Siamo tutti colpiti dall’orrore di quello che gli stessi terroristi di Hamas hanno postato sui social e di quanto si vede in tv sui bombardamenti israeliani che colpiscono la striscia di Gaza.
Inutile fare la classifica degli orrori che avvengono da 70 anni in Terra Santa, partendo dal peccato originale della prima guerra arabo israeliana del 1948, dopo la decisione dell’ONU di dividere la Palestina in due piccoli Stati. Come ci sembra saggia oggi quella decisione e folle la risposta araba che la rifiutò e fu sconfitta.
La violenza non ha risolto nulla, né da parte araba né da parte israeliana. La vendetta chiama nuova vendetta. I cosiddetti “accordi di Abramo”, fra Israele e alcuni Paesi arabi (si era alla soglia di un clamoroso accordo con l’Arabia Saudita), non chiariscono come risolvere il problema di alcuni milioni di palestinesi ammassati fra Gaza e la Cisgiordania (o West Bank), fra i quali si intrufolano ancora nuovi insediamenti di coloni ebrei, intransigenti e armati, che occupano terre in teoria destinate all’Autorità palestinese. C’è anche il problema dei profughi palestinesi nei Paesi arabi limitrofi, soprattutto in Libano.
Proprio nei giorni della violenza terroristica di Hamas, il quotidiano israeliano “Haaretz” ha pubblicato un breve filmato in cui si vede senza censure un colono ebreo armato di fucile automatico uccidere a sangue freddo un arabo palestinese disarmato con il quale stava discutendo. Siamo vicini al villaggio palestinese di At-Tuwani, che si trova a sud di Hebron. Sullo fondo un reparto dell’esercito israeliano che non interviene (filmato diffuso dall’organizzazione israeliana non governativa B'Tselem).
La violenza è frutto della paura e della diffidenza. Nessuno si fida di nessuno fra le due parti. Raid violenti da parte di gruppi armati israeliani sono avvenuti quest’anno in diversi villaggi palestinesi della Cisgiordania. Ne dà notizia sempre il giornale israeliano “Haaretz”, molto critico sulla politica del governo Netanyahu. Atti di violenza o terroristici vengono compiuti da militanti palestinesi ai danni di cittadini israeliani.
Se è vero che il movimento sionista non ha mai pensato allo sterminio dei palestinesi. “È vero però che l’idea dell’espulsione degli arabi per garantire il nostro Stato è stata costante” ha detto lo scrittore israeliano Tom Segev al “Corriere della Sera”.
Penso che i governi israeliani degli ultimi anni abbiano pensato di attuare questa politica, anche una politica del divide et impera, cioè di poter convivere con Hamas, lavorando per indebolire l’Autorità palestinese in Cisgiordania. Così non hanno contrastato fino in fondo il rafforzamento militare di Hamas (possibile che non sapessero di quanti missili si stava dotando una enclave così controllata e infiltrata di spie al soldo dello Stato ebraico?). D’altronde la nascita di Hamas –acronimo di Ḥarakat al-Muqāwama al-Islāmiyya, movimento di resistenza islamica – alla fine degli anni Ottanta non è stata contrastata dagli israeliani che vi vedevano un elemento di indebolimento dell’OLP. Insomma, la politica che fa del nemico del mio nemico un mio amico.
Una politica assai praticata in Medio Oriente, ad esempio in Libano e Siria, ma sempre con effetti di violenza e sopraffazione.
Così non cresce nessuna prospettiva di pace. Nessun leader in grado di far uscire quelle disgraziate popolazioni da una condizione di paura e sottosviluppo. Così si mantengono al potere dittatori e autocrati. Ma il ragionamento potrebbe estendersi alle repubbliche ex sovietiche dell’area asiatica, a maggioranza musulmana.
È evidente che “se non c’è limite all’odio e alla vendetta a prosperare è solo il terrore”, come ha scritto Maurizio Maggiani sulla “Stampa”.
E il terrore non può aver limiti se in campo scendono altri attori come l’Iran, direttamente o più probabilmente attraverso i suoi alleati Hezbollah o le sue milizie Pasdaran. Oppure si rinfocolano movimenti terroristici come i vari movimenti che si rifanno alla Jihad islamica.
La vendetta non è mai giustizia, vale per tutti e in tutti i casi. O almeno così pensano i cattolici che si rifanno all’insegnamento del Papa che anche in questi ultimi anni non ha mai smesso di predicare contro la follia della guerra nelle sue varie declinazioni.
Ma per fare una politica di pace ci vogliono uomini molto più coraggiosi che per fare una politica di guerra.
Non saranno i Netanyahu o i leader di Hamas, che in un certo senso si sostengono a vicenda.
Inutile fare la classifica degli orrori che avvengono da 70 anni in Terra Santa, partendo dal peccato originale della prima guerra arabo israeliana del 1948, dopo la decisione dell’ONU di dividere la Palestina in due piccoli Stati. Come ci sembra saggia oggi quella decisione e folle la risposta araba che la rifiutò e fu sconfitta.
La violenza non ha risolto nulla, né da parte araba né da parte israeliana. La vendetta chiama nuova vendetta. I cosiddetti “accordi di Abramo”, fra Israele e alcuni Paesi arabi (si era alla soglia di un clamoroso accordo con l’Arabia Saudita), non chiariscono come risolvere il problema di alcuni milioni di palestinesi ammassati fra Gaza e la Cisgiordania (o West Bank), fra i quali si intrufolano ancora nuovi insediamenti di coloni ebrei, intransigenti e armati, che occupano terre in teoria destinate all’Autorità palestinese. C’è anche il problema dei profughi palestinesi nei Paesi arabi limitrofi, soprattutto in Libano.
Proprio nei giorni della violenza terroristica di Hamas, il quotidiano israeliano “Haaretz” ha pubblicato un breve filmato in cui si vede senza censure un colono ebreo armato di fucile automatico uccidere a sangue freddo un arabo palestinese disarmato con il quale stava discutendo. Siamo vicini al villaggio palestinese di At-Tuwani, che si trova a sud di Hebron. Sullo fondo un reparto dell’esercito israeliano che non interviene (filmato diffuso dall’organizzazione israeliana non governativa B'Tselem).
La violenza è frutto della paura e della diffidenza. Nessuno si fida di nessuno fra le due parti. Raid violenti da parte di gruppi armati israeliani sono avvenuti quest’anno in diversi villaggi palestinesi della Cisgiordania. Ne dà notizia sempre il giornale israeliano “Haaretz”, molto critico sulla politica del governo Netanyahu. Atti di violenza o terroristici vengono compiuti da militanti palestinesi ai danni di cittadini israeliani.
Se è vero che il movimento sionista non ha mai pensato allo sterminio dei palestinesi. “È vero però che l’idea dell’espulsione degli arabi per garantire il nostro Stato è stata costante” ha detto lo scrittore israeliano Tom Segev al “Corriere della Sera”.
Penso che i governi israeliani degli ultimi anni abbiano pensato di attuare questa politica, anche una politica del divide et impera, cioè di poter convivere con Hamas, lavorando per indebolire l’Autorità palestinese in Cisgiordania. Così non hanno contrastato fino in fondo il rafforzamento militare di Hamas (possibile che non sapessero di quanti missili si stava dotando una enclave così controllata e infiltrata di spie al soldo dello Stato ebraico?). D’altronde la nascita di Hamas –acronimo di Ḥarakat al-Muqāwama al-Islāmiyya, movimento di resistenza islamica – alla fine degli anni Ottanta non è stata contrastata dagli israeliani che vi vedevano un elemento di indebolimento dell’OLP. Insomma, la politica che fa del nemico del mio nemico un mio amico.
Una politica assai praticata in Medio Oriente, ad esempio in Libano e Siria, ma sempre con effetti di violenza e sopraffazione.
Così non cresce nessuna prospettiva di pace. Nessun leader in grado di far uscire quelle disgraziate popolazioni da una condizione di paura e sottosviluppo. Così si mantengono al potere dittatori e autocrati. Ma il ragionamento potrebbe estendersi alle repubbliche ex sovietiche dell’area asiatica, a maggioranza musulmana.
È evidente che “se non c’è limite all’odio e alla vendetta a prosperare è solo il terrore”, come ha scritto Maurizio Maggiani sulla “Stampa”.
E il terrore non può aver limiti se in campo scendono altri attori come l’Iran, direttamente o più probabilmente attraverso i suoi alleati Hezbollah o le sue milizie Pasdaran. Oppure si rinfocolano movimenti terroristici come i vari movimenti che si rifanno alla Jihad islamica.
La vendetta non è mai giustizia, vale per tutti e in tutti i casi. O almeno così pensano i cattolici che si rifanno all’insegnamento del Papa che anche in questi ultimi anni non ha mai smesso di predicare contro la follia della guerra nelle sue varie declinazioni.
Ma per fare una politica di pace ci vogliono uomini molto più coraggiosi che per fare una politica di guerra.
Non saranno i Netanyahu o i leader di Hamas, che in un certo senso si sostengono a vicenda.
La decisione dell’ONU del 1948 di dividere la Palestina in due piccoli Stati, “come ci sembra saggia oggi, e folle la risposta araba che la rifiutò e fu sconfitta” viene detto nell’articolo. Ma è facile dare giudizi a posteriori, senza interrogarsi su come si presentavano i fatti a quel tempo.
“Una terra senza popolo per un popolo senza terra” è stato lo slogan che ha posto le basi del conflitto fra arabi ed immigrati ebrei, e poi tra palestinesi e israeliani.
La Palestina sotto mandato britannico aveva una superficie di 26.625 kmq ed una popolazione, ai primi del Novecento, di circa 700.000 abitanti, (nella quasi totalità arabi musulmani, drusi e cristiani). A titolo di confronto, la Sardegna, con una superficie di 24.100 kmq, all’epoca aveva circa 800.000 abitanti, e nessuno in Italia la considerava una terra vuota, senza popolo. Aggiungo che, sul finire dell’Ottocento, gli ebrei in Palestina erano solo alcune migliaia, di recente immigrazione.
Come mai nei secoli la presenza ebraica si era dissolta? L’emigrazione dal territorio che definiamo oggi Palestina era già cominciato ai tempi in cui sovrani ellenistici (tolomei e seleucidi) si contendevano tale terra, ma è diventato un esodo dopo che le due grandi rivolte ebraiche vennero soffocate nel sangue da Tito, nel 70 d. C, e da Adriano, nel 135 d. C. In particolare, un editto di Adriano bandì dal paese tutti gli ebrei sopravvissuti alla repressione e non fatti schiavi.
Dopo la dichiarazione di Balfour del 1917, prese inizio una crescente (e sempre più contrastata dai palestinesi) immigrazione ebraica che si fece un fiume impetuoso alla fine della 2° guerra mondiale. In Palestina, ad inizio del 1948, secondo un censimento delle Nazioni Unite, la popolazione araba era di 1.237.000 persone, quella ebraica di 608.000. E qui giunse la proposta di spartizione dell’ONU.
Allo Stato di Israele vennero assegnati 14.910 kmq (56%). a quello arabo 11.500 kmq (43,2%), alla Zona internazionale, comprensiva di Gerusalemme (ove abitavano 200.00 persone, ½ arabi e ½ ebrei) poche centinaia di kmq (meno dell’1%).
Perché venne assegnata una quota significativamente maggiore a Israele quando gli ebrei erano la metà degli arabi? Si disse che una parte cospicua (40%) del territorio assegnato ad Israele era costituito dalle terre aride o desertiche del Negev, ma si trascura che erano di pertinenza israeliana la quasi totalità delle terre coltivabili (con l’80% dei terreni cerealicoli), situate nel tratto costiero, e le principali risorse idriche del paese. Inoltre, terre desertiche, sia pure di minore estensione, erano presenti anche nella parte araba.
Rilevante è stato un altro fatto. Nel territorio ove era maggioritaria la presenza ebraica, vivevano, in villaggi rurali, circa 400.000 arabi, e l’ONU li conteggiò (unitamente alla popolazione ebraica) per definire la dimensione del territorio da assegnare allo Stato di Israele senza però stabilire con chiarezza il loro destino. Anche se non detto esplicitamente, quegli arabi dovevano continuare a risiedere dove erano sempre vissuti, ma per Israele andavano espulsi per far posto al crescente numero di coloro che, nei porti europei, erano in attesa di partenza verso la nuova patria. E così ben preso (ad inizio 1948) si cominciò a procedere alle espulsioni. Il massacro della popolazione del villaggio di Deir Yassin ad opera di uomini dell’Irgun e della Banda Stern (con l’appoggio di reparti dell’Haganah), avvenuto nell’aprile del 1948 (prima della nascita dello Stato di Israele, e dello scoppio della guerra) terrorizzò gli arabi e ne determinò un massiccio esodo. Fu questo fatto una delle principali cause del conflitto. Quando esso prese inizio, l’ONU impose una tregua e volle rendersi conto di quanto accadeva sul campo, inviando come mediatore il conte Bernadotte (diplomatico, nipote del re di Svezia). Questi però venne presto ucciso da alcuni uomini della Banda Stern (fra i quali c’era Yitzhak Shamir futuro primo ministro), e di fatto l’ONU finì per lavarsene le mani senza più fare nulla.
La ripartizione del territorio prevista dalle Nazioni Unite era palesemente iniqua e inaccettabile per gli arabi. Perché fu presa una tale decisione di parte? L’opinione pubblica occidentale vedeva negli immigrati ebrei gli scampati all’olocausto, ed era mossa da un sentimento di partecipazione all’impresa di quanti volevano costruirsi un proprio paese. Inoltre, molti europei, schierandosi con gli israeliani, cercavano di far dimenticare le proprie responsabilità, e il coinvolgimento o la colpevole disattenzione rispetto alle allora ancora recentissime politiche antisemite e i crimini che ne erano conseguiti. Tutto comprensibile, ma perché dovevano essere i palestinesi a pagarne il prezzo?
Il coraggio della pace rappresenta un pensiero politicamente scorretto. Tanto da provocare alcune riflessioni impegnative. E’ noto che il coraggio o lo si ha o nessuno può darlo, prestarlo o distribuirlo; ragion per cui è tanto politicamente scorretto quanto efficace rappresentare il perseguire la via della pace tramite il coraggio del pensiero, della diplomazia, della politica; non con il pacifismo semmai con la preghiera, ma riguarda i “liberi e forti” Sturziani credenti.
La realtà del mondo contemporaneo non è mai quella che si vorrebbe che fosse. La pace è una conquista da meritare non da pretendere. E quando la si è meritata va coltivata, mantenuta, difesa, come ricorda sempre il nostro Presidente della Repubblica, con coraggio! Il coraggio della democrazia, per alimentare e mantenere la pace. l’esperienza del continente europeo maturata negli ultimi settantacinque anni dovrebbe aver insegnato qualcosa ai più.
L’attacco terroristico scatenato da Hamas a danno di Israele il 7 ottobre scorso, a venti mesi dall’aggressione militare della Federazione Russa ai danni dell’Ucraina, si inserisce in un contesto di novità geopolitica conseguente al lento, ma continuo, sfaldarsi dell’ordine internazionale stabilito a Yalta nel 1945, accelerato dalla caduta del muro di Berlino e dai conseguenti effetti prodotti e non governati.
Leggere il conflitto attuale in un semplice contesto di rivalità, odio e barbarie tra mondo arabo e popolo ebreo è quantomeno riduttivo, se non banale e addirittura fuori luogo. Due gli elementi da non sottovalutare: la crudele ferocia usata dai terroristi ai danni di donne e bambini inermi; la minuziosa preparazione di un attacco sintesi di tecnica, tattica e strategia di guerriglia militare; toccata e fuga con rimorchio di ostaggi, tutto condito dalla innovativa propaganda social. Risulta evidente come un tale spiegamento di forza, non quantitativamente ma qualitativamente, sia stato possibile solo con aiuti di potenze estranee alle annose diatribe arabo-israeliane. Le stesse potenze che hanno interesse a destabilizzare il mondo occidentale, già in crisi per cause endogene, utilizzando la favorevole congiuntura mediorientale a tal fine. Nello specifico dell’attualità ho già avuto modo di precisare la genesi del conflitto riconducibile alle determinazioni dell’ONU nel 1948, accettate da Israele e non dal mondo arabo sostenitore interessato e non casuale della giusta causa Palestinese. Ritengo superfluo sia approfondire ulteriormente radici storiche propedeutiche alle decisioni del 1948, sia enucleare le fasi di uno scontro armato permanente protrattosi dal 1948 fini ai giorni nostri. Frullare date e ricorrenze non aiuta a comprendere e definire i possibili percorsi di pace. Le responsabilità sono chiare da ambo le parti. Limitare le riflessioni ad una prospettiva territoriale, topografica, anagrafica o “salomonicamente” una regione a te e una a me, in base a chissà quali condivisioni possibili, ritengo sia utile a distrarre l’attenzione dal vero problema di fondo ma non a costruire una Pace duratura. Opino una chiave di lettura maggiormente articolata.
Senza scomodare la storia del “popolo eletto”, biblica e comunque fondata, proseguo la mia riflessione sullo scontro, ma sarebbe maggiormente precipuo definire confronto, tra le civiltà, in atto da che mondo è mondo ma riattualizzatosi, sostanzialmente, dopo la fine della “guerra fredda”; riflessione arricchita dallo scontro religioso, anch’esso in atto da sempre, entrato a gamba tesa nel contesto. Lo scontro religioso non ha mai prodotto nulla di fertile. Le differenze teologiche e di interpretazione della storia da parte delle tre religioni monoteistiche che si riconoscono nel grande “Padre Abramo” faticano a trovare terreni di incontro, nonostante gli sforzi, per tramite della promozione del dialogo interreligioso, del Santo Padre di turno. I rispettivi estremisti hanno buon gioco, opportunamente finanziati, ieri dai conti off-shore oggi dai bit-coin, e addestrati a destabilizzare il quadro politico di riferimento. Fu così dopo la stretta di mano tra Rabin e Arafat in quel di Washington, seguita dagli accordi di Oslo; è stato così ogni qualvolta i legittimi governanti di Israele e l’Autorità Palestinese hanno trovato un piccolo terreno di incontro. Tra i sostenitori della causa palestinese, interessati a vario titolo, vi è il mondo arabo; mondo variegato, complesso e diviso per etnie, ad esempio sunniti (maggioritari) e sciiti di varia discendenza (minoritari) che insieme agli ibaditi (una piccola minoranza) si contendono da secoli la supremazia nell’Islam, uniti nella volontà di cancellare lo Stato di Israele dalla carta geografica e divisi su tutto il resto; spesso turlupinati dagli estremisti che si chiamino Hamas, Hezbollah o altro non è rilevante.
Vi sono, invece, due elementi fondamentali che non aiutano Israele, alimentando odio presso i terroristi:
1)L’esilio degli ebrei nel mondo, di storica origine biblica, ha prodotto una positiva integrazione nelle realtà occidentali, a livello di comunità civili e all’insegna del reciproco rispetto religioso, favorendo la manifestazione di doti finanziarie fuori dal comune (non sempre ortodosse). Non è questo il contesto per ripercorrere la storia finanziaria mondiale, basti ricordare come le sue redini siano state tirate da banchieri come Rockefeller, Lehman Brothers, Rothschild, Lazard ecc., ognuno nella propria sfera di competenza; Il mondo occidentale e il proprio capitalismo sono innervati da queste doti integrate, sicuramente concausa, insieme alle idee ed alla cultura originate dalla civiltà cristiana, dello sviluppo e della pace. Certo in un contesto di “coraggio della democrazia”.
2)Il ritorno forzato nella propria terra sulla scia dell’olocausto subito (che pensavamo di non vedere più evocato nei secoli eterni) unito alla volontà, di origine biblica, di attendere il Messia (per ora non riconosciuto) nei luoghi preposti, hanno fatto il resto.
Per una parte cospicua del mondo, non solo arabo, le ragioni sopra descritte fanno assimilare Israele al mondo occidentale. La destabilizzazione dell’area mediorientale diventa quindi parte integrante della strategia volta a ridefinire gli equilibri mondiali. Gli strumenti usati all’uopo, indipendentemente dalle giustificazioni addotte, sono particolarmente esecrabili e vanno condannati senza appello. Come è stato combattuto e vinto (per adesso) il terrorismo dell’Isis, così deve essere combattuto e vinto il terrorismo di Hamas e qualunque altro terrorismo si manifesti di volta in volta. Stessa sorte spetta ai dittatori e aggressori di ogni risma. Non è possibile costruire la pace tra attori che non condividano una minima base di partenza, le regole del gioco da ridefinire e l’obiettivo finale. Sedersi armati o con velleità suprematiste al tavolo della pace può produrre solo ulteriori conflitti. Occorre prima disarmare i dotati di “bollenti spiriti”, successivamente sedersi al tavolo armati del politicamente scorretto “coraggio della pace”. Superando le sterili discussioni su improbabili porzioni di territori da distribuire per arrivare a convivenze condivise che muovano da nuovi, ineludibili, indifferibili Patti di Yalta, magari a Odessa, Gerusalemme o in qualsivoglia luogo del globo terrestre ove trovino posto a sedere i costruttori di Pace. Magari finalmente con un nuovo attore politico: gli Stati Uniti d’Europa. Senza di essi continueremo ad assistere ad improbabili viaggi diplomatici in Russia, Cina o Medio Oriente, di volta in volta, dei Presidenti di Francia, UK e USA, tutti e tre membri del Consiglio Permanente di Sicurezza dell’ONU, individualmente incapaci di istruire percorsi di pace. Altra ragione che depone a favore del politicamente scorretto “coraggio della pace”. La soluzione del conflitto non sarà immediata e produrrà inevitabili recrudescenze. Auspico che la diplomazia attualmente al lavoro riesca a raffreddare gli animi, quel tanto che basti a salvare gli ostaggi rimasti in vita e a raggiungere i palestinesi nella striscia di Gaza con tutti gli aiuti umanitari possibili. La improbabile soluzione da molti avvalorata, relativa a due popoli due stati, temo che non andrà oltre l’enunciazione di uno slogan, anche perché non è risolutiva rispetto ai desiderata contrapposti, la Terra Promessa da una parte, la terra di Diritto dall’altra. Percorribile ma assai complicata la convivenza civile in un unico territorio, soluzione molto democratica, molto cristiana e perciò stesso molto occidentale. Solo un soggetto politico autorevole che riassuma in sé il concetto romanico del governare includendo, sulla base di un Diritto condiviso, e il concetto cristiano della condivisione basata sulla centralità della persona umana, potrebbe azzardare soluzioni di pace condivisibili. L’Europa Politica unita. Unico soggetto in grado di rilanciare il dialogo politico su scala planetaria, superando il classico confronto ovest-est, rivedendo di fatto i Patti di Yalta. Se la Francia rinunciasse al seggio permanente a favore degli Stati Uniti d’Europa e la Gran Bretagna facesse altrettanto sconfessando la Brexit. Serve molto di più del “coraggio della pace”. La messe politica è molta, gli operai popolari “liberi e forti” Sturziani sono inesistenti, tuttavia come disse De Gasperi a Dossetti e ai professorini (Fanfani compreso) al congresso DC tenutosi a Venezia nel 1949: “Alla stanga”.
Maurizio Trinchitella