Una Europa con poca coscienza di sé



Giuseppe Ladetto    11 Maggio 2018       5

L'Europa continua ad essere al centro del dibattito politico: si scontrano i fautori di una maggiore integrazione con quanti criticano l'attuale vertice comunitario. Nel confronto fra favorevoli e contrari, si sente comunemente utilizzare il termine Europa in affermazioni del tipo “Dobbiamo costruire l'Europa” oppure “Questa Europa ci sottrae sovranità”, dimenticando che l’Europa con una sua specifica fisionomia esiste da almeno mille anni. È un cavillo, si ribatte: si dice Europa, per semplicità di linguaggio, per indicare la UE.

Credo che nel parlare di cose importanti sarebbe sempre bene utilizzare termini corretti, se no nascono equivoci. Infatti, non so se chi parla di Europa ne abbia sempre un concetto chiaro, visto che una parte di essa è esclusa da questo discorso unitario, mentre vi rientrano paesi (Cipro, Turchia) che geograficamente o culturalmente non vi appartengono. Quindi Europa è un termine o un concetto che richiede di essere definito, ed è bene ricordare che ogni definizione pone dei confini: circoscrive l'oggetto che in essa rientra e lo separa da ciò che ne sta fuori. Ha scritto lo storico Federico Chabod: “Coscienza europea significa differenziazione dell'Europa, come entità politica e morale, da altre entità, cioè da altri continenti o gruppi di nazioni. Il concetto di Europa deve formarsi per contrapposizione, in quanto c'è qualcosa che non è Europa, e si precisa attraverso un confronto con questa non Europa”. Ma a tutt'oggi nel discorso politico manca una definizione dell’oggetto (l’Europa) di cui si discute e su cui ci si divide perché non si vogliono prendere in considerazione gli unici elementi necessari a tal fine.

Alcuni anni fa, in una bella conferenza tenuta sul tema dell'Europa, il compianto don Enrico Pederzani (validissimo docente di storia e filosofia del Liceo Valsalice) ha detto che bisogna risalire a oltre l'umanesimo per ritrovare le forze spirituali che lavorarono alla formazione dell'Europa. È nell'Alto Medioevo che si delinea il primo abbozzo della fisionomia europea quando, nel cuore dell'impero carolingio, nasce una nuova civiltà dalla ormai avvenuta fusione degli elementi forniti dal mondo romano, dai popoli germanici e dal cristianesimo. Il Franco o Latino era, pur nelle diversità delle lingue vigenti nell'impero di Carlo Magno, già ben differenziato dal Greco o Bizantino e dal Musulmano: e ciò che dà consistenza a tale diversificazione è il fattore morale, politico, religioso, estetico e culturale. È questo patrimonio, trasmesso nei secoli, di generazione in generazione, che costituisce la continuità della “mens” europea e la diversifica dalle caratteristiche degli altri popoli. Don Pederzani, inoltre, si è soffermato sul ruolo determinante avuto dai monaci pellegrini nella diffusione dei germi di questa civiltà nel continente fino alle terre più remote di esso. Senza le molte centinaia di monasteri benedettini che hanno punteggiato la carta geografica europea, probabilmente oggi l'Europa sarebbe una cosa diversa da ciò che è. Giustamente san Benedetto è stato riconosciuto come il suo patrono.

Da allora in poi, ogni secolo ha aggiunto a questa componente basilare dell'identità europea nuovi tasselli, ogni popolo fornendo un contributo al suo arricchimento. Ne è risultata un’identità complessa, fatta di differenti piani e sfaccettature, ma sostanzialmente unitaria.

Unità ma non uniformità. Infatti, nella sostanziale unità di fondo della grande cultura, della pratica cristiana, dei valori civili, coesistono differenti lingue, tradizioni e costumanze locali, varietà di abitudini e di istituzioni. È tale varietà di componenti culturali, spirituali e politiche che costituisce, non solo la ricchezza e l'unicità dell'Europa, ma la forza creatrice che l'ha plasmata: confronto tra mondo latino e germanico, tra potere spirituale (papato) e politico (impero), tra Comuni e signori feudali, tra cattolicesimo e protestantesimo, tra ceti e classi sociali, tra ideologie politiche, tra modernità e tradizione; mai un potere o un aspetto riesce ad annullare gli altri; nasce dal continuo confronto un progresso capace, tuttavia, di non rompere mai con il passato, che tutto comprende e riassume in sé.

Ciò che chiamiamo Europa è quindi un prodotto dello spirito dei suoi popoli e non un semplice riferimento geografico, e neppure il solo frutto dell'adesione a una serie di valori ed istituzioni di recente proposizione sul piano storico.

Agnes Heller, parlando di ciò che avvertiamo come “casa” in quanto alimenta il sentimento di sentirsi in un luogo familiare che ci è proprio, scrive che, oltre alla casa fisicamente intesa, c'è una dimora eminentemente europea che, con terminologia hegeliana, chiama il “territorio dello Spirito assoluto”, dove le persone possono ritrovarsi a casa nelle alte sfere dell'arte, della religione e della filosofia. Gli europei si mantengono culturalmente vivi grazie all'assorbimento e all'assimilazione del cibo spirituale che è stato loro preparato in mondi passati e in luoghi lontani. Questo regno dello Spirito assoluto può fungere da casa se le persone che lo frequentano condividono esperienze e memorie di quanto in esso hanno vissuto. Solo visitando insieme questa dimora, discutendone e riflettendo su di essa la mantengono viva. L'alta cultura non è solo la somma delle opere che gli europei hanno collocato su un piedistallo, ma comprende tutte le relazioni umane che hanno avuto luogo in questo mondo.

Certo Agnes Heller, scrivendo di visitatori del territorio dello Spirito assoluto, fa preminente riferimento alla sfera intellettuale, ma non solo: infatti quanto in esso è avvenuto ed ancora avviene ha rilevanti ricadute su ampi strati della società. Ciò che Heller dice ci aiuta a comprendere quanto l'Europa sia essenzialmente un prodotto dello spirito (religione inclusa), della cultura e della memoria condivisa di coloro che la hanno abitata e la abitano.

Che relazione c'è tra il termine spirituale o culturale e quello geografico? Dall'originale nucleo carolingio, l'Europa si è via via allargata comprendendo e acquisendo i popoli iberici, gli scandinavi, i celti delle isole britanniche, gli ungari e gli slavi occidentali, ciascuno dei quali ha fornito un suo contributo all'edificio culturale europeo. A inizio del XVIII secolo, la Russia e i Balcani erano ancora terre estranee, sentite come Asia. Il legame culturale degli slavi orientali con il mondo antico e il cristianesimo si è formato tramite la grande tradizione greco-bizantina che li ha permeati di sé. Questa tradizione (a cui pur tantissimo deve l'Occidente) è caratterizzata da un monolitismo politico e religioso e da una staticità che si distingue dal fervore e l'intraprendenza che hanno caratterizzato gli europei. A partire dal XIX secolo, gli slavi orientali e i balcanici sono progressivamente entrati a far parte, ma non senza qualche difficoltà, dell'Europa portando un nuovo tassello alla sua identità.

Esiste un’Europa fuori dall'Europa geografica? Fanno parte di questa i popoli che, emigrati dal continente europeo, si sono insediati in continenti lontani? Nell'America latina, le élite mantengono molto dello cultura europea, ma troppo le separa dalle classi popolari indigene, con le quali la fusione è ancora incompiuta; in molti paesi latinoamericani, inoltre, la società appare statica, lontana dal fervore europeo. Invece, i primi colonizzatori del Nord America lasciarono l'Europa non solo fisicamente, ma soprattutto spiritualmente. Con la Bibbia in mano, i “padri pellegrini”, ritenendosi il nuovo popolo eletto, fuggirono dall'Europa, come Mosè dall'Egitto, terra di falsi idoli, in cerca della terra promessa. Qui, come scrive Alexis de Tocqueville, nella natura selvaggia, nei grandi spazi si è formato un nuovo popolo portatore di una mentalità opposta a quella europea. Un popolo tutto teso verso le nuove frontiere e verso il futuro, che considera il passato un ostacolo di cui sbarazzarsi, e che intravede il male in ogni diversità non riducibile ai propri schemi mentali. Connotati che ancora oggi definiscono il nordamericano, anche dopo gli apporti che hanno fornito le successive ondate migratorie, in larga misura ma non solo europee. Infatti, ha scritto Umberto Eco: "Quando sono in Francia o in Germania, non mi accorgo di essere europeo; quando sono negli Stati Uniti, sì". Un’analoga considerazione ha fatto anche Aleksandr Solgenitzin a dimostrazione che il giudizio di Tocqueville vale ancora oggi a distanza di oltre un secolo e mezzo.

Quali istituzioni per l'Europa? La natura dell'Europa e la forza che l'ha plasmata e le dà significato stanno nella ricchezza di sorgenti che la alimentano, nella dialettica che le è intrinseca, nella sua non riducibilità a un tutto omogeneo. L'Europa potrà sopravvivere solo se saprà salvaguardare tale patrimonio. Da questa sua natura, scaturiscono anche l'organizzazione e l'assetto istituzionale di cui deve dotarsi. C'è chi pensa all'unità europea come ad una semplice estensione dei confini degli Stati nazionali al continente e intende ridurre la multiforme fisionomia europea ad omogeneità linguistica, istituzionale, di costumanze, nel tentativo di fare dell'Europa quello che non potrebbe mai essere, una nazione, negandone così l'essenza. È un pericolo ben presente, un progetto tra i cui fautori si annoverano coloro che vedono nell'Europa solo uno spazio economico da liberare da ogni possibile ostacolo, anche di natura culturale, alla circolazione delle merci; ha come sostenitori i burocrati, gli eurocrati, i quali avversano ogni istituzione periferica che sottragga loro potere.

L'Europa non tradirà se stessa solo se avrà natura realmente federale (o forse confederale), con istituzioni che siano flessibili, capaci di includere e di valorizzare le diversità che abbracciano. Princìpi e direttive generali devono avere un'interpretazione e un'attuazione locale in un'ottica di sussidiarietà. In materia, ci possono essere modelli o progetti diversificati, ma, se si vuole che l'Europa continui ad esistere e non sia solo una denominazione vuota, occorre porre in primo piano tutto quanto riguarda il suo patrimonio spirituale con la sua cultura, l'arte, la memoria storica, e l'orgoglio per il suo passato. A svolgere un ruolo unificante non sono certamente i soli interessi economici ai quali tutto sacrificare.

Come collocare l'Europa sulla scena internazionale? Un mondo dove la storia sia finita, reso uniforme e appiattito nella sola dimensione consumistica, unico sopravvissuto legame tra gli individui nel crollo dei valori etici e culturali, annienterebbe l'Europa, riducendola a mera espressione geografica. Questo incombente mondo è il vero nemico dell'Europa, non altri.

Solo avendo coscienza di sé, della propria civiltà millenaria e agendo per costruire un nuovo equilibrio mondiale policentrico, l'Europa potrà salvare se stessa e nel contempo contribuire a salvaguardare anche le differenze culturali altrui: il pluralismo culturale è infatti la ricchezza dell'umanità, la sorgente di ogni vero progresso.


5 Commenti

  1. Bellissimo testo di “scenario”. Sarebbe bello che i politici attuali fossero capaci almeno di capirne il valore come orientamento per collegare le visioni particolari a partire da una “vista dall’ alto”. Temo di aver espresso una illusione….

  2. Temo che la pur interessante e illuminante analisi culturale sull’Europa di Ladetto non centri il problema politico-culturale del problema Europa.

    Nella storia vediamo che casi di nazioni culturalmente identificabili ma politicamente inesistenti, anzi conflittuali, come la Grecia classica e l’Italia medievale e rinascimentale non sono mai state capaci di raggiungere l’unità politica in continuazione con il loro precedente periodo aureo politicamente plurimo e conflittuale (la Grecia classica ha trovato l’unità prima dalla conquista macedone e poi, definitivamente, da quella romana e l’Italia ha dovuto attendere la Rivoluzione francese e quel che ne è seguito perché cambiassero le cose).
    Un conto è la spiritualità sic et simpliciter un’altra cosa è quella speciale forma di spiritualità che fa sentire i membri di una collettività come i cittadini di un unica entità politica che fa dire “siamo tutti su una stessa barca” e se sacrifici ci devono essere essi sono fatti “per il bene comune”. In una parola la cultura civicamente utile diventa tale solo se è in grado di fungere, come dice Gaetano Mosca, il fondatore della sociologia politica, da “formula politica”. Sono interessanti in proposito le considerazioni che lo storico ed ex ambasciatore Sergio Romano ha pubblicato in un suo recente libro sulle “formule politiche” degli Stati Uniti e sulla Russia, che confronta con lo spirito europeo (Romano, come me, auspica la costituzione di una Federazione Europea) per poi inserire nel suo del suo recente libro “Atlante delle crisi mondiali” la considerazione che l’Europa della NATO non è certo una entità in grado di diverntare un “polo mondiale”, e quindi di avere una sua “formula politica” che ne sorregga l’identità POLITICA comune.
    La verità è che nel dibattito sugli equilibri mondiali manca anche il vocabolario per poter reggere una seria analisi senza cadere in banalità come rappresentate da termini come “sovranisti”, “populisti e altre amenità “di pancia” del genere.
    Senza una indagine approfondita di natura antropologica e politica sulla dottrina “anarcocapitalista” che, con paradossale escatolgismo immanentistico, predica, come la dottrina comunista, la fine degli stati, con sostituzione del potere economico-tecnocratico sul potere politico, in nome di una economia sovrana universale nei confronti della politica, non possiamo capire che cosa sta succedendo. La sparizione del termine dal dibattito (l’ultima volta il termine fu citato nella terza pagina del Corriere della Sera nel 2000, cioè 18 anni fa)rende impossibile procedere ad una analisi ad un tempo ecologica (al cui interno ritengo che debba mettersi anche il problema demografico), politica, economica e antropologica se non per slogan di propaganda elettorale, che, anche nell’uso che ne fanno quelle forze politiche che si autodefiniscono “responsabili”, “non antisistema” e “non antipolitiche”,
    Non è sufficiente fare appello a certi aspetti comuni di unità spirituale o al semplice buon senso, per affrontare temi così spinosi.
    Una guida in proposito ritengo che posssa essere, oltre al citato libro di Sergio Romano (Rizzoli Editore, 2018) anche il testo di Pierluigi Fagan “Verso un mondo multipolater – Il gioco di tutti i giochi nell’era di Tramp” (Fazi Editore, 2017.)

  3. Anch’io mi riconosco appieno nel bell’affresco disegnato da Beppe Ladetto, la cui lettura si è per me casualmente e felicemente sovrapposta a quella dell’intervento di mons. Georg Ganswein, effettuato alla presentazione del volume di Joseph Ratzinger/Benedetto XVI “liberare la libertà. Fede e Politica nel terzo millennio”, intervento pubblicato dal Corriere della Sera l’11 maggio c.a.
    Non ho ancora letto il volume in questione ma anche la prefazione di Papa Francesco, anticipata da La Stampa l’altro giorno merita una particolare, ammirata citazione ed andrebbe ampiamente ripreso.
    Tornando allo scritto di Ladetto non posso che sottolineare come la visione dell’Europa da lui espressa sia assonante con il pensiero di Ratzinger, quale presentato da mons. Ganswein.
    Se mi è concesso un ricordo personale, posso dire che mai mi sono sentito “a casa mia” come avvenne in anni ormai lontani in occasione di convegni internazionali a scala europea, nei quali francesi, italiani, spagnoli, svizzeri, tedeschi, ecc… si ritrovavano per esaminare le più importanti questioni sociali, economiche e politiche alla luce unificante di una cultura comune, ispirata al Diritto Naturale e Cristiano.
    In quelle occasioni mi si è chiarita definitivamente la distinzione tra il sano patriottismo ed il nazionalismo, portatore di divisione e sventure. Questione oggi piuttosto attuale, visto lo spirito da tifoseria calcistica con cui questi temi e lo stesso rapporto con l’Europa vengono spesso affrontati.

  4. L’articolo di Ladetto è sicuramente condivisibile. Anche le considerazioni degli amici che mi precedono hanno il loro fondamento.
    Io credo, però, che la UE non sia nata per motivi religiosi, di razza, di storia od altro. ma semplicemente per una necessità di tipo economico, politico e militare. In un mondo dove Stati che raccolgono all’incirca 500 milioni od oltre un miliardo di abitanti, era necessario creare una associazione di Stati che raggiungesse anche essa un minino utile per combattere ad armi simili problemi connessi all’economia, alla politica, alla sicurezza, ecc. Gli Stati che rimangono solitari sono destinati a soccombere alle prepotenze che provengono a turno da tutti gli altri agglomerati di molto maggiore entità. Gli abitanti dell’UE non si amano affatto ma sono costretti a convivere per non essere travolti da quelli più popolosi e con maggiore potere economico e militare.

  5. Una dovuta risposta ai rilievi di Accorinti e Cicoria. E’ verissimo che non è sufficiente, per formare una comunità politica, avere una cultura, o diciamo pure una civiltà, condivisa, come hanno mostrato l’Ellade e l’Italia medievale e rinascimentale. Ma la questione è se sia possibile costruirla senza possedere questi elementi. Le sole esigenze economiche, politiche e militari possono condurre ad alleanze, costruzioni sempre fragili e reversibili (Nato compresa). Ricordiamoci che, ad inizio 1914, l’Italia faceva parte della Triplice; l’anno dopo era in guerra contro i suoi ex alleati. Certamente, per edificare un solido organismo (Stato unitario o federale o confederale che sia), ci vuole quella speciale forma di spiritualità che fa sentire i membri di una collettività come cittadini di un unica entità politica, ma tale forma di spiritualità può nascere solo a partire dall’appartenenza ad una stessa civiltà e cultura (che ne costituiscono la premessa). In materia, condivido quanto, tempo fa, ha scritto Ernesto Galli della Loggia in polemica con i fautori del patriottismo costituzionale: “Le società esistono solo quando un gruppo di uomini e donne sentono di avere un vincolo comune che li lega e li tiene insieme perché è connesso a qualcosa che culturalmente, emotivamente, sentimentalmente vive in ognuno di loro.” Ed ha aggiunto che “bisogna convincersi che le società non esistono perché hanno una costituzione, e che la migliore tavola immaginabile di diritti e di istituzioni non basta a formare una società”.

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