L’UE sarà capace di cambiare?



Giuseppe Ladetto    5 Aprile 2020       1

Di fronte alla pandemia causata da Covid-19, l'Europa è stata assente proprio quando era più necessaria. Solo con interventi coordinati dal vertice europeo e la solidarietà fra i Paesi membri dell'Unione saremmo stati in grado di affrontare efficacemente il diffondersi della malattia e mettere in campo misure adeguate sul piano sanitario ed economico.


Discorsi di tale natura, ci vengono proposti di continuo. Si aggiunge che, dopo l'epidemia, nulla potrà restare come prima nelle istituzioni e nelle politiche comunitarie. Sono parole condivisibili, ma gli auspici non bastano per cambiare le cose, tanto più che abbiamo già sentito recitare parole analoghe in altre occasioni, in presenza di crisi davanti alle quali l'Europa è venuta meno. Chiediamoci perché le cose siano andate e vadano così.


E qui fioriscono le interpretazioni incentrate nella ricerca di che cosa non avrebbe funzionato nel cammino unitario o sarebbe intervenuto a metterlo in crisi. A ostacolarlo, per alcuni, sono stati l'egoismo nazionale (in particolare dei Paesi egemoni nel continente) e la miopia di una classe politica inadeguata. Per altri, a mettere su un binario morto l'Unione, è stato il prevalere di una concezione economica ordoliberista e degli interessi finanziari del grande capitale, in particolare tedesco.


A mio parere, la crisi, o lo stallo, in cui si trova l'edificio europeo viene da più lontano: alla sua base, c'è soprattutto la visione ideologica dell'élite che si è fatta interprete del disegno unitario. La tara costitutiva del progetto europeo va individuata nella scelta di privilegiare l’economia rispetto alla dimensione politica e alla valorizzazione del comune patrimonio culturale.


Tuttavia, ci viene detto che, per formare una comunità politica, non basta avere una cultura, una civiltà e una storia condivise. È vero, ma teniamo presente che non è possibile costruirla senza possedere questi elementi e la coscienza di una comune appartenenza fondata su di essi. A tal fine, le sole esigenze economiche, politiche e militari non sono sufficienti e neppure lo sarebbe la migliore costituzione del mondo perché il diritto non può sostituirsi alla realtà.


A motivare la scelta di fondare sull'economia il processo unitario, c’è stata l’idea espressa sinteticamente da Jean Monnet con l’esortazione: “Federate i portafogli, federerete i cuori”. Ma ben presto si è visto che alla “federazione dei portafogli” non ha fatto seguito la “federazione dei cuori” , mentre è stata l’economia a piegare a sua immagine l'UE.


Oggi, (ha scritto Dario Fabbri su “Limes”) l'attuale élite europea è convinta che solo i fattori economici muovano il mondo, e che sia il solo interesse economico a guidare le scelte dei governanti, poiché sarebbe l’approccio mercantilistico a informare le mosse delle nazioni. In un mondo in cui i circoli finanziari, le multinazionali, le compagnie petrolifere e i giganti tecnologici si collocano al di fuori del controllo degli Stati e frequentemente al di sopra di essi, si è fatta strada nell'élite europea la convinzione che la condizione economicistica sia lo stadio ultimo, o la fase definitiva, di ogni costruzione umana. L'Unione europea non sarebbe quindi altro che una tappa in vista di una società mondiale omologata, costruita all'insegna della logica di mercato e dei diritti dell'uomo.


Di qui viene la debolezza del progetto europeo. In esso, è assente ogni idea di che cosa debba essere l'organismo unitario europeo in se stesso: manca una definizione del suo confine politico e culturale, mentre quello geografico negli anni si è andato estendendo, indebolendo sempre più gli elementi che potevano caratterizzarne il profilo politico. La dimensione culturale dell'Europa non esiste perché il vertice comunitario (in nome del multiculturalismo e di un mondialismo cosmopolita) rifiuta ogni riferimento identitario del continente fondato su elementi storico-culturali e tradizioni.


È significativo in materia quanto è accaduto recentemente all'atto dell'insediamento della Commissione europea. A fronte della nomina di una figura nuova, il Commissario incaricato della “protezione del modo di vita europeo”, si sono subito levate proteste e accuse di nazionalismo o peggio di razzismo. Ne è seguita una precipitosa marcia indietro della Commissione che ha subito precisato che il “modo di vita europeo” consiste nell'accettare tutti gli altri modi di vita. Esplicita confessione che l'élite europea rifiuta di riconoscere l'esistenza di un modo di essere europeo, cioè di una civiltà frutto della stratificazione delle eredità lasciateci da chi ha abitato il continente prima di noi. L'Europa pensata dall'élite non vuole avere alcun carattere proprio se non incarnare valori universalistici, senza rendersi conto che voler essere assimilati a tutti e a ogni luogo conduce a non essere parte di alcuna realtà concreta, che è sempre particolare.


Il perdurante egoismo nazionale, il liberismo imperante nel continente, la miopia delle classi dirigenti non sono le cause prime dello stallo europeo, ma le conseguenze della mancanza di un'identità e di un senso di appartenenza che ci connotino come europei.


Non può esserci alcun sentimento di appartenenza a qualche cosa di indefinito come l'attuale UE, e senza questo sentimento non può nascere una vera solidarietà. Perché mai gli estoni o gli svedesi dovrebbero sentirsi solidali con gli italiani (e viceversa) se non c'è nulla che distingua i loro reciproci rapporti rispetto a quelli che possono intrattenere con gli australiani o i canadesi? O, nel caso nostro, ai rapporti che possono esserci con cinesi o cubani, che recentemente hanno mostrato più attenzione di molti europei alle nostre necessità, inviandoci medici e infermieri?


Nell'emergenza, di fronte alle manifestazioni di orgoglio nazionale e di un rinato sentimento di appartenenza al Paese espresse in questi giorni da popolazione e autorità, Ernesto Galli della Loggia ha scritto sul “Corriere della Sera”: “La verità è che l’attuale epidemia sta rivelando in modo esplosivo ciò che ogni persona non imbevuta di fantasticherie ideologiche ha sempre saputo. E cioè che quando arrivano i tempi in cui è questione di vita o di morte (mai espressione fu più appropriata) allora conta davvero chi parla la tua stessa lingua e condivide il tuo passato, chi ha familiarità con i tuoi luoghi e ne conosce il sapore e il senso, chi canta le tue stesse canzoni e usa le tue medesime imprecazioni. Che solo da quello puoi aspettarti (e anche esigere, non chiedere, esigere!) un aiuto generoso e immediato. Non si chiama sciovinismo”.


Quando una società tende a identificarsi col mondo intero, essa (ha scritto Zygmunt Bauman) appare incontrollabile e sconosciuta, lontana da noi, e così ci rende spaesati e incerti, causando insicurezza. Di qui viene quel desiderio di tornare agli Stati nazionali in cui è possibile riconoscere una propria casa, dove ci sono ancora legami e una cultura condivisa. Un sentimento che si fa più marcato nei momenti di difficoltà.


Ora, chiediamoci se l'Europa sia ancora in grado di diventare la nostra casa comune esprimendo una coscienza di sé, ritrovando la consapevolezza di possedere una cultura condivisa e dotandosi di legami non solo utilitaristici. Che cosa le occorre a tal fine?


Secondo Federico Chabod, “il concetto di Europa deve formarsi per contrapposizione, in quanto c'è qualcosa che non è Europa, e si precisa attraverso un confronto con questa non Europa”. Dove ricercare il carattere essenziale del concetto di Europa, ovvero una fisionomia che possa differenziarla da altri continenti o gruppi di nazioni, e che ne giustifichi l'unione?
In un articolo su “Rinascita popolare” del maggio 2018 (Una Europa con poca coscienza di sé, rifacendomi a una bella conferenza sull'Europa di don Enrico Pederzani, compianto docente di storia e filosofia del Liceo Valsalice), scrivevo che bisogna risalire a oltre l'umanesimo per ritrovare le forze spirituali che lavorarono alla formazione dell'Europa, in quell'Alto Medioevo in cui era avvenuta la fusione degli elementi forniti dal mondo romano, dai popoli germanici e dal cristianesimo. A partire da tale epoca, prende forma la specifica fisionomia europea. “Un’identità complessa, fatta di differenti piani e sfaccettature, ma sostanzialmente unitaria. Unità ma non uniformità perché nella sostanziale unità di fondo della grande cultura, della pratica cristiana, dei valori civili, coesistono differenti lingue, tradizioni e costumanze locali, varietà di abitudini e di istituzioni. È tale varietà di componenti culturali, spirituali e politiche che costituisce, non solo la ricchezza e l'unicità dell'Europa, ma la forza creatrice che l'ha plasmata”.


A questa possibile patria europea fondata su una comune identità, molti, ancora trent'anni fa, guardavano con speranza. Oggi, oltre ai guasti prodotti dalla globalizzazione, hanno contribuito alla sua demolizione (ridando spazio al riemergere dei protagonismi nazionali) coloro che, in nome del cosmopolitismo e del multiculturalismo, si sono impegnati e si impegnano costantemente a negarne l'identità, le radici storiche e culturali, quando non riducono la storia europea a una sequenza di fatti negativi o criminali (guerre, intolleranza, razzismo, persecuzioni, colonialismo, e via dicendo). C'è da sperare che gli eventi di questi giorni riportino alla realtà quanti vivono in un astratto mondo ideologico, e forse allora qualche cosa potrà cambiare in senso positivo nel cammino europeo.


Nel frattempo, teniamo presente che questa Europa abita in un mondo in cui le principali nazioni e chi le governa la pensano e agiscono in modo opposto al suo, a partire (come ha scritto Dario Fabbri) dall'impero americano, il cui interesse prioritario e le motivazioni dei suoi atti mirano al consolidamento dello status imperiale e alla glorificazione di se stesso. Altrettanto vale per molti altri Paesi, sia grandi (Cina, Russia, India, Pakistan ecc.), sia medi o piccoli (Israele, Turchia, Iran, Arabia saudita ecc.), le cui priorità sono sempre considerazioni di sicurezza e, in secondo luogo, obiettivi di potenza. Tuttavia, il realismo caratterizza il loro agire, e quindi, di norma, (secondo John Mearsheimer) i comportamenti di tali Stati sono razionali, sempre volti a valutare le reazioni degli altri, anche se errori di giudizio sono sempre possibili.


Inoltre, tutti stanno cominciando a comprendere che ci sono criticità che coinvolgono l'intero pianeta e che, trovandosi su una stessa barca, è necessario collaborare. Lo sconvolgimento dell'assetto economico-produttivo prodotto dalla pandemia da Covid-19 ridefinirà gli equilibri geopolitici e richiederà, in particolare alle gradi potenze, un'assunzione di responsabilità. Diventa, pertanto, indispensabile (come da tempo ci dice Henry Kissinger) dare vita a un vero ordine mondiale fondato su un insieme di regole condivise e su un equilibrio globale del potere, mettendo in un angolo ogni velleitario disegno di egemonie imperiali su scala planetaria e di utopistici progetti di governo mondiale che cancellino il ruolo delle Nazioni e degli Stati.


In argomento, faccio mie le parole di Edgar Morin, pronunciate negli anni Novanta, quando prendeva avvio la globalizzazione in parallelo alla riscoperta delle piccole patrie regionali, e valide più che mai oggi: “Non dobbiamo più opporre l’universale alle patrie, ma legare concentricamente le nostre patrie, familiari, regionali, nazionali, europee, e integrarle nell'universo concreto della patria terrestre".




1 Commento

  1. Ponderoso saggio che diventa difficile commentare. L’UE è formata da Nazioni e popoli con un passato molto variegato e con Storie coloniali e grandezze economiche troppo diverse. L’amalgama è stata cercata nell’aspetto economico ma, haimè, il progetto è malriuscito perché non vi è stato nel frattempo una amalgama nelle norme nel nel sistema finanziario e tributario e nei codici. Anzi si è consentita la nascita di Stati “canaglia” che hanno rubato risorse ad altri Stati più sprovveduti. Tutto ciò ha creato situazioni finanziarie tra Stati molto differenti aggravati da contribuzioni di diverso importo. Un Paese, in particolare in questo marasma è potuto crescere in maniera davvero distorta rispetto agli altri, creando disparità che sono diventate davvero insanabili. L’attuale pandemia che ha livellato i guai potrebbe essere di spunto per rimediare alle distorsioni avvenute ma credo che difficilmente ciò potrà avvenire. Sono quindi molto preoccupato per il futuro di questa sgangherata Unione anche perché non vedo all’orizzonte altri personaggi all’altezza dei vecchi Grandi Uomini che in passato hanno creduto nel sogno Europeo.

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