Italia, la Toscana di un nuovo Rinascimento



Domenico Accorinti    17 Maggio 2019       2

L’ultimo articolo di Giuseppe Ladetto ha suscitato ampi commenti. Oltre al confronto tra l’autore e Giuseppe Davicino, segnaliamo alla lettura quello dell’avv. Accorinti, e ne riportiamo qui la parte conclusiva, che auspica un'iniziativa europea caratterizzata da un nuovo umanesimo, il solo in grado di fare uscire le nazioni dai guasti di quello che l’autore chiama “anarco-capitalismo”.


Tornando a discutere in modo specifico e conclusivo del problema europeo, temiamo che ormai l’effetto sedativo del fanatismo nazionalistico del periodo 1914 – 1945 sia stato ormai superato dalla fine dell’abbondanza delle economie europee. Quella che per circa 30 anni successivi al 1945 aveva alimentato un senso di solidarietà che andava al di là dei singoli interessi nazionali, anche in funzione del pericolo comunista, dando un certo senso di unitarietà da un lato tra le nazioni europee e dall’altra di queste con la dominante potenza statunitense; che però non può essere confuso con un’unità statale federale, anche se certi strumenti giuridico-istituzionali potrebberlo farlo credere. La UE infatti è basata su un’alleanza internazionale di natura tecnocratica (anche se talvolta emergono velleitariamente prese di posizione di natura più politica e culturale che economica) che sono basate sul peso contrattuale politico di ogni singolo Stato e non sul senso di giustizia e di solidarietà che sta a fondamento di un qualsiasi Stato sovrano, unitario o federale che sia, pena la sua inefficienza e instabilità.

Voler ridurre, come si sta facendo al presente, il “sovranismo” ad una scelta perversa di qualcuno quando esso è la conseguenza inevitabile di scelte (sostanzialmente sovrane) errate dell’UE, (...) è un errore che sta costando caro soprattutto proprio all’Europa. Anche perché i problemi oggettivi di limitazione delle risorse, lato sensu ecologici, che il mondo intero sta provando ad affrontare (basta pensare anche solo alla bomba demografica) sono resi difficilmente risolvibili anche per la “militarizzazione” della contesa economica globale per la “conquista dei mercati”, che con “le magnifiche sorti e progressive” evocanti il “paradiso in terra” non ha proprio nulla a che spartire.

Non è qui certo la sede per esaminare come dal 1945 in poi l’Europa sia fuori gioco, vuoi politicamente, ma quel che è peggio, anche culturalmente, visto che il processo di modernizzazione dell’Europa postbellica è stato in toto un processo di americanizzazione intellettuale (sottomissione volontaria alla Weltanschauung su cui si fonda la “formula politica” che regge la nazione americana e la sua collocazione geopolitica nell’ecumene) dell’Europa stessa. Questa omologazione ha ucciso ogni possibilità di uscire da quegli schemi anarco-capitalistici che hanno creduto di poter delegare scelte politiche – che sono sempre scelte sovrane perché riguardano l’unitarietà, in nome della giustizia, dell’ordine sociale –, a entità del potere finanziario internazionale, visto come il sacerdote di una religione di redenzione dell’intero ecumene attraverso scelte tecnocratiche trasformate in scelte necessitate per riorganizzare i popoli per il raggiungimento di determinati fini ritenuti secolarmente salvifici. Senza vedere quello che sono: scelte di vantaggio particolare per gruppi che, istituzionalmente, mirano al vantaggio proprio in nome di un (sempre meno) apparente benessere collettivo.

Purtroppo l’antropologia e la storia ci insegnano che la realtà umana può essere governata solo dalla (retta) politica, il cui compito è proprio quello di “dare giustizia” mediante l’esercizio della sovranità sull’intera collettività. E non di dare acriticamente patenti di salvatori del mondo a tutti coloro che raggiungono grandi successi imprenditoriali. Questa è scienza umanistica, che va ben oltre il solo fatto economico (indubbiamente fondamentale per le società umane, ma in termini strumentali, non finali) per cui non si può prescindere, come ci dice Brodel, dal lungo periodo che, inconsciamente, deposita nelle scelte degli appartenenti alle diverse civitates sovrane determinante valutazioni di ciò che è (rectius: dovrebbe essere) bene e di ciò che è (rectius: dovrebbe essere valutato come) male per la comunità politica di appartenenza. Conseguentemente, dovrebbe indicarci anche dove finisce il concittadino, cioè colui che è legato allo stesso criterio di giudizio sociale, e dove inizia lo straniero, cioè colui che è considerato estraneo alla civitas in quanto agisce secondo un diverso criterio di giudizio sociale.

Questi schemi permangono sin ché non accadono fatti esterni traumatici, o spinte intellettuali che comportano un forte scossone alla coscienza morale della collettività interessata, di natura politica e/o morale tale da riuscire a spezzare i legami, in modo più o meno totale o più o meno parziale, con la cultura del passato ed a cambiare le stesse scale di valori alle quali i popoli in futuro faranno riferimento nel loro comportamento sociale. O tutte e due le cose insieme.

Come esemplificazione storica potremmo ricordare come il nostro Risorgimento non avrebbe mai potuto aver luogo senza il verificarsi di quelle grandi turbolenze storiche e culturali che furono la Rivoluzione francese, la Restaurazione e il Romanticismo valorizzante, in un’ottica nuova, la peculiari tradizioni nazionali. Specialmente quelle, come l’italiana, la polacca, la tedesca e l’ungherese, alle cui peculiarità etniche non corrispondeva l’esistenza di uno stato indipendente.

È quindi chiaro che l’Europa potrà avere un futuro di non declino unicamente se nascerà una cultura nuova creante una nuova Weltanschauung, cosa difficilissima nell’Occidente contemporaneo (che dovrebbe coincidere con lo scenario europeo del XIX secolo in cui si muovevano le singole nazioni), che identificasse l’Europa come la patria della cultura umanistica da contrapporre al declinante positivismo tecnocratico statunitense.

Si tratterebbe (e qui l’Italia, una sorte di Toscana dell’Europa) avrebbe molto da dire nel ripensare un nuovo Rinascimento che rimettesse al centro del mondo l’uomo con modalità per certi aspetti opposti a quelli del Rinascimento postmedievale. Una centralità basata sul riconoscimento della necessità di una armoniosa simpaticità con la natura che, pur non disdegnando i benefici dell’industria, ne denuncia gli eccessi che l’ecologia ha già denunciato da tempo.

Il Rinascimento postmedievale ha avuto il suo fulcro nella riscoperta dello studio iuxtra propria principia della rerum natura, quello postindustriale dovrebbe avere il suo fulcro nella riscoperta dello studio iuxta propria principia della hominum natura, cioè nella elaborazione di una nuova antropologia, mettendo fine alla ubriacatura che negli ultimi duecento anni di prometeismo moderno ha portato, al contrario del prometeismo tragico antico, ad attribuire all’uomo poteri salvifici al di là di ogni senso della misura.

Ma, per raggiungere un risultato siffatto, che porterebbe non solo vantaggi politici all’Europa, occorrerebbe propugnare una sorta di moratoria economica mondiale che togliesse all’attività economica quella caratteristica che oggi essa ha: quella di una forma mascherata di guerra di conquista, effettuata sui mercati e nelle borse anziché sui campi di battaglia (si fa per dire, viste le caratteristiche della guerra moderna, più guerra civile che guerra con lo straniero) fatta in sostituzione (sin ché la pace sarà in grado di tenere) della ormai eccessivamente distruttiva rispetto al passato guerra militare guerreggiata.

Il presupposto di ciò potrebbe essere solo il ritorno a una gestione della economia nella forma della “economia politica”, libera ma programmata all’interno di ogni Stato sovrano e contrattata tra Stati quanto a scambi internazionali.

Senza questa conversione ad U nella prassi industriale e commerciale, in base ad una nuova visione dell’uomo e del mondo, non resta che aspettare che i fati si compiano da sé, a piacimento della rerum natura e, spinta da questa, della non sempre buona e costruttiva hominum natura.


2 Commenti

  1. Gentilissima Redazione,

    colgo l’occasione per ringraziare per lo spazio gentilmente dato al mio commento di Ladetto e chiederei, quanto alla precedentemente edizione dello stesso, se fosse possibile la sostituzione del testo riveduto e corretto con quello sottostante, riveduto e corretto da alcune sviste. Purtroppo la mia distrazione è inguaribile ……

    Colgo l’occasione per precisare che il termine “anarco-capitalismo” non risponde ad una nomenclatura di mia invenzione, ma è un termine ben consolidato accademicamente da parecchi decenni (la dottrina è ben delineata su Wikipedia anche nelle sue somiglianze da un lato e differenze dall’altracon l’anarchismo di sinistra ) con cui viene definita la dottrina che è alla base della politica statunitense di globalizzazione, anch’essa “di lungo periodo” e nascente dalle radici stesse antibritanniche dei coloni “boghesi” che si sono ribellati alla madrepatria poi sfociate, ai nostri tempi, nel ultraliberismo, sostanzialmente antipolitico (per via del suo antisovranismo), della scuola di Chicago. La parola a mio avviso è stata bandita dall’uso corrente (l’ultima volta che l’ho letta è stato nell’anno 2000 sulla pagina economica del Corriere della Sera) a mio avviso proprio per evitare il confronto di idee. Sarebbe quindi una forma molto astuta di “censura democratica”.

    ECCO IL TESTO DI CUI, POTENDO (VI RINGRAZIO COMUNQUE PER L’ATTENZIONE), CHIEDEREI LA PUBBLICAZIONE IN VECE DI QUELLO INTEGRALE A SUO TEMPO PUBBLICATO:
    Accorinti Domenico
    13 Maggio 2019 a 18:47
    Sì, riteniamo che quanto dice Ladetto nell’articolo “Il miraggio di uno stato europeo” dia la giusta impostazione al problema europeo. In effetti oggi solo grandi stati di dimensione continentale possono competere strategicamente. Non solo, ma non si può neppure sottovalutare anche il fatto che una eccessiva frantumazione politica dell’ecumene, oggi ridotta a dimensioni virtuali che così piccole non sono mai state grazie ai mezzi di trasporto e di telecomunicazione, potrebbe mettere seriamente a rischio gli equilibri mondiali.
    In questo quadro il mondo occidentale appare in declino e, in particolare, l’Europa appare la grande malata in primis per il rapporto squilibrato tra dimensione politica e dimensione economico-produttiva e in secundis, come ci ricorda Ladetto, per l’evanescenza dei suoi confini geografici, culturali e politici che paralizzano ogni tentativo di individuare uno stato federale europeo, specialmente dopo lo scioglimento del Patto di Varsavia che ci costringeva a pensare l’Europa al massimo in termini di possibilità espansive all’interno del gruppo di paesi appartenenti al sistema socio-politico liberaldemocratico.
    Ladetto ha ben colto il fatto che con il crollo del Blocco Sovietico sulla scena politica mondiale ha avuto fine anche l’ideologismo (atteggiamento filosofico politico-escatologico, sostanzialmente, sotto vari aspetti, una sorta di inversione dell’escatologia cristiana laicizzata, che vede il progresso verso un mondo (ovviamente immanente), sempre migliore grazie all’affermarsi di dottrine universalistiche, vere e proprie religioni politiche, quali l’illuminismo massonico ed il comunismo marxista, che in sostanza fanno dell’uomo il salvatore di se stesso attraverso l’uso della ragione scientifica) in quanto, a giudizio (magari anche solo implicito e ricavabile della prassi politica) della cultura statunitense, a cui ormai da oltre settant’anni fa capo anche la caudataria cultura europea, sarebbe avvenuta quella svolta (la globalizzazione dei mercati) che sostanzialmente sostituisce al primato della politica sull’economia (“economia politica” era la definizione corrente della scienza economica applicata) il primato (potremmo dire la sovranità) del potere economico su quello politico con la conseguenza che l’attività politica, che ovviamente non è possibile abolire nella sua essenza ma che semplicemente passa sotto la direzione dei centri economici-finanziari internazionali, così ancillata è tutta rivolta unicamente a favorire gli interessi mondiali, ritenuti salvifici per l’umanità, dei centri di potere che dirigono l’economia mondiale. In questo modo trova tacitamente applicazione il concetto che la produzione non è per l’uomo ma l’uomo è per la produzione (e conseguente consumo spinto).
    Questo è naturalmente il quadro dottrinale applicato (rectius: predicato come dottrina ortodossa per raggiungere la conquista del benessere per l’umanità intera e quindi lodato come benefico per la lotta che conduce contro la presunta negatività del potere politico) dagli stati eredi delle liberal-democrazie occidentali. Riteniamo che oggi si possa parlare solo più di “stati eredi delle liberal-democrazie”, in barba ad ogni formale ordine costituzionale, dal momento che, come ben osserva Ladetto, la gestione della cosa pubblica, per essere tale, dovrebbe implicitamente presupporre la propria sovranità, interna ed esterna. Ma tale concetto è oggi demonizzato, e quindi limitato (un po’ come succedeva nell’Impero sovietico per i Paesi del Patto di Varsavia) se opera non in linea con le direttive e gli interessi dei soggetti del globalismo economico, salvo poi riscontrare che, a contrario, questi stessi soggetti apolitici operano, di fatto in modo politico, per punire chi si oppone alla politica imperiale degli USA, ritenuti in occidente lo stato Protettore delle dottrine anarco-capitalistiche e, ma in questo caso illusoriamente, del conseguente ordine mondiale da queste predicato).
    E’ inevitabile che un simile quadro schematico, tutto basato su menzogne non si sa quanto raccontate in buona fede a se stessi da coloro che lo impongono come una sorta di fede religiosa immanentistica e quanto in mala fede agli altri che lo devono subire, vi sia una confusione mentale che però non riesce a nascondere bene l’incongruenza del sistema che diventa però sempre più evidente man mano che si sposta l’attenzione sul marcato sovranismo con cui operano per la salvaguardia dei loro interessi, sia politici che economici, i grandi imperi continentali non di tradizione occidentale (in particolare la Cina e la Russia), vedicaso ipocritamente imitati dal nuovo presidente statunitense (“America first!”) le cui posizioni, a ben vedere, sono un’implicita confessione del fallimento delle stesse dottrine anarco-capitalistiche dal punto di vista degli interessi dell’occidente, a cominciare dagli stessi Stati Uniti che sembrano risoluti a scaricare sull’Europa il (prevedibile) fallimento della globalizzazione dal punto di vista dei paesi di antica industrializzazione.
    Ladetto tutto ciò l’ha descritto egregiamente. Gli USA dicono di giocare ai liberi mercati ma in realtà mirano ad estendere un’egemonia politica globale mediante imposizioni di natura economica che correggano gli svantaggi che stanno subendo per le loro scelte anarco-capitalistiche. La stampa specializzata in geostrategia chiaramente fa capire che il timore degli Stati Uniti è che l’Europa, di cui l’U.E. è vista oltreatlantico come uno strumento per imporre con un unico comando al Vecchio Continente la propria volontà (pare che l’identificazione tra l’U.E., dove si trovano associati anche dei paesi neutrali, e la NATO come strumenti di azione politico-militare sia stata sancita da dei recenti accordi) senza comunque rinunciare al classico gioco del divide et impera, non avendo più interesse al protettorato statunitense possa progettare di fare polo continentale a sé, rischiando di diventare anche più pericolosa come concorrente commerciale. A questo punto è chiaro come una UE “ircocervo anarcocapitalistico” (ne parlammo in miei precedenti commenti) rappresenti la miglior garanzia per la politica statunitense per trasformarla in una nuova America Latina, in una vera e propria estensione dell’area di applicazione della Dottrina Monroe.
    Purtroppo temo che i fatti diano ragione a Ladetto anche circa le difficoltà storiche che complicano il processo di unificazione europea. Il lungo periodo della storia europea successivo alla morte di Carlo Magno, che, come lo stesso Ladetto ha recentemente ricordato, conta nella geopolitica ben più della stesso interesse economico asetticamente inteso, ha impresso nell’inconscio culturale europeo una cesura che rende arduo nei popoli europei il radicarsi di un interesse politico alla costruzione di “una casa comune europea”.
    In altre più semplici e dirette parole quella base spirituale, quell’animus collettivo su cui si basa (è regola socio-politica ineludibile) il senso di appartenenza ad un’unica civitas o, per dirla più modernamente, il senso di appartenenza ad un’unica nazione (che non sempre, come accade nel caso specialissimo e forse irrepetibile della Svizzera, è identificato nell’unicità della lingua ufficiale, anche se questo resta uno degli aspetti più spinosi di qualsiasi “questione nazionale” in quanto la pluralità di lingue comporta pur sempre un consenso generale sulla gerarchicità di fatto che tra le diverse lingue ufficiali si viene a costituire), può capitare che, come è accaduto nel mondo antico per l’ellenicità e, nel rinascimento, per l’italianità, non coincidano con una più vasta unità culturale di fondo.
    Quando, dopo le invasioni barbariche, fu ricostituito l’Impero d’Occidente nella forma del S.R.I. (nè va sottovalutato che esso era in contrapposizione dell’Impero Romano d’Oriente comprendente anche la metà orientale dell’Europa) esso fu un indubbio successo di unità culturale e religiosa che, se non altro, ridusse alla summa divisio dualistica latino-germanica da un lato e greco-slava dall’altro il precedente disordine europeo.
    Va però rilevato che apparve precocemente, sin dalla morte di Calo Magno, una contrapposizione politica tra lo scissionista regno di Francia, poi passato alla dinastia Capetingia, di origine gallo-romana, e il “S.R.I. della Nazione Germanica” della dinastia sassone degli Ottoni e successori, che non solo impedì una sua estensione unitaria all’intera Europa non greco-bizantina, ma creò una frattura, mai più sanata, dello stesso nucleo carolingio originario sino alla seconda guerra mondiale, che col tempo si sarebbe allargata sempre più provocando, nell’età postmedievale, il consolidarsi delle monarchie nazionali (affermatesi in base al principio sovranistico del Rex est imperator in territoriis suis) e, dopo la Rivoluzione Francese, la definitiva affermazione generalizzata del principio di nazionalità, basato sull’identità linguistica “volgare”, poi trasformatosi, verso la fine del XIX secolo, in nazionalismo che, tra il 1914 ed il 1945 ha raggiunto le vette del fanatismo, e non solo da parte dei paesi totalitari.
    In casi come questi ci troviamo di fronte a dei fenomeni, di natura prettamente soggettiva, psicologica che la cultura contemporanea, avendo basi profonde nella visione oggettivistica propria del materialismo positivistico, tende a trascurare, ma che, se ci accostiamo al modo antico, umanistico, di pensare, ci possiamo rendere conto che, come dice Brodel, stanno alla base di “tendenze di lungo periodo” scardinabili solo da eventi profondamente traumatici che spingono individui e popoli ad accettare di mutare la propria precedente visione del mondo, e che queste, piaccia o non piaccia, reggono prerazionalmente il comportamento, sia interpersonale sia di rapporto con l’autorità pubblica, di ogni popolazione contribuendo a formare l’ossatura inconscia profonda delle identità collettive, cardine dell’unità e stabilità di qualsiasi civitas. E’ per questo che l’assenza di un saldo (e, va da sé, escludente il non “integrato”) senso di identità spesso diventa un fatto problematico per la funzionalità e l’unità stessa dell’istituzione statale.
    Facciamo riferimento, come schema di pensiero, alle elaborazioni del diritto romano, che come ebbe a dire G.B. Vico “era la filosofia dei Romani”, che approfondisce lo studio dell’animus nei comportamenti sociali pubblici e privati e ne trae le conseguenze giuridiche. Ma penso anche all’intelligenza anticonformista dell’ingegnere positivista, economista matematico e sociologo Vilfredo Pareto che, evocando la propria cultura umanistica, evidentemente assimilata in modo profondo, capì che, se voleva scrivere un “Trattato di sociologia generale”, e quindi entrare nella sostanza delle cose sociali e politiche, doveva uscire dagli schemi meramente oggettivistico-matematici del positivismo e, rivolgendosi ad una impostazione prettamente umanistica, scavare nel comportamento umano mediante, come Pareto stesso ebbe a dire, una sorta di studio comparato delle vicende storiche.
    Appartenere alla stessa civitas-nazione, all’interno della quale si devono istituire delle scale di valori in cui la collettività si riconosce e su cui si regge (e un conseguente corpus legislativo che le tuteli), lo ribadiamo, è quindi cosa ben diversa dall’identificazione di una collettività nazionale in un panorama culturale più generale (ad es. la civiltà europea), a cui la singola civitas-nazione (ad es. la Repubblica Italiana) può occasionalmente appartenere. Appartenenza che può dar luogo a scambi di collaborazione anche molto stretti con le altre civitates aventi base culturale comune ma che può non risultare sufficiente per costituire un’entità sovrana unitaria.
    Questo, lo ribadiamo, perché ogni civitas si basa su di una visione del mondo, una Weltanschauung direbbero i tedeschi che molto sono attratti da questo aspetto della realtà sociale, avvertita come l’ossatura di qualsiasi collettività nazionale, e perciò vista come identitaria, che da un lato ne legittima le scelte politiche e culturali e dall’altro garantisce la simpateticità di fondo con quanto legittimamente deciso dai governanti.
    Sono questi gli elementi fondamentali che garantiscono il consenso della collettività ai governanti (la “formula politica” di cui parla Gaetano Mosca), che a sua volta altro non è che l’espressione dei mores del popolo che costituisce la civitas, e che garantiscono, perché simpatetici all’animus dei cittadini e quindi spontaneamente rispettati, l’efficienza stessa dell’agire statale.
    Per rendere concreto con un esempio quanto detto pensiamo quanto sarebbe complesso trovare un equilibrio nell’agire di un ipotetico Stato Federale Europeo se solo si pensasse, senza reagire come facciamo al solito noi italiani rifiutando di riconoscere come simili espressioni non sono semplici “pregiudizi” ma che suonano condanna di visioni del mondo incompatibili con l’animus francese, a quando i nostri “cugini” dicono che “l’Italia è il ventre molle dell’Europa” o che “gli italiani sono tanti begli alberi che però non fanno un bosco”.
    In conclusione i fenomeni sopra descritti vanno presi seriamente in considerazione quando si pensa di costruire una civitas, ancorché federale, dato che, se è pur vero che queste contribuscono a forgiare le varie culture umane, è necessario che essi predispongano ab initio gli individui coinvolti nella costruzione della nuova realtà, in quanto nella costruzione della psiche della massa dei cittadini, un po’ come succede nella psiche individuale, non tutto è mosso da fatti razionalizzati dallo stato di coscienza, ma spesso operano delle sensazioni inconsce che possono turbare non poco il nostro stesso senso di sicurezza e di certezza identitaria. Anche qui ci sembra di poter dire che il “conosci te stesso”, sia uti singulus sia uti civis, è un fatto fondamentale.
    Tornando a discutere in modo specifico e conclusivo del problema europeo temiamo che ormai l’effetto sedativo del fanatismo nazionalistico del periodo 1914 – 1945 sia stato ormai superato dalla fine dell’abbondanza delle economie europee che per circa 30 anni successivi al 1945 aveva alimentato un senso di solidarietà che andava al di là dei singoli interessi nazionali, anche in funzione del pericolo comunista, dando un certo senso di unitarietà da un lato tra le nazioni europee liberal-democratiche e dall’altra di queste con la dominante potenza statunitense, che però non può essere confuso con un’unità statale federale, anche se certi strumenti giuridico-istituzionali potrebberlo farlo credere. La UE infatti è basata su un’alleanza internazionale di natura tecnocratica (anche se talvolta emergono velleitariamente prese di posizione di natura più politica e culturale che economica) che sono basate sul peso contrattuale politico ed economico di ogni singolo stato e non sul senso di giustizia e di solidarietà che sta a fondamento di un qualsiasi stato sovrano, unitario o federale che sia, pena la sua inefficienza e instabilità.
    Voler ridurre, come si sta facendo al presente, il “sovranismo” ad una scelta perversa di qualcuno quando esso è la conseguenza inevitabile di scelte (sostanzialmente sovrane) errate dell’UE, peraltro di matrice culturale statunitense, tese a trasformare la precedente contesa ideologica con i grandi imperi euroasiatici di Russia e Cina in contesa basata sull’aggressività economica (erroneamente ritenuta, oltre che sicuramente vincente per l’occidente, benefica e portatrice di pace e di benessere al mondo intero, dimenticando che al contrario anch’essa lascia sul terreno morti e feriti sotto forma di gravi rotture di equilibri sociali) è, lo ribadiamo, un errore che sta costando caro soprattutto proprio all’Europa. Anche perché i problemi oggettivi di limitazione delle risorse, lato sensu ecologici, che il mondo intero sta provando ad affrontare (basta pensare anche solo alla bomba demografica) sono resi difficilmente risolvibili anche per la “militarizzazione” della contesa economica globale per la “conquista dei mercati” che con “le magnifiche sorti e progressive” evocanti il “paradiso in terra” non ha proprio nulla a che spartire.
    Non è qui certo la sede per esaminare come dal 1945 in poi l’Europa sia fuori gioco, vuoi politicamente, ma quel che è peggio, anche culturalmente, visto che il processo di modernizzazione dell’Europa postbellica è stato in toto un processo di americanizzazione intellettuale (sottomissione volontaria alla Weltanschauung su cui si fonda la “formula politica” che regge la nazione americana e la sua collocazione geopolitica nell’ecumene) dell’Europa stessa che ha ucciso ogni possibilità di uscire da quegli schemi anarco-capitalistici che hanno creduto di poter delegare scelte politiche, che sono sempre scelte sovrane perché riguardano l’unitarietà, in nome della giustizia, dell’ordine sociale, ad entità del potere finanziario internazionale, visto come il sacerdote di una religione di redenzione dell’intero ecumene attraverso scelte tecnocratiche trasformate in scelte necessitate per riorganizzare i popoli per il raggiungimento di determinati fini ritenuti secolarmente salvifici, anziché per quello che sono: scelte di vantaggio particolare per gruppi che, istituzionalmente, mirano al vantaggio proprio in nome di un (sempre meno) apparente benessere collettivo.
    Purtroppo l’antropologia e la storia ci insegnano che la realtà umana può essere governata solo dalla (retta) politica, il cui compito è proprio quello di “dare giustizia” mediante l’esercizio della sovranità sull’intera collettività, e non di dare acriticamente patenti di salvatori del mondo a tutti coloro che raggiungono grandi successi imprenditoriali, e che questa è scienza umanistica che va ben oltre il solo fatto economico (indubbiamente fondamentale per le società umane, ma in termini strumentali, non finali) per cui non si può prescindere, come ci dice Brodel, dal lungo periodo che, inconsciamente, deposita nelle scelte degli appartenenti alle diverse civitates sovrane determinante valutazioni di ciò che è (rectius: dovrebbe essere) bene e di ciò che è (rectius: dovrebbe essere valutato come) male per la comunità politica di appartenenza e, conseguentemente, anche dove finisce il concittadino, cioè colui che è legato allo stesso criterio di giudizio sociale, e dove inizia lo straniero, cioè colui che è considerato estraneo alla civitas in quanto agisce secondo un diverso criterio di giudizio sociale.
    Questi schemi permangono sinché non accadono fatti esterni traumatici, o spinte intrellettuali che comportano un forte scossone alla coscienza morale della collettività interessata, di natura politica e/o morale tale da riuscire a spezzare i legami, in modo più o meno totale o più o meno parziale, con la cultura del passato ed a cambiare le stesse scale di valori alle quali i popoli in futuro faranno riferimento nel loro comportamento sociale. O tutte e due le cose insieme.
    Come esemplificazione storica potremmo ricordare come il nostro Risorgimento non avrebbe mai potuto aver luogo senza il verificarsi di quelle grandi turbolenze storiche e culturali che furono la Rivoluzione francese, la Restaurazione e il Romanticismo valorizzante, in un’ottica nuova, la peculiari tradizioni nazionali, specialmente quelle, come l’italiana, la polacca, la tedesca e l’ungherese alle quali ad una peculiarità etnica non corrispondeva l’esistenza di uno stato indipendente.
    E’ quindi chiaro che l’Europa potrà avere un futuro di non declino unicamente se nascerà una cultura nuova creante una nuova Weltanschauung, cosa difficilissima nell’occidente contemporaneo (che dovrebbe coincidere con lo scenario Europeo del XIX Secolo in cui si muovevano le singole nazioni), che identificasse l’Europa come la patria della cultura umanistica da contrapporre al declinante positivismo tecnocratico statunitense.
    Si tratterebbe (e qui l’Italia, una sorte di Toscana dell’Europa, avrebbe molto da dire) di ripensare un nuovo Rinascimento che rimettesse al centro del mondo l’uomo con modalità per certi aspetti opposti a quelli del Rinascimento postmedievale. Una centralità basata sul riconoscimento della necessità di una armoniosa simpaticità con natura che, pur non disdegnando i benefici dell’industria, ne denunci gli eccessi che l’ecologia ha già denunciato da tempo.
    Il Rinascimento postmedievale ha avuto il suo fulcro nella riscoperta dello studio iuxtra propria principia della rerum natura, quello postindustriale dovrebbe avere il suo fulcro nella riscoperta dello studio iuxta propria principia della hominum natura, cioè nella elaborazione di una nuova antropologia, mettendo fine alla ubriacatura che negli ultimi duecento anni di prometeismo moderno ha portato, al contrario del prometeismo tragico antico, ad attribuire all’uomo poteri salvifici al di là di ogni senso della misura.
    Ma, per raggiungere un risultato siffatto, che porterebbe non solo vantaggi politici all’Europa, occorrerebbe propugnare una sorta di moratoria economica mondiale che togliesse all’attività economica quella caratteristica che oggi essa ha: quella di una forma mascherata di guerra di conquista, effettuata sui mercati e nelle borse anziché sui campi di battaglia (si fa per dire, viste le caratteristiche della guerra moderna, più guerra civile che guerra con lo straniero) fatta in sostituzione (sinché la pace sarà in grado di tenere) della ormai eccessivamente distruttiva, rispetto al passato, guerra militare guerreggiata.
    Il presupposto di ciò potrebbe essere solo il ritorno ad una gestione della economia nella forma della “economia politica”, libera ma programmata all’interno di ogni stato sovrano e contrattata tra stati quanto a scambi internazionali.
    Senza questa conversione ad U nella prassi industriale e commerciale in base ad una nuova visione dell’uomo e del mondo non resta che aspettare che i fati si compiano da sé, a piacimento della rerum natura e, spinta da questa, della non sempre buona e costruttiva hominum natura.

  2. Condivido l’analisi di Domenico Accorinti. E’ importante il messaggio che ci trasmette: non restare alla superficie dei fatti, ma risalire ai fattori culturali (l’onda lunga della storia) che li determinano o condizionano. E’ qui che l’Europa deve ritrovare se stessa.

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