Israele, l’alto costo di una vittoria



Enrico Farinone    7 Gennaio 2025       0

Si è scritto più volte in queste note che il governo e l’esercito israeliani avrebbero continuato incessantemente la distruzione di Gaza per sfruttare sino in fondo il sostanziale vuoto di potere che si è creato negli Stati Uniti dopo le elezioni dello scorso novembre. Con il presidente uscente ormai notevolmente indebolito e quello eletto non ancora insediato. Un punto debole della democrazia americana che si ripropone ogni qualvolta c’è un cambio fortemente politico nell’Amministrazione.

Ora però Trump è in arrivo e Netanyahu sa bene che esigerà la conclusione dei bombardamenti sulla Striscia per poter dire che arrivato lui la guerra si ferma. Dunque la situazione sul terreno verrà congelata e quindi Tel Aviv sfrutta sino in fondo gli ultimi giorni utili per allargare la sua presenza e al contempo abbattere quanto più possibile le residue postazioni esterne e sotterranee di Hamas.

La nuova presidenza americana, una presidenza ancora più amica della precedente, comporta per Israele la necessità di ragionare su un assetto regionale più stabile e in un qualche modo pacifico o comunque non in stato di conflitto perenne. Questo è il tema che potrebbe mettere in difficoltà l’attuale governo, così radicale ed estremo. Ma per ora le cose procedono alquanto bene, dal suo punto di vista.

Sul terreno militare l’IDF non solo ha confermato la sua indiscutibile superiorità (garantita dal costante sostegno USA) ma ha decisamente rafforzato la propria posizione sul terreno. Infatti l’attuale governo israeliano ha colto l’occasione per indebolire il nemico iraniano attaccando direttamente e duramente i suoi emissari in loco, i cosiddetti proxy. Non solo Hamas, diretta responsabile del massacro del 7 ottobre, sino a quel momento lasciata abbastanza tranquilla (tranne che nei periodici scontri innescati dal lancio di missili da Gaza verso il territorio israeliano) in funzione anti ANP (l’Autorità Nazionale Palestinese), organizzazione da indebolire nella logica di un maggior controllo della Cisgiordania; ma anche Hezbollah, vero cuneo filo-iraniano nella regione, assai insidioso non solo militarmente in ragione del consistente potere detenuto in Libano di cui controlla(va) totalmente la fascia meridionale confinante con lo stato ebraico.

Ed infatti i colpi durissimi inferti sia alla catena di comando che alla logistica e all’organizzazione territoriale del movimento sciita sono stati meticolosamente studiati (i piani esecutivi erano pronti da tempo, per essere – appunto – utilizzati alla prima occasione) e puntualmente eseguiti, a testimonianza di un preciso programma militare e politico. Ma non è tutto.

Perché anche il proxy iraniano meno vicino all’area più calda è stato colpito. Gli yemeniti Houthi, per la verità, hanno attirato su di sé le attenzioni non solo israeliane in seguito alla loro campagna ostile al traffico mercantile internazionale che solca il Golfo di Aden e poi il Mar Rosso transitando per lo stretto di Bab-el-Mandeb; e soprattutto hanno attaccato direttamente le città israeliane lanciando nell’ultimo anno oltre 220 tra missili e droni, non tutti intercettati dallo scudo difensivo americano THAAD recentemente installato. Alcuni di questi missili sono balistici – di evidente dotazione iraniana – e dunque potenzialmente lesivi dello spazio aereo israeliano. Quindi realmente pericolosi per la popolazione.

Nelle ultime settimane i caccia con la stella di David hanno colpito in profondità, nello Yemen occupato in larga misura dagli Houthi: l’aeroporto della capitale Sana’a e importanti infrastrutture portuali sul Mar Rosso, come quella di Hodeidah. Con una chiosa, esplicitata a chiare lettere dal premier Netanyahu: gli Houthi ci attaccano e dunque patiranno la stessa sorte di Hamas e Hezbollah. Il messaggio è limpido, nella sua brutalità; le milizie terroristiche sostenute dall’Iran verranno eliminate, distrutte: “continueremo finché il lavoro non sarà finito”.

Dal punto di vista politico l’indebolimento iraniano e le pressioni che Trump eserciterà sui sauditi potrebbero favorire l’allargamento all’Arabia degli Accordi di Abramo, evento che potrebbe stabilizzare la regione e favorire una qualche soluzione compromissoria nel complicato mosaico religioso degli altri due Stati, Libano e Siria, nei quali l’Iran aveva in questi ultimi vent’anni esercitato un potere crescente.

Dopo oltre un anno di guerra, dunque, Israele sembra in procinto di vincerla. Però ne ha persa una forse molto più importante, anche se agli attuali governanti non pare affatto interessare: quella dell’empatia internazionale, ivi inclusa quella delle opinioni pubbliche occidentali. La “crudeltà”, per dirla col termine utilizzato dal Papa, dimostrata a Gaza ha azzerato quel residuo “soft power” che il popolo ebraico vittima dell’Olocausto ha avuto per decenni e che la mattanza del 7 ottobre avrebbe ulteriormente rafforzato, non solo in Occidente.

Oggi invece Israele è sostanzialmente isolato nel mondo. Ha con sé solo gli Stati Uniti, e nemmeno tutta la pubblica opinione, specie giovanile, di quel paese. Così, sul terreno militare e su quello politico le cose per Tel Aviv paiono procedere bene. È stato però seminato odio. Tanto odio. Che inevitabilmente non genererà pace, per le generazioni future.

(Tratto da www.ildomaniditalia.eu)


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