Gli “arcipelaghi” del mondo multipolare



Giuseppe Ladetto    9 Dicembre 2024       1

Multilateralismo e multipolarismo, con i correlati di unilateralismo e unipolarismo, sono termini che ricorrono in articoli, dibattiti e discorsi di politici e rappresentanti delle istituzioni. Non sempre però se ne sente fare un uso che eviti equivoci poiché il significato di tali vocaboli risente della situazione geopolitica o storica in cui vengono utilizzati.

Durante il periodo della “guerra fredda”, il mondo era considerato spaccato in due ed era definito “bipolare”, malgrado la non trascurabile presenza dei Paesi “non allineati” e il fatto che la Cina avesse progressivamente preso le distanze dall’Unione Sovietica; inoltre, anche nel campo “americano”, c’era la dissidenza della “Francia gollista”. Nell’insieme però i protagonisti restavano America e Unione Sovietica a giustificare il ricorso al termine bipolarismo.

Con la disintegrazione dell’Unione Sovietica, all’inizio degli anni Novanta, è rimasta in campo una sola grande potenza, e il mondo è diventato “unipolare”. È un momento in cui era marcato il divario tra Stati Uniti e le altre potenze: la Russia occupava, da posizione molto debole, lo spazio, già in fase calante, che era stato dell’Unione Sovietica, mentre la Cina, in forte crescita economico-commerciale e produttiva, restava ancora molto indietro sul terreno militare e politico. In pratica, gli Stati Uniti potevano fare ciò che volevano.

Quando nel 2003, il presidente Bush junior decise di attaccare l’Iraq, Kofi Hannan, Segretario generale dell’ONU, condannò tale azione ritenuta non in conformità con la Carta delle Nazioni Unite, e denunciò pertanto l’unilateralismo americano (ciò che gli costò la mancata riconferma all’incarico di Segretario).

Con il termine “unilateralismo”, Kofi Hannan non alludeva alla situazione di “unipolarismo” esistente, ma al crescente mancato coinvolgimento degli organismi internazionali nell’affrontare gli eventi e dirimere i contrasti tra Paesi. Si evidenzia quindi la non sovrapposizione fra i termini di “unilateralismo” e “unipolarismo”.

Anzi, anche in un mondo “unipolare”, dominato da una singola potenza, in teoria potrebbe sussistere il “multilateralismo” se tale grande potenza accettasse di delegare la risoluzione delle criticità agli organismi internazionali in un clima di collaborazione tra i Paesi rappresentati in seno a questi. Pare tuttavia evidente che ciò sarebbe possibile (al di là della volontà, alquanto improbabile, della grande potenza di accettare limiti al suo agire) solo se tra i Paesi invitati a collaborare esistesse una comune o prossima concezione dei valori e degli interessi a cui ispirare l’azione. Ciò che evidentemente non accade oggi, e difficilmente avverrà domani.

In parallelo all’affermazione del nuovo assetto nei rapporti di forza tra le potenze, ha preso avvio la globalizzazione con l’apertura dei mercati e la libera circolazione dei capitali. È l’epoca in cui Francis Fukuyama scrisse La fine della storia prevedendo che la liberaldemocrazia, con il libero mercato e lo sviluppo capitalistico, si sarebbe estesa al mondo intero.

Tuttavia, le cose non sono andate come ci si aspettava. Sono sorte opposizioni in varie parti del mondo, tradottesi talora anche in forma violenta, mentre si sono evidenziati effetti negativi non previsti (guasti ambientali, aumento dei divari tra aree geografiche, impoverimento delle fasce deboli della popolazione in Europa e USA, vasti fenomeni migratori incontrollati).

Mario Deaglio, nel 2003, tenendo conto delle ricadute negative del processo di globalizzazione, non previste ma evidenti, aveva ventilato la necessità di dare vita a un differente modello di relazioni economiche, prospettando la nascita di un “arcipelago” di “isole” caratterizzate dall'integrazione commerciale tra Paesi geograficamente prossimi e legati da vincoli storico-culturali, lasciando a livello globale i mercati delle materie prime, una parte della finanza, nonché le reti (trasporti, comunicazioni, internet). Un disegno che, allora, era giudicato improponibile dai più perché la globalizzazione era già andata molto avanti, e per l’opposizione della potenza dominante, che nella globalizzazione vedeva una via atta a rafforzare ulteriormente la sua influenza.

Oggi, tuttavia, tale disegno si ripropone non solo perché si sono rese più palesi e accresciute le criticità già intraviste all’inizio del nuovo secolo, ma a seguito di quanto ha evidenziato la pandemia di Covid. Questa ha sconvolto per più anni la vita dei Paesi, le attività economiche e gli scambi internazionali, rivelando i pericoli insiti nella totale dipendenza di ogni nazione dall’estero riguardo a beni vitali, come è stato per farmaci e presidi sanitari vari. Una preoccupazione accresciutasi con la guerra in Ucraina, le sanzioni alla Russia, il deteriorarsi della situazione in Medio Oriente e le minacce al traffico marittimo nel mar Rosso.

Si aggiunga che, nel clima di bellicismo ormai dominante, disattendono le regole del mercato globale le crescenti misure (blocchi, sanzioni, divieti di esportazione di prodotti “strategici”, pesanti dazi selettivi), dettate da logiche militari, volte a creare difficoltà produttive al Paese nemico.

Indipendentemente dagli esiti delle guerre in corso (dirette o indirette) tra le potenze, si sta verificando una redistribuzione del potere a livello mondiale con l’instaurarsi di un "multipolarismo complesso”.

In primo luogo, ci sono gli Stati Uniti e la Cina, in competizione per il primato economico-produttivo; vengono poi potenze politicamente importanti a livello regionale (India, Russia, Turchia, Arabia Saudita, Indonesia, Brasile e Iran). Vi sono infine attori prevalentemente economici, come la UE e il Giappone, che al forte peso economico non accompagnano una altrettanta rilevanza politica e autonomia decisionale.

Oggi, il futuro della globalizzazione è incerto. Quell’ipotesi di Deaglio dell’“arcipelago” si ripropone in una prospettiva non solo di natura economica (come forse riteneva l’economista torinese), ma soprattutto politica. Le costituende “isole” dell’“arcipelago” sono in prevalenza potenze regionali “di terra” il cui spazio di influenza si estende per un raggio più o meno ampio, inglobando Paesi linguisticamente e culturalmente prossimi, e/o con sistemi economico-produttivi similari o complementari. Questi nuovi soggetti, malgrado non possano, per la loro natura di potenze “di terra”, aspirare a un dominio planetario, nelle corde delle sole potenze marittime, tuttavia tolgono inevitabilmente spazio a queste ultime che sempre richiedono frontiere aperte. Sono pertanto avversate da quella attualmente dominante, gli USA. Certo, in controtendenza, c’è la novità di Trump, ma staremo a vedere fino a che punto potrà introdurre dazi senza provocare negative ricadute economiche e politiche sul Paese da lui governato.

I nuovi protagonisti sulla scena internazionale sono talora definiti Stati-civiltà poiché ciascuno di essi rivendica la propria cultura e storia. Pertanto, alcuni richiedono che siano rivisitati quei valori e diritti espressi dalle Nazioni Unite dei quali non riconoscono il carattere universale essendo stati prodotti in un momento storico in cui era dominante la sola cultura occidentale.

Inizialmente, a rivendicare questo ruolo, sono state la Russia e la Cina, che non intendono riconoscere la potenza dominante dell’Occidente sottomettendosi ad essa. In seguito, sono entrati nel gruppo contestatario importanti Paesi (India, Arabia Saudita, Sudafrica, Brasile, Turchia e Iran), mentre altre nazioni dell’America latina e dell’Africa si sono messe in fila per farne parte.

Si è così determinata una situazione complessa di cui è difficile prevedere gli sviluppi.

Gli “Stati-civiltà”, o meglio l’insieme degli Stati che non si riconoscono nell’Occidente, non costituiscono tuttavia un fronte compatto. Alcuni (come la Russia o l’Iran) vorrebbero un radicale cambiamento dell’attuale ordine internazionale; altri (come l’India), beneficiati dalla globalizzazione in termini di crescita economica, hanno un atteggiamento più moderato, di taglio “riformista”. Non è pertanto chiaro fin dove questi ultimi si spingeranno nel contrasto con l’Occidente, sempre che la potenza egemone non neghi ad essi ogni riconoscimento dello status a cui ambiscono sulla scena internazionale. C’è poi la Cina, che certo ha tratto rilevante vantaggio dalla globalizzazione, ma che, a differenza dell’India, non può assumere un atteggiamento moderato perché sa di essere nel mirino degli USA, non disponibili a riconoscerle uno status paritario (sia pure solo economico) in un nuovo ordine mondiale.

L’America infatti, malgrado tutto, continua ad essere la potenza Numero Uno, disponendo di forze militari ancora soverchianti (che è sempre più incline a utilizzare per dirimere i contrasti e superare gli ostacoli), di una competenza tecnologica, scientifica e organizzativa molto elevata, mentre controlla in larga misura il sistema finanziario e quello delle comunicazioni. È inoltre portatrice di una ideologia (quella liberaldemocratica) da molti ritenuta di carattere universale, mentre, come Paese, mostra ancora attrattiva, come emerge dai rilevanti flussi migratori verso essa orientati.

Tuttavia a spingere in altra direzione, c’è innanzi tutto la crisi della globalizzazione destinata ad aggravarsi per la probabile comparsa all’orizzonte di nuovi “cigni neri” in un mondo in cui aumentano criticità di varia natura. C’è, altrettanto importante, l’accelerazione del processo di riscaldamento climatico per contrastare il quale si imporranno misure richiedenti una profonda revisione dei modi di vita, dei consumi e delle modalità produttive dei Paesi sviluppati con conseguenze ancora difficilmente prevedibili, ma che comunque causeranno più incertezza e chiusure. Inoltre c’è la continua crescita del divario di ricchezza tra Paesi ricchi e poveri, e tra i membri dell’attuale oligarchia e le classi popolari; e poi l’aggravarsi dello squilibrio demografico fra il Sud del mondo e l’insieme delle nazioni occidentali, fra le quali sono molte quelle affette da una denatalità patologica che attesta il fallimento dell’individualismo estremo, proprio del modello culturale da tempo adottato.

Una Europa autonoma che abbia ritrovato la sua identità (distinguendosi dall’essere soltanto un pezzo dell’Occidente) potrebbe incidere significativamente sugli equilibri che si andranno ad instaurare in un mondo multipolare. Tuttavia, al momento, non solo non si vede traccia di un tale cammino, ma la UE non sembra in grado di fare passi in questa direzione perché priva della volontà di riconoscersi come un soggetto capace di proprie iniziative.


1 Commento

  1. Il capoverso finale è la sostanza della riflessione e il baricentro della questione geopolitica internazionale. Come ripeto da sempre senza Europa Politica come soggetto Istituzionale e senza risolvere la decadenza “in fieri” delle “società del benessere” non si può sperare in nulla di buono nei futuri equilibri internazionali. Solo la nostra capacità di sintesi pacifica tra pensieri politici, filosofie, religioni, sistemi economici, culture, ordinamenti istituzionali e pratiche sociali e sanitarie può porsi come mediatrice avanzata di istanze diverse globali. Ne abbiamo dato prova negli ultimi ottant’anni di Pace, pur in mezzo a tanti gravi errori (penso alla ex-Jugoslavia). L’Europa Politica come soggetto Istituzionale rimetterebbe in discussione il seggio permanente della Francia (e magari della Gran Bretagna se in un sussulto di ravvedimento facesse marcia indietro sulla Brexit) all’ONU, innescando il processo di riforma politica ed istituzionale funzionale ad un nuovo ordine internazionale. All’orizzonte solo acqua, niente terra. La storia insegna che tutte le civiltà fiorenti al culmine del loro benessere sono inevitabilmente decadute. Mi auguro un sussulto di pensieri e di attori europei che scongiurino questa fine già scritta anche per noi. Avvolto da tale pessimismo mi ostino a riflettere e a considerare tre situazioni complesse e diverse che navigano negli arcipelaghi descritti.
    1) Difficile immaginare un tavolo politico e diplomatico capace di costruire un nuovo e pacifico ordine mondiale. Non potrebbe prescindere dai contraenti dei Patti di Yalta e già abbiamo un conflitto militare in essere, di fatto, tra gli eredi di Roosevelt, Churchill e Stalin. Comprenderebbe a pieno titolo anche la Francia e la Cina Comunista, un attore dell’Europa Politica che non c’è e l’erede del rivoluzionario usurpatore della titolata Cina Nazionalista, grazie a Kissinger e Nixon autori del più grande errore politico/diplomatico della storia recente, di cui oggi paghiamo le conseguenze, naturalmente a mio giudizio. Poi bisognerebbe allargare agli altri Paesi Europei, raccolti in ordine sparso. Indi bisognerebbe invitare gli emergenti Paesi Indo Asiatici, poscia i neo-attori Arabi (arbitri del petrolio), il Brasile e gli altri paesi sudamericani senza dimenticare il Canada, i paesi dell’America Centrale (latori della questione legata al narco traffico internazionale), l’Australia, il Giappone e l’Africa. Già, l’Africa; quale Africa? Quella delle colonie, dei protettorati, quella centrale interna comprata dalla Cina per lo sfruttamento delle “commodities” e delle terre “rare” senza benefici per le popolazioni indigene? Certo, un sussulto di responsabilità da parte degli USA, condivido, sarebbe fondamentale per avviare e, non dico guidare ma almeno indirizzare, un simile importante percorso. I nipotini di Roosevelt e Truman non paiono all’altezza. Comunque, solo “spinti” e aiutati dall’Europa Politica Istituzionale sarebbero in grado di esercitare tale ruolo.
    2) E’ possibile sedersi a tavola su una questione immensa come il Nuovo Ordine Internazionale con dittatori che invadono militarmente Nazioni altre, legittime, con modalità reiterate e consolidate proprio negli ottant’anni di cui sopra? Non credo affatto che gli attuali tiranni di Russia, Cina e Iran per citare i più noti, afferenti a Civiltà diverse e costituiti in “Stati-civiltà”, possano essere interlocutori affidabili e rispettabili, uniti dalla comune avversione occidentale, divisi sulle prospettive. Neo imperialista quella russa da conseguire militarmente, egemonica quella comunista cinese da realizzare “acquistando” poco per volta il resto del mondo (debiti pubblici, aziende, territori ricchi di minerali ”rari”), religiosa quella iraniana da imporre attraverso il terrorismo fondamentalista. Senza dimenticare il “piccolo” dittatore della Corea del Nord, fornitore di truppe in soccorso alla Russia.
    3) Ultima questione ma non meno rilevante: Stati Uniti, Canada, Paesi Europei, Giappone, Australia, in buona sostanza il mondo occidentale, si siederebbero al tavolo nel momento in cui affrontano la fine annunciata del loro “benessere”, inevitabilmente proiettati verso la decadenza senza efficaci correzioni di rotta? Potrebbero porsi ancora una volta come arbitri-giocatori di una simile partita?
    Temo che il mediocre livello degli attori che calcano le scene internazionali governando i propri paesi non siano all’altezza della storia. Probabilmente finirebbero o finiranno “tirati” dagli eventi per sedersi tutti insieme o un po’ per volta in sedute successive, ad un tavolo diplomatico (armato), ognuno con le proprie consistenze di forza da far valere in un complessivo “do ut des” dove gli interessi complessi si comporrebbero a discapito dei più deboli, come sempre. Altro sarebbe da auspicare con attori compresi dei destini da costruire insieme, nella Pace condivisa. Le ultimissime vicende Siriane ci ricordano come i tiranni vengano sempre abbattuti prima o poi (succederà anche in Russia, Iran, Cina e Corea del Nord è solo questione di tempo). Ci rammentano anche che gli USA, o forse solo la CIA con l’aiuto di alleati territoriali (leggi Turchia), non trascurano mai le vicende di importanza strategica. Gli accadimenti in Medio Oriente seguiti alla strage truculenta di ottobre 2023 hanno una logica, perversa ma pianificata, anche se in fretta e furia. Al lavoro “sporco” ci ha pensato Netanyahu. Logica asservita anche alla “rivolta siriana”. Il tiranno è stato abbattuto, il terrorismo fondamentalista di matrice iraniana è stato sconfitto, per adesso, la Russia è in rapida ritirata mentre le inermi popolazioni civili continuano ad essere decimate. Il cinismo dei “danni collaterali”. Opportunismo geopolitico. Si inserisce in questo contesto anche la complicata vicenda curda. Popolo variegato di grande cultura e intelligenza, blandito e bistrattato a seconda delle evenienze (e convenienze), anche “usato” e poi abbandonato a sé stesso, perseguito a più riprese dai turchi, come nel contesto attuale. Vicenda analoga per molti versi a quella palestinese di cui non parla nessuno. Intanto il capo islamista delle varie fazioni Siriane promette unità nella condivisione, in dialogo con l’occidente. Lo promisero anche i Talebani, vedremo. Ne usciremo in meglio? Sembra impossibile agli uomini, tuttavia nulla è impossibile a Dio.
    Maurizio Trinchitella

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