
Nelle ultime settimane il gioco preferito dagli italiani è stato “trova il colpevole” o perlomeno “cerca chi ha maggiori responsabilità nei ritardi”. L’inadeguatezza di una fetta di politica è risultate evidente, ma anche in questo caso “chi è senza peccato scagli per primo la pietra”. Governo, singoli Ministri, Regioni, Comuni, rappresentanze imprenditoriali e sindacali, settori del commercio e piccoli artigiani, persino ambienti ecclesiali si rimpallano accuse.
Mentre il Paese avrebbe bisogno di coesione e di individuare alcuni obiettivi comuni. Persino Berlusconi ha ragionato da statista più dei suoi colleghi dell’opposizione. Può darsi che abbia qualche interesse da tutelare, ma ha dato prova di chi guarda all’interesse generale. Cosa che neanche tutti i rappresentanti della maggioranza sembrano capire.
Oggi, insieme a decisioni immediate per fare fronte contro la gravità della situazione, continua (la cosa doveva essere già evidente in primavera) ad essere fondamentale guardare al futuro, pensare a cosa vogliamo essere dopo la crisi. Non saremo più come prima non deve essere solo uno slogan di distrazione temporanea; tutto (perché oltre al virus c’è sempre un pianeta quasi moribondo, c’è la povertà in aumento, ci sono le difficoltà demografiche e quelle per costruirsi una famiglia, c’è il fenomeno migratorio che non è fermato nemmeno dal virus, c’è una cultura e una informazione condizionate dal pensiero unico e da interessi finanziari e di potere.
Un disegno di società rinnovata, un visione di futuro, una serie di progetti per il Governo del Paese sono sempre più urgenti non solo per la ripresa, per tornare a crescere, ma anche per essere inclusivi, per bloccare la rabbia e le paure, per ricucire il tessuto sociale, per ridare voce al dialogo alla mediazione al sano e positivo compromesso fra gruppi sociali, categorie, generazioni, sensibilità culturali e religiose.
Faccio solo rapidi accenni a tre questioni che ci troveremo di fronte nell’immediato futuro, partendo da quanto scriveva Giuseppe Gario il 4 ottobre sul sito Munera – Rivista europea di cultura: “Nel nostro piccolo, in Italia abbiamo fatto molto meglio col valore d’una sanità pubblica da sempre sottodimensionata rispetto alle necessità. Anche la scuola, «ma soprattutto, ed è questo il punto, la scuola è venuta meno al suo compito principale, che è quello di trasmettere da una generazione all’altra il messaggio essenziale. Che lo studio, come il lavoro che deve fargli seguito, costa fatica e che la scuola è chiamata a costruire gerarchie di merito più giuste di quelle ereditate dall’ordinamento sociale» [Gian Arturo Ferrari, Nel paese che non studia gli insegnanti contano poco, “Corriere della Sera”, 19/9/20].
E aggiunge: “Nel piano Colao – dice Linda Laura Sabbadini, direttrice centrale ISTAT, membro della task force di Colao – abbiamo posto l’obiettivo del 60% di posti per i bimbi nei nidi e di un forte investimento nelle politiche di cura delle persone, degli anziani e dei disabili. Se facessimo quanto ha fatto la Germania in sanità e assistenza avremmo 1 milione e 700 mila lavoratrici in più, senza contare tutte quelle che non lascerebbero il lavoro per nascita di figli o malattia dei loro cari. Sarebbe una svolta epocale. Altri lo hanno fatto, noi mai. È arrivata l’ora” [Sfida Recovery: 3,5-4 milioni di posti in più, “Il Sole 24Ore”, 20/9/20].
Non serve aggiungere altro. Nei tanti discorsi sulla scuola (se in presenza o a distanza, su come devono essere i banchi, sui trasporti e gli eventuali turni) dobbiamo ricordare che insieme alle competenze e a una educazione di fondo (che compete soprattutto alla famiglia) ha anche il compito di insegnare la fatica per il necessario avanzamento della società e “per costruire gerarchie di merito più giuste di quelle ereditate”. In fondo il ’68 (pur con il 6 politico e gli esami autogestiti) rappresenta il rigetto di divisioni classiste, la scuola per tutti, che sia anche una “scuola per la democrazia”, cioè per la cittadinanza attiva e il pensiero critico; una scuola che non discrimina e che offre possibilità adeguate anche ai figli dei poveri (don Milani è ancora attuale!).
Il secondo aspetto da sottolineare è l’investimento per le politiche di cura delle persone. Un investimento. Oltre che di giustizia sociale, anche e soprattutto per rispondere alle difficoltà di occupazione. Quando parliamo di posti di lavoro in più (da 1,7 a 3,5 milioni lavoratori) non possiamo non sottolineare l’urgenza delle misure da assumere associandovi anche, finalmente, misure adeguate e innovative di politica familiare che da sempre latitano in Italia. Solo ultimamente si è legiferato sull’assegno unico per i figli. Non ci si può fermare a questo provvedimento, sono importanti altri interventi.
L’ultimo spunto, che può sembrare fuori tema rispetto a quanto scritto fino a questo punto, lo voglio dedicare ai 70 anni di vita delle Regioni.
So che oggi è "pericoloso" parlare di regionalismo; ma in una visione di futuro non possiamo non tener conto della necessità di superare il centralismo statale. Pur evitando di avere 20 sistemi sanitari o scolastici.
Non sempre le nostre amministrazioni regionali sono state (e sono) all'altezza: basti pensare alle ridicole (se non tragiche visto il momento) posizioni altalenanti di non pochi “Governatori” nel confronto col Governo per quanto riguarda le misure anti Covid-19. E nelle vicende di questi ultimi anni si sono spesso caratterizzate per posizioni ideologiche rispetto a molte questioni, anziché a soluzioni equilibrate e concrete. A volte hanno richiesto (e cercato di esercitare) un ruolo maggiore di quello previsto dalla legislazione attuale (il regionalismo differenziato usato per dividere l’Italia anziché articolare in modo più utile e flessibile i provvedimenti.
Altre volte (le Amministrazioni Regionali) si sono comportate come rappresentanza degli egoismi territoriali, pensando alla sola ripartizione economica. Oppure hanno ceduto e delegato ai privati parti di "beni comuni" che appartengono al pubblico. Altre volte ancora (e siamo a questi giorni) si sono scaricate delle proprie responsabilità o hanno giocato come se non fossero parti di uno Stato unitario in cui le regole valgono per tutti.
Ora, a seguito di questi limiti e cattive interpretazioni dell’autonomia, parte già la campagna per limitare il regionalismo, per tornare sostanzialmente a uno Stato centralizzato.
Che molto vada regolato e riorganizzato, per evitare di avere 20 legislazioni e regolamenti diversi anche su aspetti in cui la risposta deve essere omogenea e i diritti garantiti in modo equo ad ogni italiano, indipendentemente dalla Regione nella quale vive, è fondamentale. Questo non deve portarci a prima del 1970, anche perché, come afferma Pezzotta, “In questi giorni , con argomentazioni credibili, si è avviata una polemica contro l’istituzione regionale ma si è evitato di dire che le Regioni hanno funzionato male anche perché si è scansata la partecipazione dei cittadini e delle organizzazioni sociali”.
Le Regioni e il regionalismo (contro lo Stato centralista) devono essere salvaguardati.
Prepariamoci alla nuova battaglia, dopo il colpo grave del taglio dei parlamentari non legato ad un riassetto completo delle istituzioni e della rappresentanza.
Mentre il Paese avrebbe bisogno di coesione e di individuare alcuni obiettivi comuni. Persino Berlusconi ha ragionato da statista più dei suoi colleghi dell’opposizione. Può darsi che abbia qualche interesse da tutelare, ma ha dato prova di chi guarda all’interesse generale. Cosa che neanche tutti i rappresentanti della maggioranza sembrano capire.
Oggi, insieme a decisioni immediate per fare fronte contro la gravità della situazione, continua (la cosa doveva essere già evidente in primavera) ad essere fondamentale guardare al futuro, pensare a cosa vogliamo essere dopo la crisi. Non saremo più come prima non deve essere solo uno slogan di distrazione temporanea; tutto (perché oltre al virus c’è sempre un pianeta quasi moribondo, c’è la povertà in aumento, ci sono le difficoltà demografiche e quelle per costruirsi una famiglia, c’è il fenomeno migratorio che non è fermato nemmeno dal virus, c’è una cultura e una informazione condizionate dal pensiero unico e da interessi finanziari e di potere.
Un disegno di società rinnovata, un visione di futuro, una serie di progetti per il Governo del Paese sono sempre più urgenti non solo per la ripresa, per tornare a crescere, ma anche per essere inclusivi, per bloccare la rabbia e le paure, per ricucire il tessuto sociale, per ridare voce al dialogo alla mediazione al sano e positivo compromesso fra gruppi sociali, categorie, generazioni, sensibilità culturali e religiose.
Faccio solo rapidi accenni a tre questioni che ci troveremo di fronte nell’immediato futuro, partendo da quanto scriveva Giuseppe Gario il 4 ottobre sul sito Munera – Rivista europea di cultura: “Nel nostro piccolo, in Italia abbiamo fatto molto meglio col valore d’una sanità pubblica da sempre sottodimensionata rispetto alle necessità. Anche la scuola, «ma soprattutto, ed è questo il punto, la scuola è venuta meno al suo compito principale, che è quello di trasmettere da una generazione all’altra il messaggio essenziale. Che lo studio, come il lavoro che deve fargli seguito, costa fatica e che la scuola è chiamata a costruire gerarchie di merito più giuste di quelle ereditate dall’ordinamento sociale» [Gian Arturo Ferrari, Nel paese che non studia gli insegnanti contano poco, “Corriere della Sera”, 19/9/20].
E aggiunge: “Nel piano Colao – dice Linda Laura Sabbadini, direttrice centrale ISTAT, membro della task force di Colao – abbiamo posto l’obiettivo del 60% di posti per i bimbi nei nidi e di un forte investimento nelle politiche di cura delle persone, degli anziani e dei disabili. Se facessimo quanto ha fatto la Germania in sanità e assistenza avremmo 1 milione e 700 mila lavoratrici in più, senza contare tutte quelle che non lascerebbero il lavoro per nascita di figli o malattia dei loro cari. Sarebbe una svolta epocale. Altri lo hanno fatto, noi mai. È arrivata l’ora” [Sfida Recovery: 3,5-4 milioni di posti in più, “Il Sole 24Ore”, 20/9/20].
Non serve aggiungere altro. Nei tanti discorsi sulla scuola (se in presenza o a distanza, su come devono essere i banchi, sui trasporti e gli eventuali turni) dobbiamo ricordare che insieme alle competenze e a una educazione di fondo (che compete soprattutto alla famiglia) ha anche il compito di insegnare la fatica per il necessario avanzamento della società e “per costruire gerarchie di merito più giuste di quelle ereditate”. In fondo il ’68 (pur con il 6 politico e gli esami autogestiti) rappresenta il rigetto di divisioni classiste, la scuola per tutti, che sia anche una “scuola per la democrazia”, cioè per la cittadinanza attiva e il pensiero critico; una scuola che non discrimina e che offre possibilità adeguate anche ai figli dei poveri (don Milani è ancora attuale!).
Il secondo aspetto da sottolineare è l’investimento per le politiche di cura delle persone. Un investimento. Oltre che di giustizia sociale, anche e soprattutto per rispondere alle difficoltà di occupazione. Quando parliamo di posti di lavoro in più (da 1,7 a 3,5 milioni lavoratori) non possiamo non sottolineare l’urgenza delle misure da assumere associandovi anche, finalmente, misure adeguate e innovative di politica familiare che da sempre latitano in Italia. Solo ultimamente si è legiferato sull’assegno unico per i figli. Non ci si può fermare a questo provvedimento, sono importanti altri interventi.
L’ultimo spunto, che può sembrare fuori tema rispetto a quanto scritto fino a questo punto, lo voglio dedicare ai 70 anni di vita delle Regioni.
So che oggi è "pericoloso" parlare di regionalismo; ma in una visione di futuro non possiamo non tener conto della necessità di superare il centralismo statale. Pur evitando di avere 20 sistemi sanitari o scolastici.
Non sempre le nostre amministrazioni regionali sono state (e sono) all'altezza: basti pensare alle ridicole (se non tragiche visto il momento) posizioni altalenanti di non pochi “Governatori” nel confronto col Governo per quanto riguarda le misure anti Covid-19. E nelle vicende di questi ultimi anni si sono spesso caratterizzate per posizioni ideologiche rispetto a molte questioni, anziché a soluzioni equilibrate e concrete. A volte hanno richiesto (e cercato di esercitare) un ruolo maggiore di quello previsto dalla legislazione attuale (il regionalismo differenziato usato per dividere l’Italia anziché articolare in modo più utile e flessibile i provvedimenti.
Altre volte (le Amministrazioni Regionali) si sono comportate come rappresentanza degli egoismi territoriali, pensando alla sola ripartizione economica. Oppure hanno ceduto e delegato ai privati parti di "beni comuni" che appartengono al pubblico. Altre volte ancora (e siamo a questi giorni) si sono scaricate delle proprie responsabilità o hanno giocato come se non fossero parti di uno Stato unitario in cui le regole valgono per tutti.
Ora, a seguito di questi limiti e cattive interpretazioni dell’autonomia, parte già la campagna per limitare il regionalismo, per tornare sostanzialmente a uno Stato centralizzato.
Che molto vada regolato e riorganizzato, per evitare di avere 20 legislazioni e regolamenti diversi anche su aspetti in cui la risposta deve essere omogenea e i diritti garantiti in modo equo ad ogni italiano, indipendentemente dalla Regione nella quale vive, è fondamentale. Questo non deve portarci a prima del 1970, anche perché, come afferma Pezzotta, “In questi giorni , con argomentazioni credibili, si è avviata una polemica contro l’istituzione regionale ma si è evitato di dire che le Regioni hanno funzionato male anche perché si è scansata la partecipazione dei cittadini e delle organizzazioni sociali”.
Le Regioni e il regionalismo (contro lo Stato centralista) devono essere salvaguardati.
Prepariamoci alla nuova battaglia, dopo il colpo grave del taglio dei parlamentari non legato ad un riassetto completo delle istituzioni e della rappresentanza.
A conferma di quanto scrive Carlo Baviera segnalo alcuni fatti.
In questi giorni, le dichiarazioni del Vice Ministro della Salute Pier Paolo Sileri ci hanno mostrato l’inefficienza, la sciatteria e il pressapochismo del Ministero in tema di prevenzione pandemica. Bersaglio delle critiche sono quei dirigenti ministeriali che, non applicando e non aggiornando da 13 anni il piano pandemico, hanno mandato allo sbaraglio medici e infermieri. Ciò che è stato denunciato da Sileri è purtroppo un fenomeno diffuso a livello dei vari Ministeri.
Ricordo quanto è successo con il Ministero dell’Agricoltura quando nel 1984 vennero introdotte dalla Commissione europea le quote latte. A tal fine, la Commissione aveva vincolato gli Stati membri a non superare la produzione registrata a fine anno 1983. Ma il MAF non conosceva la produzione di latte del paese poiché da anni non aggiornava i dati, né aveva verificato l’adeguatezza delle segnalazioni fatte dagli ispettorati periferici all’ISTAT, segnalazioni sovente incomplete, talora inventate. Risultato: il MAF dichiarò per il 1983 una produzione largamente inferiore alla reale con una sottostima dell’ordine dell’80-90% a seconda delle varie fonti. Per le aziende zootecniche produttrici di latte (in particolare quelle che negli ultimi anni, nel rispetto delle normative, avevano rinnovato azienda e allevamento, talora più che raddoppiando la produzione), è stato un disastro, ed è sorto il problema delle quote latte che gli allevatori non erano in grado di rispettare se non a pena di chiudere l’azienda.
In questi giorni, Enrico Giovannini (portavoce dell’Alleanza italiana per lo sviluppo sostenibile AsviS) ha scritto, su La Stampa (17.12.2020), che, mentre tutte le regioni, le province autonome e quasi tutte le città metropolitane, nonché tante città di media dimensione hanno fatto riferimento all’Agenda 2030 per la loro programmazione strategica, nella bozza di Piano nazionale di ripresa e resilienza, l’Agenda 2030 è solo citata marginalmente. L’Amministrazione centrale (aggiunge Giovannini) stenta a comprendere la necessità di offrire una visione del futuro non fatta dalla giustapposizione di singoli progetti (talora tenuti nei cassetti da anni), ma da un approccio integrato delle politiche economiche, sociali e ambientali. E questo mentre la UE ha scelto l’Agenda 2030 come riferimento di tutte le proprie politiche e si aspetta azioni nazionali coerenti con tale obiettivo. La Commissione europea chiede inoltre come si intenda assicurare l’allineamento tra programmazione nazionale e territoriale anche in vista dell’uso dei 209 miliardi del recovery fund, ciò che al momento la proposta del governo per l’attuazione del citato piano non prevede.
Mi pare evidente che le strutture ministeriali non siano all’altezza dei compiti richiesi per riformare e rilanciare il paese, e che esse stesse non siano riformabili per l’impostazione mentale e le abitudini consolidate di un ceto burocratico di predominante formazione giuridica o comunque solo attento alle procedure. Altro che ritorno al centralismo.