Non vorrei essere una voce stonata nel coro, ma, credo, che alcune riflessioni vadano fatte, anche a futura memoria, di fronte all’emergenza che stiamo vivendo. Riflessioni che non sento da parte della classe politica di questo Paese, ferma nella retorica o nell’accusa faziosa.
La prima riflessione: di fronte a questa emergenza risuonano quanto mai vere le parole di papa Francesco quando afferma che più che a “un’epoca di cambiamenti” si stia assistendo a “un cambiamento d’epoca”. Se si vogliono evitare in futuro nuovi choc distruttivi come questo bisogna ripensare tante cose, sia sul piano personale, sia su quello collettivo , sia economico-produttivo.
Seconda riflessione. Non si può più farsi trovare impreparati su alcun fronti: il primo è la produzione di quegli ormai celebri DPI, i dispositivi di protezione individuale, come mascherine, alcool, camici usa e getta, occhiali protettivi ecc. che sono scarseggiati rapidamente non solo per i cittadini ma anche per gli operatori sanitari in prima linea. La protezione civile e il governo non hanno subito censito le industrie italiane in grado di produrli e ordinato per decreto (o in qualche modo vincolante) la loro produzione. Si è perso un mese e io credo che anche la mancata dotazione di massa, a tutti, di questi dispositivi ha creato una falla nella prevenzione. Si doveva vietare di uscire (uscite permesse naturalmente solo per necessità documentate) a tutti coloro che erano privi di mascherine e di altri DPI. Ma non si è fatto: non perché non fosse comunque una precauzione utile, ma perché non c’erano. Allo stesso modo sono mancati tamponi sufficienti per testare chi aveva solo qualche sintomo (i paucisintomatici) e tutti gli operatori sanitari, e i laboratori non avevano sufficienti macchinari per fare gli esami, tanto più quelli rapidi. Anche in questo caso non si è mobilitato subito il tessuto produttivo: la prima call, come si dice, con protezione civile, ministero della ricerca e aziende si è messa in moto per lunedì 23 marzo. Certo alcune industrie si sono mosse per conto loro su vari fronti, ma senza una mobilitazione generale né un ordine dall’alto. E con grossi ostacoli burocratici.
Qualcosa è sembrato cambiare con la nomina di un commissario ad hoc come Arcuri, nomina avvenuta solo il 12 marzo, con qualche malumore, quando erano evidenti le falle nel coordinamento nazionale della Protezione civile. Ma anche a livello regionale sono dovuti entrare in campo commissari per dare impulso alle cose da fare.
Riconosco la buona volontà e l’abnegazione personale, ma una emergenza sanitaria è diversa da una alluvione. I volontari sono molto utili, ma non bastano. Ci vogliono organizzazioni complesse e sofisticate.
Ho personalmente assistito, ho una persona di famiglia che vi lavora come assistente sanitaria, al dramma delle RSA, le residenze sanitarie per anziani, dove c’erano le persone più a rischio di contagio. Ho visto il coraggio e l’abnegazione del personale su un fronte quasi dimenticato per almeno un mese, con scarsità di mezzi. Ci si batteva con quello che c’era, si faceva il possibile e forse l’impossibile, ci si è trasformati, in pratica, in strutture per infettivi, ma così, anche da lì, si sono alimentati i contagi.
I governanti della cosa pubblica italiana, a tutti i livelli, si sono fatti trovare impreparati, quando già l’OMS da inizio gennaio avvertiva del pericolo e a in Cina si scopriva l’epidemia (o almeno se ne dava notizia). È evidente che al vertice è mancata la capacità di prevedere e programmare.
Ultima considerazione. L’economia. Questa emergenza dimostra che non si può globalizzare tutto né sottrarre ogni settore agli aiuti di Stato. L’Europa deve cambiare. Ci sono manufatti che vanno prodotti anche in mancanza di una adeguata richiesta dal mercato: penso ai DPI ed altri articoli o macchinari. Bisogna immagazzinarli in quantità adeguata e quando scadono sostituirli. Il tutto richiede che le aziende li producano, non in perdita, ovviamente, ma a prezzi fissati dallo Stato che li acquisterà. Non possiamo dipendere solo da nazioni che poi ogni pochi anni diventano focolai di pandemie mondiali.
Quello che va combattuto non è l’aiuto di Stato, ma le pubbliche inefficienze, l’assenteismo, la scarsa produttività che troppo spesso sono i vizi delle pubbliche amministrazioni. Ma questi difetti non sono un dogma e si possono sconfiggere.
Ultima considerazione economica: sono d’accordo con chi propone che di fronte a un evento eccezionale, ci vuole un provvedimento eccezionale come una patrimoniale di solidarietà. Si potrebbero mobilitare molte risorse, non a debito, per lavoratori e aziende. So che ci vogliono un governo autorevole e forze politiche responsabili (come fu fatto dal ministro Goria alle 4 del mattino del 13 settembre 1992).
Voglio dire infine, salvo equivoci, che mi inchino a tutti quelli che si battono in prima linea con coraggio e competenza in tutti i settori. Credo che la parola eroi non sia eccessiva.
La prima riflessione: di fronte a questa emergenza risuonano quanto mai vere le parole di papa Francesco quando afferma che più che a “un’epoca di cambiamenti” si stia assistendo a “un cambiamento d’epoca”. Se si vogliono evitare in futuro nuovi choc distruttivi come questo bisogna ripensare tante cose, sia sul piano personale, sia su quello collettivo , sia economico-produttivo.
Seconda riflessione. Non si può più farsi trovare impreparati su alcun fronti: il primo è la produzione di quegli ormai celebri DPI, i dispositivi di protezione individuale, come mascherine, alcool, camici usa e getta, occhiali protettivi ecc. che sono scarseggiati rapidamente non solo per i cittadini ma anche per gli operatori sanitari in prima linea. La protezione civile e il governo non hanno subito censito le industrie italiane in grado di produrli e ordinato per decreto (o in qualche modo vincolante) la loro produzione. Si è perso un mese e io credo che anche la mancata dotazione di massa, a tutti, di questi dispositivi ha creato una falla nella prevenzione. Si doveva vietare di uscire (uscite permesse naturalmente solo per necessità documentate) a tutti coloro che erano privi di mascherine e di altri DPI. Ma non si è fatto: non perché non fosse comunque una precauzione utile, ma perché non c’erano. Allo stesso modo sono mancati tamponi sufficienti per testare chi aveva solo qualche sintomo (i paucisintomatici) e tutti gli operatori sanitari, e i laboratori non avevano sufficienti macchinari per fare gli esami, tanto più quelli rapidi. Anche in questo caso non si è mobilitato subito il tessuto produttivo: la prima call, come si dice, con protezione civile, ministero della ricerca e aziende si è messa in moto per lunedì 23 marzo. Certo alcune industrie si sono mosse per conto loro su vari fronti, ma senza una mobilitazione generale né un ordine dall’alto. E con grossi ostacoli burocratici.
Qualcosa è sembrato cambiare con la nomina di un commissario ad hoc come Arcuri, nomina avvenuta solo il 12 marzo, con qualche malumore, quando erano evidenti le falle nel coordinamento nazionale della Protezione civile. Ma anche a livello regionale sono dovuti entrare in campo commissari per dare impulso alle cose da fare.
Riconosco la buona volontà e l’abnegazione personale, ma una emergenza sanitaria è diversa da una alluvione. I volontari sono molto utili, ma non bastano. Ci vogliono organizzazioni complesse e sofisticate.
Ho personalmente assistito, ho una persona di famiglia che vi lavora come assistente sanitaria, al dramma delle RSA, le residenze sanitarie per anziani, dove c’erano le persone più a rischio di contagio. Ho visto il coraggio e l’abnegazione del personale su un fronte quasi dimenticato per almeno un mese, con scarsità di mezzi. Ci si batteva con quello che c’era, si faceva il possibile e forse l’impossibile, ci si è trasformati, in pratica, in strutture per infettivi, ma così, anche da lì, si sono alimentati i contagi.
I governanti della cosa pubblica italiana, a tutti i livelli, si sono fatti trovare impreparati, quando già l’OMS da inizio gennaio avvertiva del pericolo e a in Cina si scopriva l’epidemia (o almeno se ne dava notizia). È evidente che al vertice è mancata la capacità di prevedere e programmare.
Ultima considerazione. L’economia. Questa emergenza dimostra che non si può globalizzare tutto né sottrarre ogni settore agli aiuti di Stato. L’Europa deve cambiare. Ci sono manufatti che vanno prodotti anche in mancanza di una adeguata richiesta dal mercato: penso ai DPI ed altri articoli o macchinari. Bisogna immagazzinarli in quantità adeguata e quando scadono sostituirli. Il tutto richiede che le aziende li producano, non in perdita, ovviamente, ma a prezzi fissati dallo Stato che li acquisterà. Non possiamo dipendere solo da nazioni che poi ogni pochi anni diventano focolai di pandemie mondiali.
Quello che va combattuto non è l’aiuto di Stato, ma le pubbliche inefficienze, l’assenteismo, la scarsa produttività che troppo spesso sono i vizi delle pubbliche amministrazioni. Ma questi difetti non sono un dogma e si possono sconfiggere.
Ultima considerazione economica: sono d’accordo con chi propone che di fronte a un evento eccezionale, ci vuole un provvedimento eccezionale come una patrimoniale di solidarietà. Si potrebbero mobilitare molte risorse, non a debito, per lavoratori e aziende. So che ci vogliono un governo autorevole e forze politiche responsabili (come fu fatto dal ministro Goria alle 4 del mattino del 13 settembre 1992).
Voglio dire infine, salvo equivoci, che mi inchino a tutti quelli che si battono in prima linea con coraggio e competenza in tutti i settori. Credo che la parola eroi non sia eccessiva.
Papa Francesco, la cui spiritualità non è limitata da convenienze politiche od economiche, come succede ordinariamente a chi esercita poteri “mondani”, ha colto nel segno dicendo che ci si trova in un “cambiamento d’epoca” che ci obbliga a ripensare tante cose, sia sul piano personale, sia su quello collettivo, sia sul piano economico produttivo.
Consentitemi di specificare alcuni di questi ripensamenti che, a mio avviso, partono da un’unica considerazione: che l’uomo, come pensato dalla cultura occidentale degli ultimi due secoli e mezzo ha creato, quasi senza avvedersene, una sorta di inversione del concetto cristiano di Redenzione: la redenzione dal male, da qualsiasi male, sarebbe opera dell’uomo stesso autodeificatosi mediante il dominio sulla natura operato attraverso la baconiana scientia activa, cioè la tecnologia.
Nella sostanza però è accaduto che l’uomo, anziché fruire delle maggiori conoscenze dategli dalla scienza con la dovuta prudenza (l’azione umana “cartesianamente”, cioè analiticamente, può risolvere singoli problemi quotidiani che, non risolti, comporterebbero sofferenza ma va sempre tenuto presente, olisticamente, che tali soluzioni, possono anche comportare, specialmente su vasta scala, un prezzo da pagare agli equilibri generali della natura di cui l’uomo è pur sempre parte) in realtà si è visto che l’uomo ha trasformato i vantaggi ottenuti in una sorta di manifestazione di “delirio di onnipotenza” con valenze egemoniche tra gli Stati.
Il progresso economico appare come una nuova arma bellica per ottenere il dominio del mondo attraverso la conquista dei mercati, anziché le (ormai costosissime) guerre guerreggiate.
La conseguenza inevitabile di ciò è che l’economia non è più vista come uno strumento in pro dell’uomo (cioè in pro della sua felicità e del suo benessere, nei limiti dell’umano) ma “l’uomo è diventato uno strumento per l’apparato economico (bellificato)”, che quindi appare sempre più come uno strumento di potere fine a se stesso e quindi schiavizzante (l’uomo come fattore di produzione). E le conseguenze non possono che essere quelle che sono sotto gli occhi di tutti.
A mio avviso questa dovrebbe essere la presa di coscienza di base da cui partire per far rinascere un’altro tipo di umanità, più parco e spiritualmente più ricco di quello globalizzato odierno.
Ma ciò sarà possibile in un sistema industriale la cui efficienza è, forse per sua natura, calcolata sulla capacità che ha “di invadere i mercati”?