Viva Biden, ma basta con l’establishment



Carlo Baviera    14 Novembre 2020       0

Ha vinto. Già non avere Trump è un sollievo e un risultato storico. Ci sentiamo più rassicurati. Uno stile e un passo diverso dal suo predecessore, con le note di colore che la stampa accenna: secondo cattolico alla Casa Bianca, dopo Kennedy; con la prima donna (Harris), da famiglia immigrata dall'Asia e di colore, vice presidente.

Non conosco minimamente gli USA, né sono esperto di questioni attinenti alla politica di quel Paese o del sentire dei suoi abitanti. Perciò mi limito, nel rallegrarmi per il risultato elettorale, a poche considerazioni, anche molto generiche.

Gli USA ritornano nel solco della loro storia: ritorneranno negli accordi sul clima, non provocheranno più l’ONU, gli immigrati, i neri, i palestinesi; useranno parole non offensive verso le donne e le minoranze; riprenderanno rapporti più positivi con l’Europa e una visione multipolare.

Saranno dunque rose e fiori? Sappiamo che Biden, almeno fino ad oggi, rappresenta l'establishment. Quello che, se si guarda bene, fu sconfitto quattro anni fa a spese di Hillary Clinton. “Gli Americani semplici, quell’America profonda che vi descrivono nei talk show provinciali come Inferno di ignoranza, gelosie, vendette private, ed è invece meravigliosa comunità dove brava gente arriva da tutto il mondo, democratica, repubblicana, indipendente, per vivere al meglio coi propri familiari hanno deciso di riprendersi il bandolo della Storia. Il fallito esperimento di Donald Trump aveva radici politiche formidabili, la paura di chi è rimasto escluso dal boom dei mercati globali e dell’economia digitale robotizzata, la solitudine di chi vive in zone rurali dove cellulari e computer non funzionano, l’angoscia dei maschi bianchi ex tute blu, terrorizzati nel vedere il loro Paese in mano a neri, donne, immigrati” (Gianni Riotta, “La Stampa” 8.11.2020). Quell’America pre-Trump che, pur con tutte le attenzioni sociali (Obamacare), per la ripartenza dell’industria (la fusione Fiat-Chrysler), per la sicurezza e la pace (relazioni diplomatiche con Cuba, accordo con l’Iran, tentativo di ripresa dei rapporti israelo-palestinesi, mano tesa all’Islam), non è riuscita a fermare le paure e l’impoverimento di tanti, compreso il ceto medio, oggi deve essere superata. Bisogna battere l’establishment sempre in grado di condizionare i cambiamenti (la finanza, il potere economico, la CIA, alcune lobby sindacali o religiose, ecc.).

Ora servirà molto equilibrio, ma anche audacia, per non tornare al 2016. I commentatori indicano la necessità di “moderazione” per sottrarre consensi alle posizioni radicali, populiste e sovraniste. Moderazione e giusto compromesso per fronteggiare l’alta disoccupazione, la precarizzazione dei lavoratori, la perdita di reddito e di status sociale dei ceti medi che avevano (e forse anche oggi hanno) favorito Trump. E c’è anche chi invita ad essere capace di rivoluzione (Cacciari, “La Stampa” 9.11.2020): “La crisi non si risolve 'moderando', ma con disegni di riforma tanto radicali quanto razionali. [...] È un new deal dell’intero Occidente democratico che diviene oggi necessario. [...] Il conservatore Biden comprenderà che è venuto anche per lui il momento di essere, almeno un po’, rivoluzionario”. Rivoluzione che non può fermarsi all’ingresso della prima donna (e prima donna di colore) alla Casa Bianca, oppure ad eventuali atti relativi alla parità di genere o a favore di diritti individuali.

Gli USA sono diversi dall’Europa; è difficile fare paragoni, ma quello che noi chiamiamo personalismo comunitario e solidale (che non riesce purtroppo a farsi spazio neanche nel nostro continente) potrebbe avere una sponda nelle parole e visioni di Bob Kennedy, nel suo discorso sul PIL ad esempio, e sui diritti delle minoranze. Biden nel suo Discorso della vittoria ha citato opportunamente Lincoln, Roosevelt, John Kennedy, e senza nominarlo esplicitamente si è riferito a Luther King, ma non ha citato Bob Kennedy: è il momento di ripartire da Bob Kennedy per non fermarsi al 2016.

Sconfitto “l’arrogante”, restano il suo stile, le sue idee, le sue provocazioni, le spacconate, le posizioni pericolose per la democrazia (armi, leggerezza scientifica, divisione sociale). C’è metà popolazione statunitense il cui cuore batte ancora per lui, che vuole armarsi fino ai denti, che vorrebbe sbarazzarsi dei migranti e dei neri, che non sopporta l’imposizione di ogni diritto civile, che chiede di essere rispettato con le proprie posizioni e convinzioni tradizionali. “Non dobbiamo pensare che la vittoria dei Democratici metta le democrazie al riparo dell'onda populista che è stata resa più pericolosa dalle troppe diseguaglianze provocate, in ogni parte del mondo, dalla globalizzazione” (Guido Bodrato).

Rispetto a queste posizioni Biden ha il vantaggio di essere uomo di dialogo, che ha sempre cercato la mediazione. E può favorire una convergenza dei moderati verso scelte che tengano conto della socialità, della necessità di salvaguardare l’ambiente, che non siano negazioniste ma poggino su basi scientifiche, che si rapportino in modo nuovo rispetto ai temi energetici.

Sappiamo che nel mondo libero, purtroppo, esistono poteri che limitano la politica e/o la condizionano. Perciò il rischio è che si torni al pre-Trump, a quella finanza che ha penalizzato molti e che si è impadronita della politica; che si torni a non considerare “gli scarti” che produce una economia liberista, che i movimenti popolari e le popolazioni indigene tornino (continuino) ad essere trattate in modo imperialistico dalle multinazionali, che il politicamente corretto (che i democratici di tutto il mondo hanno incarnato negli anni ’90 e nei primi tre lustri di questo secolo) imposto a tante realtà non rispettando fino in fondo le autonomie locali e le periferie del mondo possa tornare cercando di omogeneizzare anziché valorizzare le differenze e il sentire etico e morale dei popoli. Che non si riparta, lo ripeto sintetizzando il concetto, da Bob Kennedy.

Ora godiamoci la vittoria della democrazia, della civiltà, dell’umanesimo, dei diritti, del rispetto. Sapendo che le sfide dei prossimi anni restano, al di là della pandemia, il clima e le risorse energetiche, le migrazioni, il lavoro e la casa per tutti, lo sviluppo eco-compatibile, le politiche redistributive anche con un welfare comunitario. E su queste si giocherà il giudizio della storia.


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