Giuseppe Ladetto nel suo ampio contributo (qui il link) in cui si chiede se l’UE sarà capace di cambiare, pone un problema storico-stategico fondamentale nel processo di integrazione europea. La visione di Jean Monnet del gradualismo europeista prevedeva prima l’armonizzazione economica (risorse energetiche comuni: CECA per la ricostruzione dei sei Paesi in epoca post-bellica), poi la creazione di un Mercato Comune Europeo CEE (con le quattro libertà di circolazione: di lavoratori, merci, capitali, servizi), poi la moneta unica europea: l'idea che questo percorso avrebbe portato inevitabilmente, o quanto meno superando ogni resistenza nazionale, al Governo federale europeo è fallita o è ancora realistica?
Noi federalisti europei, con Spinelli e Albertini ritenevamo che fosse necessario un salto “rivoluzionario” cioè un momento in cui, superate tutte le visioni “refrattarie” o quelle “utopistiche”, i cittadini europei – o meglio una avanguardia rappresentativa e lungimirante – si riunissero in una sorta di “Assemblea della Pallacorda” per imporre, meglio, “stimolare” le classi politiche europee a fare il salto di qualità verso la Federazione europea.
Oppositori erano i francesi alla De Gaulle, desiderosi di mantenere la loro leadership internazionale, in fase calante, e gli americani, via la Gran Bretagna, che vedevano con favore una Confederazione di Stati nazionali europei, utile mercato di sbocco per i loro prodotti, e un'alleanza di staterelli nel quadro della grande Alleanza anticomunista occidentale.
Il processo di integrazione europea, tra alti e bassi, proseguì. E, come si disse spesso, a ogni crisi seguì un rilancio dell’integrazione (Presidenza della Commissione di Hallstein, elezione del Parlamento Europeo, Atto Unico Europeo, Trattato di Maastricht). Raggiunto il punto più alto di questa parabola (Commissione di Delors) iniziarono i distinguo. Dopo la caduta del muro di Berlino e la susseguente riunificazione tedesca, la richiesta della Repubblica federale di aumentare i propri parlamentari venne stoppata dal premier francese in base al principio di parità originario (in realtà stava rinascendo il timore della prevalenza della Germania nel consesso europeo, che i tedeschi non seppero stemperare). Dopo il varo della moneta unica, il Governatore olandese della BCE (Wim Duisemberg) ebbe a dichiarare che l’euro avrebbe sostituito nel commercio mondiale il dollaro. Dichiarazione improvvida, atteso che l’enorme debito pubblico americano era sostenuto dai grossi investimenti cinesi e che pertanto una Europa forte finanziariamente, ma ancora priva di una politica economica e fiscale comune, sarebbe stato un temibile concorrente. Di qui numerosi interventi militari (Serbia, Bosnia, Iraq ecc.) che, anche con il contributo della Gran Bretagna, diluirono le prospettive di integrazione politica europea.
I popoli europei da euroentusiasti (in Italia negli anni ’80 il referendum consultivo aveva ottenuto la stragrande maggioranza dei favorevoli), si trasformavano gradualmente in euroscettici o quantomeno in eurocritici. Infine il troppo rapido e contestuale allargamento ai Paesi est-europei, che anelavano a un liberismo economico dopo la dura parentesi di economia pianificata e che sentivano la necessità di far riemergere lo spirito nazionale troppo a lungo represso, senza l’approvazione di una Costituzione europea che stabilisse i principi comuni (diritti fondamentali, prevalenza del diritto comunitario sui diritti nazionale e della Corte di Giustizia sulle Corti statuali) evidenziarono le troppe debolezze di una struttura istituzionale che – costruita per sei Paesi quasi omogenei (di cui una, la Francia, leader politico e una, la Germania, leader economico in crescendo) – mostrava i suoi limiti, le sue crepe, i suoi partner “egoistici” o “narcisistici”.
Ora, oggi, dopo lo shock della pandemia, è giunto il momento delle decisioni. Il momento è grave per tutti gli europei. Gli americani hanno i loro problemi (oltre alla pandemia, le elezioni presidenziali), tutti prevedono un cambiamento di paradigmi economico-sociali, i leader che hanno lucrato sulle divisioni (Boris Johnson), sulla vanagloria (Trump), sul tanto peggio tanto meglio (Salvini) o sullo stai sereno ( Renzi) sono in difficoltà.
È il momento di avere coraggio politico, di contrapporsi al gradualismo e alla estenuante contrattazione su manovre di corto respiro. Ora o mai più. E che Dio assista l’Europa!
Noi federalisti europei, con Spinelli e Albertini ritenevamo che fosse necessario un salto “rivoluzionario” cioè un momento in cui, superate tutte le visioni “refrattarie” o quelle “utopistiche”, i cittadini europei – o meglio una avanguardia rappresentativa e lungimirante – si riunissero in una sorta di “Assemblea della Pallacorda” per imporre, meglio, “stimolare” le classi politiche europee a fare il salto di qualità verso la Federazione europea.
Oppositori erano i francesi alla De Gaulle, desiderosi di mantenere la loro leadership internazionale, in fase calante, e gli americani, via la Gran Bretagna, che vedevano con favore una Confederazione di Stati nazionali europei, utile mercato di sbocco per i loro prodotti, e un'alleanza di staterelli nel quadro della grande Alleanza anticomunista occidentale.
Il processo di integrazione europea, tra alti e bassi, proseguì. E, come si disse spesso, a ogni crisi seguì un rilancio dell’integrazione (Presidenza della Commissione di Hallstein, elezione del Parlamento Europeo, Atto Unico Europeo, Trattato di Maastricht). Raggiunto il punto più alto di questa parabola (Commissione di Delors) iniziarono i distinguo. Dopo la caduta del muro di Berlino e la susseguente riunificazione tedesca, la richiesta della Repubblica federale di aumentare i propri parlamentari venne stoppata dal premier francese in base al principio di parità originario (in realtà stava rinascendo il timore della prevalenza della Germania nel consesso europeo, che i tedeschi non seppero stemperare). Dopo il varo della moneta unica, il Governatore olandese della BCE (Wim Duisemberg) ebbe a dichiarare che l’euro avrebbe sostituito nel commercio mondiale il dollaro. Dichiarazione improvvida, atteso che l’enorme debito pubblico americano era sostenuto dai grossi investimenti cinesi e che pertanto una Europa forte finanziariamente, ma ancora priva di una politica economica e fiscale comune, sarebbe stato un temibile concorrente. Di qui numerosi interventi militari (Serbia, Bosnia, Iraq ecc.) che, anche con il contributo della Gran Bretagna, diluirono le prospettive di integrazione politica europea.
I popoli europei da euroentusiasti (in Italia negli anni ’80 il referendum consultivo aveva ottenuto la stragrande maggioranza dei favorevoli), si trasformavano gradualmente in euroscettici o quantomeno in eurocritici. Infine il troppo rapido e contestuale allargamento ai Paesi est-europei, che anelavano a un liberismo economico dopo la dura parentesi di economia pianificata e che sentivano la necessità di far riemergere lo spirito nazionale troppo a lungo represso, senza l’approvazione di una Costituzione europea che stabilisse i principi comuni (diritti fondamentali, prevalenza del diritto comunitario sui diritti nazionale e della Corte di Giustizia sulle Corti statuali) evidenziarono le troppe debolezze di una struttura istituzionale che – costruita per sei Paesi quasi omogenei (di cui una, la Francia, leader politico e una, la Germania, leader economico in crescendo) – mostrava i suoi limiti, le sue crepe, i suoi partner “egoistici” o “narcisistici”.
Ora, oggi, dopo lo shock della pandemia, è giunto il momento delle decisioni. Il momento è grave per tutti gli europei. Gli americani hanno i loro problemi (oltre alla pandemia, le elezioni presidenziali), tutti prevedono un cambiamento di paradigmi economico-sociali, i leader che hanno lucrato sulle divisioni (Boris Johnson), sulla vanagloria (Trump), sul tanto peggio tanto meglio (Salvini) o sullo stai sereno ( Renzi) sono in difficoltà.
È il momento di avere coraggio politico, di contrapporsi al gradualismo e alla estenuante contrattazione su manovre di corto respiro. Ora o mai più. E che Dio assista l’Europa!
La sintetica rivisitazione di Oreste Calliano sulla vicenda europea sprizza pessimismo sul futuro del Vecchio continente. Si può, purtroppo, dargli ragione.
Ora registriamo un paradosso: la prima forma concreta e ineludibile di Unione Europea la sta facendo il coronavirus. Non vi è dubbio di come questa scossa abbia rimosso in tre giorni capisaldi finanziari, uno per tutti il patto di stabilità, intorno ai quali si sono spesi mesi e anni a discutere perfino sui decimali. Lo specchio di una sorta di gara per dimostrare qual’è il Paese europeo che conta di più…Il virus ha messo tutti in riga, ma forse ancora non del tutto perchè su eurobond sì, eurobond no, la “guerra” rimane aperta. La lezione del virus non basta? O vogliamo sperare solo nell’aiuto della Provvidenza come dice Calliano?