È ormai diffusa la dizione “democrazia illiberale” con riferimento a Ungheria, Polonia, Russia, Turchia, e altre nazioni caratterizzate da governi semiautoritari o comunque non rispettosi della divisione dei poteri vigente nel mondo occidentale. In tali Paesi, Ungheria e Polonia in particolare, le “democrazie illiberali”sarebbero, a detta di molti commentatori di fatti politici, il prodotto di un passato caratterizzato, nel periodo precedente al secondo conflitto mondiale, da governi autoritari e conservatori (Josef Pilsudsky in Polonia e Miklos Horthy in Ungheria), e nel dopoguerra da regimi comunisti imposti dall'URSS, sistemi politici che, nel complesso, non hanno consentito una vera esperienza di democrazia liberale. È una spiegazione troppo semplice o parziale, poiché pulsioni “illiberali” si sono determinate o vanno determinandosi (come sostengono i medesimi commentatori) anche al di fuori dell'est europeo, nell'Europa occidentale e perfino negli USA, trovando consenso tra i cosiddetti “sovranisti”.
Per comprendere il fenomeno, bisogna partire da un dato di fatto: la liberaldemocrazia è in crisi in quasi tutti i Paesi. Lo evidenziano la sempre più bassa affluenza alle urne, il crescere del voto di protesta assegnato a movimenti genericamente definiti populisti, la frammentazione dei partiti, i continui mutamenti negli orientamenti del corpo elettorale, sempre deluso da chi va al governo.
La globalizzazione ha di fatto sottratto all'ambito degli Stati nazionali gli strumenti di cui i governi necessitano per realizzare i propri orientamenti in materia economica, produttiva e sociale. Quello che degli spazi decisionali resta in ambito nazionale viene occupato da tecnici, esperti, autorità indipendenti, una magistratura talora debordante e corporazioni varie con in primis quella statale.
In materia, Francis Fukuyama parla dell'affermarsi di una “vetocrazia” in grado di bloccare le decisioni del potere esecutivo o di impedirne la realizzazione. Con tale termine, allude a un insieme di organi e di apparati dello Stato che ormai agiscono in una sola logica corporativa, mossi dalla volontà di difendere e di estendere il proprio potere e i propri privilegi.
Così, le democrazie liberali, agli occhi di molti e in particolare della gente comune, sembrano essersi trasformate in fiacche oligarchie separate dal popolo, incapaci di dare risposte ai problemi, mentre i partiti sono diventati semplici macchine elettorali con cui accedere ad una stanza di bottoni ormai depotenziati. Ne conseguono incapacità decisionale, paralisi, inefficienza, e comunque sempre visioni a corto raggio.
Pertanto, dobbiamo chiederci come sia potuto avvenire un tale mutamento di opinione rispetto a quando la liberaldemocrazia (con la caduta del comunismo) sembrava essere diventata il punto di arrivo dell'evoluzione delle istituzioni determinando la “fine della storia”.
Forse bisogna partire da lontano cominciando da una considerazione: la “liberaldemocrazia” non è (come diffusamente si crede) sinonimo di “democrazia” e nemmeno ne rappresenta la sua piena realizzazione.
L'idea democratica, (René Rémond, Introduzione alla storia contemporanea) nel contesto della prima metà del XIX secolo ha ripreso dal liberalismo l'eredità delle libertà pubbliche, ma conferito ad esse una portata più vasta. Chi oggi vede nella democrazia lo sviluppo dell'idea liberale, dovrebbe ricordare che a metà Ottocento essa si presentava soprattutto come rottura con l'ordine e la società del liberalismo. La contrapposizione riguardava l'eguaglianza (non solo giuridica, ma anche sociale), la sovranità (non solo nazionale, ma anche popolare), la nozione di “popolo” (non un'astrazione giuridica, ma l'insieme dei cittadini), la libertà (che riguarda tutti, ma perché sia reale si devono creare le condizioni perché tutti ne possano essere partecipi).
Per lungo tempo, il liberalismo è stato considerato dai democratici come una mera affermazione di principi che, nella realtà concreta della vita politica, coprivano un sistema teso a proteggere, col suffragio ristretto, gli interessi dei ceti possidenti. Se l’avvento del suffragio universale ha attenuato le diffidenze dei democratici (radicali, repubblicani ecc.) nei confronti del parlamentarismo, l’ingresso in campo dei socialisti ha introdotto nuove motivazioni di ostilità nei confronti del liberalismo. Pertanto, ancora a lungo si è protratta la contrapposizione tra democrazia e liberalismo, ora in modi conflittuali, ora dialettici, ancorché, nella lotta ai totalitarismi del XX secolo, ci sia stata collaborazione tra democratici e liberali pur mantenendosi la distinzione tra le due concezioni.
Solo nel secondo dopoguerra, nell’Europa occidentale, si può propriamente parlare di liberaldemocrazia quando (anche per contrastare la presa del comunismo sulle classi popolari) si realizzò un compromesso fra liberalismo e democrazia sul terreno politico, e tra Stato e mercato su quello economico. È l'epoca d'oro in cui, in Europa, l’economia sociale di mercato e il sistema di cooperazione mondiale, scaturito dagli accordi di Bretton Woods, hanno dato luogo a una fase di crescita economica e diffuso un clima di fiducia nel futuro: lo Stato ha assicurato all’economia capitalista un livello di domanda corrispondente alla piena occupazione e svolto una funzione equilibratrice mediante un’ampia redistribuzione delle risorse, garantendo a tutti un alto grado di protezione.
Ma panta rei e tutto cambia. Con il crollo del comunismo, il capitalismo ha ritrovato i suoi istinti più predatori; si sono affermati il monetarismo e teorie liberiste spinte, a cui si sono convertite tutte le formazioni politiche (sinistre incluse); sono venute alla ribalta e continuano a essere riproposte iniziative tese, con riforme elettorali in senso maggioritario o con meccanismi vari, a togliere rappresentatività agli organismi elettivi per estromettere quelle forze politiche che non si riconoscono nel dominate pensiero liberale o che tutelano gli interessi delle classi lasciate indietro dal sistema. In pratica, si è rotto il compromesso fra democrazia e liberalismo: il termine liberaldemocrazia viene nella sostanza a designare istituzioni coerenti con il solo liberalismo. Questa trasformazione è stata accelerata dalle logiche imposte dalla globalizzazione sotto la spinta della concorrenza internazionale e con l'omologazione che le è connessa. Oggi, per una crescente parte dell’opinione pubblica, democrazia e liberalismo tornano a essere concetti distinti e talora contrapposti.
Schematicamente vediamo gli elementi basilari che definiscono rispettivamente l'idea democratica e quella liberale.
La democrazia tout court si costruisce attorno ai concetti di cittadinanza e di nazione (senza cadere nel nazionalismo); pone a suo fondamento il principio della sovranità popolare che sta alla base di ogni altro potere, compresi quello giudiziario e quello costituente. La democrazia è partecipativa, e la libertà è concepita come possibilità data a tutti i cittadini di prendere parte agli affari pubblici e di decidere quanto più possibile su ciò che li riguarda in questo ambito, una concezione che per certi versi presenta punti di contatto con quella che Constant ha definito “la libertà degli antichi”. Infatti la visione antropologica che la sottende è quella dell'Homo politicus (corrispondente alla definizione aristotelica di politikòn zoon) che si realizza pienamente nella partecipazione attiva alla vita della comunità di appartenenza (polis ieri, nazione oggi) con l'obiettivo di realizzare il bene comune.
La democrazia liberale nella forma attuale (definitasi a partire dagli anni Novanta con l'affermarsi della globalizzazione e del dominio del capitalismo finanziario) si articola attorno alle nozioni di individuo e di umanità con l'obiettivo di eliminare tutte le strutture intermedie che si interpongono (nazione, comunità, famiglia ecc.) avvertite come ostacoli alla piena libertà individuale e alla crescita economica. Non riconosce sovranità superiore a quella individuale, ragion per cui il primo compito che assegna allo Stato è garantire i diritti individuali, ritenuti sacri. Siccome i diritti rappresentano un “a priori” rispetto alle decisioni politiche, queste devono comunque sottomettersi ad essi. Poiché oggi la cultura liberal tende a dilatare ed estendere i diritti, ne consegue che la volontà popolare, che si esprime nella politica, risulti sempre più marginalizzata.
Come ha riconosciuto Francis Fukuyama, l'estensione dei diritti individuali si traduce nella distruzione del capitale sociale, fondamento della vita democratica. La libertà che viene continuamente esaltata riguarda la possibilità dell'individuo di evitare gli obblighi e i doveri verso le comunità di appartenenza e verso la sfera pubblica per ripiegarsi prevalentemente sulla dimensione privata. In questo ambito, la prima libertà diventa quella economica, e il liberismo è l'unica dottrina compatibile con una tale concezione. Il protagonista del liberalismo è l'Homo aeconomicus tutto teso a soddisfare le proprie esigenze, il cui egoismo tuttavia tramite il mercato si risolverebbe a favore della società.
Ritorniamo alla democrazia illiberale che trova nei sovranisti i suoi principali interpreti. Quali fattori contribuiscono alla sua genesi e che cosa spinge questi ultimi ad allontanarsi dalla liberaldemocrazia? Ridimensionerei, senza totalmente escluderlo, il peso di una tradizione autoritaria che, in alcuni Paesi, deriva dalle vicissitudini del XX secolo. Sicuramente c'è la constatazione della distanza del liberalismo attuale dall'idea democratica originaria di cui contraddice elementi centrali. Soprattutto, ritengo che ci sia la non accettazione dell'impotenza in cui sono caduti i gruppi dirigenti liberaldemocratici a fronte delle crisi che ci minacciano e della loro incapacità di difendere gli interessi del proprio Paese e delle sue classi disagiate, vittime della globalizzazione.
Il sovranismo in cui si riconoscono i democratici illiberali ci propone, come scrive Calenda, ricette inadeguate e ci fornisce di trincee fragili rispetto ai guasti della globalizzazione? Sì, è vero, perché gli Stati europei, nel mondo attuale, hanno dimensioni inadeguate per rivendicare un minimo di sovranità reale e per confrontarsi con le grandi potenze. Tuttavia, come ho già detto in altro scritto, una cessione di sovranità verso un potere federale o confederale ha senso solo se quest'ultimo sa dotarsi (o manifesta una seria intenzione di dotarsi) di una sua piena sovranità (politica, militare, economica, monetaria ecc.). Senza sovranità non possono sopravvivere a lungo né gli Stati, né la democrazia.
Al momento in Europa, si intravede ancora troppo poco di realizzato in materia, anche perché l’Europa non è solo uno spazio economico e giuridico (come pretendono gli attuali vertici comunitari), o peggio una semplice tappa nel cammino verso la mondializzazione, ma è il frutto di una storia secolare, è una cultura e una civiltà, fondamenta su cui costruire un edificio politico autonomo che abbia una identità precisa con una fisionomia sua propria, distintiva dal resto del mondo per la ricchezza di sorgenti che l'hanno generata e la alimentano. Se non saremo in grado di fare rapidamente un passo in tale direzione, ad essere sconfitti saranno sia i liberaldemocratici sia i sovranisti.
Un'ultima considerazione. Se è vero, come credo, che stiamo vivendo un cambiamento di epoca ancorché non ci sia chiara la fisionomia del nuovo in arrivo, tuttavia di un fatto possiamo essere certi: ogni epoca ha dato forma a una tipologia di società e creato istituzioni idonee al suo governo. Quelle elaborate in un passato ormai messo alle spalle sono inevitabilmente destinate a essere superate.
Commento all’articolo di Ladetto:
Dice Ladetto a conclusione di un’impeccabile esame dottrinario sulla storia della liberaldemocrazia :
“Se è vero, come credo, che stiamo vivendo un cambiamento di epoca ancorché non ci sia chiara la fisionomia del nuovo in arrivo, tuttavia di un fatto possiamo essere certi: ogni epoca ha dato forma a una tipologia di società e creato istituzioni idonee al suo governo. Quelle elaborate in un passato ormai messo alle spalle sono inevitabilmente destinate a essere superate.”
Sarei portato ad un maggior possibilismo circa il fatto che “ogni epoca ha dato forma a una tipologia di società e creato istituzioni idonee al suo governo” dando più spazio al fatto che nel suo agire storico l’uomo procede, nel cercare la risposta più adeguata alle sue esigenze di raggiungere determinati scopi, per tentativi ed errori e che quindi il risultato di idoneità, e quindi di razionalità, delle sue scelte esistenziali, private o collettive che siano, sia con certezza adeguato a risolvere i problemi posti dalle condizioni storiche, privati o collettivi che siano.
Questo mio pessimismo mi induce a valutare le evoluzioni della storia presente come più dettate da limiti di ordine oggettivo (contrasto sempre meno sanabile tra sviluppo economico e problematiche ecologiche) legate alla nostra tipologia di società (il globalismo è figlio della sottomissione della politica alla sovranità dell’economia, vista come esecutrice delle funzioni liberatorie dai mali che la nostra cultura attribuisce, come bene supremo, alla tecnologia) che da scelte relative al governo della società stessa che ha confinato la politica da suprema reggente della società ad ancella dell’azione salvifica della tecnologia (tecnocrazia resa sovrana dal primato delle istituzioni economiche, in altre parole la dottrina “antipolitica”, definibile così in quanto rifiuta la sovranità della politica, dell’anarco-capitalismo).
Bel dibattito tra visione “oggettiva” dell’evoluzione storica (marxiana) e visione “soggettiva” “personalistica” dello sforzo politico di singoli attori (leader e cittadini) limitato, contraddittorio, fallibile.
Io propenderei nel ritenere che nelle fasi di “crisi” di una società (stati nazionali europei) di un gruppo sociale (classe dirigente europea) e di cambio assai rapido di paradigmi non vi è tempo né per le istituzioni “vecchie” né delle classi dirigenti “vecchie” di aggiornarsi. Situazione pre-rivoluzionaria o di pre-decadenza? lascio ai giovani superare il dilemma.