in quasi coincidenza con quella di Trump. Due elezioni che rientrano nel generale spostamento a destra dell’elettorato nel mondo occidentale, forse non direttamente connesse ma certo destinate ad intrecciarsi nelle ricadute successive.
Un recente soggiorno in loco mi ha spinto ad abbozzare un quadro sulla situazione nel Paese, almeno sotto un profilo qualitativo, di primo impatto, precisando che un’ analisi completa sotto i differenti aspetti sia socioeconomici che politici trascende il compito che mi prefiggo con queste righe.
Qualche nota introduttiva
Premessa inevitabile: il Paese, com’è noto, ha dimensioni enormi, nove volte l’Italia, con una popolazione di oltre 45 milioni di abitanti, ed una varietà di condizioni quasi unica al mondo, andando da un nord montuoso sui confini cileno e boliviano, tropicale su quelli paraguaiano e brasiliano, ad una ampia fascia centrale in larga parte pianeggiante, a un sud che si protende verso l’antartico. Le Ande ne modellano tutto il confine occidentale, con altezza crescente da sud verso nord. Non citerò le Falkland-Malvinas anche se dappertutto compaiono cartelli che ricordano che “las Malvinas son Argentinas”... Il Paese è organizzato come uno Stato federale, articolato su province ed una capitale federale, ovviamente Buenos Aires, con una architettura istituzionale che ricorda quella degli Stati Uniti ma con un ruolo dominante del potere centrale.
Gli Argentini hanno un forte senso di appartenenza, alimentato da un certo complesso di superiorità rispetto agli altri Paesi del sub-continente di cui fanno parte, attenuato nei confronti del Brasile, di cui riconoscono il peso demografico ed economico. All’interno del Paese però emergono forti aspetti contraddittori e di disomogeneità, partendo inevitabilmente dalla capitale e dalla sua provincia.
Buenos Aires, nelle sue ampie zone centrali e residenziali di standard più elevato, appare come una città ricca e pulsante: il traffico di auto nelle grandi avenidas, sulla Panamericana come sulle altre autostrade periurbane è impressionante e vede circolare auto prevalentemente recenti e di buona qualità. Da notare che, almeno a Torino, non si vedono circolare altettante vetture FIAT, qui fabbricate però a Cordoba (vi si produce la Cronos, attualmente leader di mercato) e in Brasile, con una minuscola quantità in Uruguay, dove vengono marchiate col logo nostrano, veicoli importati dalla Cina. La mobilità urbana è comunque assicurata anche da una media rete di metropolitana e da un’infinità di autobus (i colectivos) e taxi, utilizzabili a prezzi politici, molto bassi.
La presenza di un rilevante ceto medio e medio-alto è testimoniata da un fiorire di torri residenziali di trenta-quaranta piani che affiancano o sostituiscono un tessuto di fabbricati di due-tre piani spesso di pregevole fattura liberty, anche se non sempre in brillanti condizioni di manutenzione. Nei vastissimi quartieri periferici la musica cambia, con un’edilizia spesso povera e disordinata, che trova il suo peggio nelle numerosissime “villas miserias”, agglomerati informali di edifici più o meno precari.
La situazione edilizia, che ho troppo sommariamente richiamata, ricalca naturalmente quella della popolazione. Anche nei quartieri più centrali e qualificati, a fianco di cittadini che si potrebbero immaginare presenti in una qualunque città spagnola, francese o italiana, è frequente la presenza di altri in un evidente stato di povertà, mendicanti, gente che vive in strada o svuotando i cassonetti dell’immondizia, oltre ai famosi cartoneros. Si tratta di un fenomeno certo presente anche nelle nostre strade, evidentemente qui appesantito dai grandi numeri dei residenti – quasi tre milioni nella “capital federal”, circa otto milioni nella conurbazione – tra i quali una gran quantità di immigrati, provenienti dalle province povere del nord o da Bolivia, Paraguay e Perù, oltre all’ultima consistente quota di profughi dal Venezuela. Si tratta di ondate penso non inferiori a quelle riguardanti i Paesi europei ma con una differenza: l’omogeneità linguistica e – grossomodo – culturale, non priva di rilevanza ai fini della loro possibile integrazione.
Aspetti contraddittori anche nel campo delle infrastruttre, per esempio rispetto a quelle per la mobilità e i trasporti. Sono state realizzate o sono in corso di realizzazione nuove autostrade, come intorno a Cordoba, di buone qualità sia progettuali che realizzative, ma ancora poca cosa rispetto alla vastità del Paese. Ciò che lascia più che sorpresi è l’arretratezza del sistema ferroviario sulle lunghe distanze, sia rispetto al trasporto di persone sia delle merci. Per dire: il collegamento tra la capitale e la seconda città del Paese, Cordoba (equivalente per noi a quello Roma-Milano), è assicurato da una vetusta linea che compie il tragitto, poco meno di 700 chilometri, in circa 20 ore (!!) con ben due coppie di treni alla settimana, con un tracciato completamente di pianura. Così il vero specchio per i trasporti a lunga distanza sono, per i viaggiatori, i grandi terminal delle autolinee, come il retiro a Buenos Aires, organizzati quasi come piccoli aeroporti e per le merci le colonne ininterrotte di mezzi pesanti che attraversano il Paese.
Economia e scenario storico-politico
La struttura economica del Paese è da sempre organizzata prevalentemente intorno al settore primario: una fortissima agricoltura, l’allevamento del bestiame e lo sfruttamento delle risorse naturali, che sono assolutamente rilevanti. Unite a una condizione energetica favorevole – grazie a una naturale predisposizione per l’uso delle fonti rinnovabili e anche a Vaca Muerta, il gigantesco giacimento di idrocarburi nel nord della Patagonia – e ad una consistente base industriale, che richiederebbe però di essere ammodernata e rafforzata. Da sempre si dice che, se questi fattori fossero al servizio di un Paese ben organizzato, unito al rapporto favorevole tra superficie e numero di abitanti, lo renderebbero uno tra i più ricchi al mondo; attualmente non è così e questa osservazione ci porta sul terreno della politica, passata e presente.
Dopo la fase tumultuosa della conquista dell’indipendenza e dei sommovimenti interni per definire un equilibrio istituzionale, per molti decenni l’Argentina poté avvalersi di un governo forte e stabile, di orientamento liberal conservatore e laicista che ne favorì lo sviluppo (e portò la capitale ad assumere lineamenti ispirati a Parigi ed all’Europa). Una fase, va detto, macchiata da nefandezze come lo sterminio quasi completo delle popolazioni autoctone, che comunque ebbe il massimo successo nei suoi conti economici all’epoca dei grandi proventi generati dalla vendita di derrate alle nazioni europee impegnate nelle Prima guerra mondiale. Un periodo nel quale i forzieri della Banca di Stato non riuscivano a contenere l’oro frutto dei pagamenti.
Uno sviluppo però squilibrato: il rovescio della medaglia fu che, mentre questa potenza economica attirò quote elevatissime di nuovi immigrati – specie, come ben sappiamo, di italiani e spagnoli – la forbice del divario sociale si ampliò enormemente, con il crescere di un malessere popolare diffuso e conseguente instabilità, che, con le ricadute della crisi mondiale del ’29, mise in crisi il sistema e portò al potere i militari e infine il generale Peron. Figura complessa questa, come il movimento da lui fondato. Il periodo peronista durò quasi dieci anni sino al 1955, lasciando il segno, nel bene e nel male, dopodiché si aprì un lunga fase di governi deboli o brevi – tra cui un effimero secondo governo Peron e della sua vedova Isabelita – accompagnati dall’insorgere dal feroce terrorismo di Montoneros ed ERP e da nuovi interventi dei militari.
Le premesse alla situazione odierna
Per comprendere e valutare ciò che sta avvenendo oggi è comunque necessario innestare, almeno schematicamente, la situazione attuale sui passaggi che l’hanno preparata.
La politica argentina è difficilmente raccontabile in via semplificata, per la presenza di partiti politici con denominazioni e radici diverse da quelle familiari in Europa e in Italia. Oggetto, per di più, di frammentazioni e di frequenti scissioni, con repentini accorpamenti e cambi di denominazioni. Un contesto litigioso e fortemente instabile, accompagnato da un sanguinoso terrorismo, che ha favorito frequenti inserimenti “di supplenza” dei militari. Per dire, circa la metà dei trent’anni successivi al primo governo Peron, deposto nel 1955, ha visto all’opera tre diversi governi militari, tra cui, per ultima, la Giunta insediatasi dal 1976 al 1983, che si rese responsabile delle note gravissime violazioni dei diritti umani e della catastrofica decisione della guerra con la Gran Bretagna per le isole contese, Malvinas/Falkland.
Dopo la caduta di questa Giunta, nel 1983, si sono succeduti una decina di governi, all’interno di uno schema grossomodo bipolare, con alternanza, però non paritaria, tra peronisti e antiperonisti. Schieramenti compositi e sempre in movimento: i primi raccolti intorno al PJ (Partido Justicialista) ondeggiante prima tra posizioni più moderate con la presidenza Menem e poi decisamente di sinistra, specie nell’ultima fase Kirchner, i secondi inizialmente guidati dall’ UCR (Union Civico Radical, di orientamento liberale e di centrosinistra) e poi al PRO (Propuesta Republicana) di centrodestra.
Si avviò comunque una fase nella quale governarono a lungo i post-peronisti. Questi ultimi hanno sostanzialmente avuto in mano il Paese negli ultimi anni, a parte una sbiadita parentesi moderata del deludente Mauricio Macri, leader del PRO. La gestione del PJ, specie nel periodo guidato da Cristina Fernandez Kirchner, si rivelò il peggiore per l’andamento dell’economia ma anche per la diffusione della corruzione pubblica, creando così uno stato di insofferenza crescente nel Paese che arrivò a toccare anche larghi strati della tradizionale base peronista.
Nacque così il fenomeno Milei, “el libertario”. Ma di lui parlerò nel prossimo articolo.
(continua)
Un recente soggiorno in loco mi ha spinto ad abbozzare un quadro sulla situazione nel Paese, almeno sotto un profilo qualitativo, di primo impatto, precisando che un’ analisi completa sotto i differenti aspetti sia socioeconomici che politici trascende il compito che mi prefiggo con queste righe.
Qualche nota introduttiva
Premessa inevitabile: il Paese, com’è noto, ha dimensioni enormi, nove volte l’Italia, con una popolazione di oltre 45 milioni di abitanti, ed una varietà di condizioni quasi unica al mondo, andando da un nord montuoso sui confini cileno e boliviano, tropicale su quelli paraguaiano e brasiliano, ad una ampia fascia centrale in larga parte pianeggiante, a un sud che si protende verso l’antartico. Le Ande ne modellano tutto il confine occidentale, con altezza crescente da sud verso nord. Non citerò le Falkland-Malvinas anche se dappertutto compaiono cartelli che ricordano che “las Malvinas son Argentinas”... Il Paese è organizzato come uno Stato federale, articolato su province ed una capitale federale, ovviamente Buenos Aires, con una architettura istituzionale che ricorda quella degli Stati Uniti ma con un ruolo dominante del potere centrale.
Gli Argentini hanno un forte senso di appartenenza, alimentato da un certo complesso di superiorità rispetto agli altri Paesi del sub-continente di cui fanno parte, attenuato nei confronti del Brasile, di cui riconoscono il peso demografico ed economico. All’interno del Paese però emergono forti aspetti contraddittori e di disomogeneità, partendo inevitabilmente dalla capitale e dalla sua provincia.
Buenos Aires, nelle sue ampie zone centrali e residenziali di standard più elevato, appare come una città ricca e pulsante: il traffico di auto nelle grandi avenidas, sulla Panamericana come sulle altre autostrade periurbane è impressionante e vede circolare auto prevalentemente recenti e di buona qualità. Da notare che, almeno a Torino, non si vedono circolare altettante vetture FIAT, qui fabbricate però a Cordoba (vi si produce la Cronos, attualmente leader di mercato) e in Brasile, con una minuscola quantità in Uruguay, dove vengono marchiate col logo nostrano, veicoli importati dalla Cina. La mobilità urbana è comunque assicurata anche da una media rete di metropolitana e da un’infinità di autobus (i colectivos) e taxi, utilizzabili a prezzi politici, molto bassi.
La presenza di un rilevante ceto medio e medio-alto è testimoniata da un fiorire di torri residenziali di trenta-quaranta piani che affiancano o sostituiscono un tessuto di fabbricati di due-tre piani spesso di pregevole fattura liberty, anche se non sempre in brillanti condizioni di manutenzione. Nei vastissimi quartieri periferici la musica cambia, con un’edilizia spesso povera e disordinata, che trova il suo peggio nelle numerosissime “villas miserias”, agglomerati informali di edifici più o meno precari.
La situazione edilizia, che ho troppo sommariamente richiamata, ricalca naturalmente quella della popolazione. Anche nei quartieri più centrali e qualificati, a fianco di cittadini che si potrebbero immaginare presenti in una qualunque città spagnola, francese o italiana, è frequente la presenza di altri in un evidente stato di povertà, mendicanti, gente che vive in strada o svuotando i cassonetti dell’immondizia, oltre ai famosi cartoneros. Si tratta di un fenomeno certo presente anche nelle nostre strade, evidentemente qui appesantito dai grandi numeri dei residenti – quasi tre milioni nella “capital federal”, circa otto milioni nella conurbazione – tra i quali una gran quantità di immigrati, provenienti dalle province povere del nord o da Bolivia, Paraguay e Perù, oltre all’ultima consistente quota di profughi dal Venezuela. Si tratta di ondate penso non inferiori a quelle riguardanti i Paesi europei ma con una differenza: l’omogeneità linguistica e – grossomodo – culturale, non priva di rilevanza ai fini della loro possibile integrazione.
Aspetti contraddittori anche nel campo delle infrastruttre, per esempio rispetto a quelle per la mobilità e i trasporti. Sono state realizzate o sono in corso di realizzazione nuove autostrade, come intorno a Cordoba, di buone qualità sia progettuali che realizzative, ma ancora poca cosa rispetto alla vastità del Paese. Ciò che lascia più che sorpresi è l’arretratezza del sistema ferroviario sulle lunghe distanze, sia rispetto al trasporto di persone sia delle merci. Per dire: il collegamento tra la capitale e la seconda città del Paese, Cordoba (equivalente per noi a quello Roma-Milano), è assicurato da una vetusta linea che compie il tragitto, poco meno di 700 chilometri, in circa 20 ore (!!) con ben due coppie di treni alla settimana, con un tracciato completamente di pianura. Così il vero specchio per i trasporti a lunga distanza sono, per i viaggiatori, i grandi terminal delle autolinee, come il retiro a Buenos Aires, organizzati quasi come piccoli aeroporti e per le merci le colonne ininterrotte di mezzi pesanti che attraversano il Paese.
Economia e scenario storico-politico
La struttura economica del Paese è da sempre organizzata prevalentemente intorno al settore primario: una fortissima agricoltura, l’allevamento del bestiame e lo sfruttamento delle risorse naturali, che sono assolutamente rilevanti. Unite a una condizione energetica favorevole – grazie a una naturale predisposizione per l’uso delle fonti rinnovabili e anche a Vaca Muerta, il gigantesco giacimento di idrocarburi nel nord della Patagonia – e ad una consistente base industriale, che richiederebbe però di essere ammodernata e rafforzata. Da sempre si dice che, se questi fattori fossero al servizio di un Paese ben organizzato, unito al rapporto favorevole tra superficie e numero di abitanti, lo renderebbero uno tra i più ricchi al mondo; attualmente non è così e questa osservazione ci porta sul terreno della politica, passata e presente.
Dopo la fase tumultuosa della conquista dell’indipendenza e dei sommovimenti interni per definire un equilibrio istituzionale, per molti decenni l’Argentina poté avvalersi di un governo forte e stabile, di orientamento liberal conservatore e laicista che ne favorì lo sviluppo (e portò la capitale ad assumere lineamenti ispirati a Parigi ed all’Europa). Una fase, va detto, macchiata da nefandezze come lo sterminio quasi completo delle popolazioni autoctone, che comunque ebbe il massimo successo nei suoi conti economici all’epoca dei grandi proventi generati dalla vendita di derrate alle nazioni europee impegnate nelle Prima guerra mondiale. Un periodo nel quale i forzieri della Banca di Stato non riuscivano a contenere l’oro frutto dei pagamenti.
Uno sviluppo però squilibrato: il rovescio della medaglia fu che, mentre questa potenza economica attirò quote elevatissime di nuovi immigrati – specie, come ben sappiamo, di italiani e spagnoli – la forbice del divario sociale si ampliò enormemente, con il crescere di un malessere popolare diffuso e conseguente instabilità, che, con le ricadute della crisi mondiale del ’29, mise in crisi il sistema e portò al potere i militari e infine il generale Peron. Figura complessa questa, come il movimento da lui fondato. Il periodo peronista durò quasi dieci anni sino al 1955, lasciando il segno, nel bene e nel male, dopodiché si aprì un lunga fase di governi deboli o brevi – tra cui un effimero secondo governo Peron e della sua vedova Isabelita – accompagnati dall’insorgere dal feroce terrorismo di Montoneros ed ERP e da nuovi interventi dei militari.
Le premesse alla situazione odierna
Per comprendere e valutare ciò che sta avvenendo oggi è comunque necessario innestare, almeno schematicamente, la situazione attuale sui passaggi che l’hanno preparata.
La politica argentina è difficilmente raccontabile in via semplificata, per la presenza di partiti politici con denominazioni e radici diverse da quelle familiari in Europa e in Italia. Oggetto, per di più, di frammentazioni e di frequenti scissioni, con repentini accorpamenti e cambi di denominazioni. Un contesto litigioso e fortemente instabile, accompagnato da un sanguinoso terrorismo, che ha favorito frequenti inserimenti “di supplenza” dei militari. Per dire, circa la metà dei trent’anni successivi al primo governo Peron, deposto nel 1955, ha visto all’opera tre diversi governi militari, tra cui, per ultima, la Giunta insediatasi dal 1976 al 1983, che si rese responsabile delle note gravissime violazioni dei diritti umani e della catastrofica decisione della guerra con la Gran Bretagna per le isole contese, Malvinas/Falkland.
Dopo la caduta di questa Giunta, nel 1983, si sono succeduti una decina di governi, all’interno di uno schema grossomodo bipolare, con alternanza, però non paritaria, tra peronisti e antiperonisti. Schieramenti compositi e sempre in movimento: i primi raccolti intorno al PJ (Partido Justicialista) ondeggiante prima tra posizioni più moderate con la presidenza Menem e poi decisamente di sinistra, specie nell’ultima fase Kirchner, i secondi inizialmente guidati dall’ UCR (Union Civico Radical, di orientamento liberale e di centrosinistra) e poi al PRO (Propuesta Republicana) di centrodestra.
Si avviò comunque una fase nella quale governarono a lungo i post-peronisti. Questi ultimi hanno sostanzialmente avuto in mano il Paese negli ultimi anni, a parte una sbiadita parentesi moderata del deludente Mauricio Macri, leader del PRO. La gestione del PJ, specie nel periodo guidato da Cristina Fernandez Kirchner, si rivelò il peggiore per l’andamento dell’economia ma anche per la diffusione della corruzione pubblica, creando così uno stato di insofferenza crescente nel Paese che arrivò a toccare anche larghi strati della tradizionale base peronista.
Nacque così il fenomeno Milei, “el libertario”. Ma di lui parlerò nel prossimo articolo.
(continua)
Bell’articolo davvero…scusate il paragone poco ortodosso… ma è meglio ancora dall’aver letto tutte le recensioni pubblicate su Tripadvisor da tutti gli europei che vi fossero la recati… molto neutra e ben raccontata la situazione politica. Leggerò con piacere il seguito. Bravo all’autore.