
I media ci danno notizia e immagini di uragani, bombe d'acqua, alluvioni, siccità, ritiro sempre più rapido dei ghiacciai alpini, mare artico libero dai ghiacci ed altri fenomeni meteorologici anomali, ma tutto finisce lì: tacciono gli esponenti del mondo economico, e soprattutto tace la politica. I pochi segnali da questi ambienti lasciano perplessi. Ha dato le dimissioni, in polemica per il niente fatto in materia, Nicolas Hulot, ministro dell'ambiente del governo messo in campo da Macron che si era presentato alle elezioni presidenziali come il paladino degli accordi di Parigi. Trump, mentre continua a contestare tali accordi e a fare passi indietro in tema di misure volte a limitare le emissioni di CO2, ha firmato il National Defense Authorization Act, con cui stanzia molti miliardi di dollari, per permettere alle forze armate USA di organizzarsi in un mondo nel quale il cambio del clima metterà a rischio la stabilità di molte regioni e dove i nuovi fenomeni climatici potranno incidere sulla dislocazione delle forze armate americane (ad esempio, un modesto innalzamento degli oceani renderà inutilizzabili numerose basi navali).
Fino a qualche anno fa, erano in molti a negare le modificazioni climatiche di origini antropica fra i politici, gli opinionisti e soprattutto fra quanti avevano a che fare con l'economia. Oggi, di fronte all'evidenza di quanto sta accadendo, costoro minimizzano i fatti (“sono eventi eccezionali”) o ne collocano il previsto incremento in un tempo lontano che, a loro dire, darà modo alla tecnologia di porre riparo agli eventuali guasti. Ma stiamo già oggi vivendo nel cambiamento climatico, le cui ricadute pesantemente negative caratterizzeranno sempre più il mondo in cui si troveranno a vivere i nostri figli e nipoti.
Oggi ben pochi climatologi pensano che sia possibile restare entro l'aumento di 2° della temperatura planetaria anche se si desse piena attuazione agli accordi di Parigi. Inoltre, l'ultimo rapporto dell'IPCC (Panel Intergovernamentale sui Cambiamenti Climatici), uscito in questi giorni, chiede di limitare il traguardo a +1,5° dismettendo il più rapidamente possibile le fonti fossili (l'approvazione del gasdotto trans-adriatico non va certo in tale direzione), sospendendo i tagli delle foreste e procedendo ad aumentare le superfici boschive (mentre da noi continua la cementificazione del territorio). Infatti l'incremento di 2° creerebbe situazioni più difficili di quanto si prevedeva. Si tratta di una media annuale planetaria, ma nei singoli luoghi e nel corso dell'anno, gli incrementi di temperatura potranno essere molto più rilevanti. Attualmente sono ancora incerte le previsioni delle ricadute locali e stagionali dell'aumento termico di 2 gradi, però qualche rappresentazione circola già in ambienti qualificati. Ad esempio, in Italia, durante l'estate, l'aumento di temperatura potrebbe raggiungere i 6-8 gradi per più mesi: avremo estati caratterizzate da forte caldo e siccità interrotta talora da violenti e distruttivi fenomeni temporaleschi. Non è difficile immaginare, non solo il disagio della gente, ma le conseguenze sull'agricoltura, sul turismo e più in generale sull'economia del nostro Paese.
Sarebbe il caso di cominciare a preoccuparsene. Non bastano gli impegni presi in questo o quel vertice internazionale ai quali bisogna poi dar seguito; non basta progettare e attuare interventi “difensivi” per contenere i danni di eventi catastrofici. È l'intera economia che va cambiata valutando le ricadute che ogni scelta di ordine politico ed economico possa avere nei confronti delle modificazioni climatiche. E qui devo ripetere quanto ho già detto più volte. La crescita del PIL invocata da tutte le parti, a destra come a sinistra, che incidenza viene ad avere sul deterioramento ambientale e climatico?
Esaminando i vari Paesi, risulta evidente una rilevante correlazione fra il livello del PIL di ciascuno di essi e la dimensione della sua impronta ecologica (un parametro utilizzato per indicare la quantità di territorio necessaria per soddisfare i consumi umani, rispettando la capacità della Terra di rigenerare le risorse utilizzate, e per assorbire o metabolizzare i rifiuti prodotti): dove il PIL è elevato, lo è anche l'impronta ecologica; dove è basso, varia in tal senso anche l'indicatore ambientale. Altrettanto accade prendendo in esame il PIL e le tonnellate di CO2 (pro capite) emesse annualmente. Certo ci sono differenze fra Paesi più virtuosi e altri più negligenti: ad esempio, un francese produce (soprattutto grazie al nucleare) 4,3 tonnellate di CO2 all'anno, un tedesco 8,9 ed uno statunitense 16,2 (dati 2016).
Riguardo all'impronta ecologica, è vero che quella dei Paesi ricchi, dopo aver raggiunto i valori più alti negli anni Settanta, è poi diminuita significativamente in rapporto a tecnologie più efficienti e a modelli di crescita maggiormente incentrati su un prodotto lordo di origine immateriale che richiede minor spesa energetica di quanto avveniva quando, negli stessi Paesi, a dominare era la manifattura industriale. Ciò vuol dire che forse si può fare qualche cosa per diminuire l'impatto dello sviluppo e provare a crescere cercando di contenere il danno. Tuttavia se guardiamo all'insieme del pianeta, possiamo constatare che, al momento, le correlazioni sopraindicate sussistono ancora in maniera più che significativa. “Diamo tempo al cambiamento”, ci viene detto, ma i mutamenti climatici procedono più velocemente dell'innovazione tecnologica; inoltre, (rispondono i climatologi) di tempo ce n'è poco per porre argine a mutamenti irreversibili.
Padre Fabiano Longoni, in un convegno delle ACLI dello scorso anno, disse che stiamo vivendo un cambiamento di epoca e che non ritornerà il mondo che abbiamo conosciuto prima della crisi. Un'economia fondata sul consumismo, aggiunge, non è più sostenibile; ci troviamo di fronte a scelte drastiche che non ammettono vie di mezzo: tipica è la scelta tra crescita e ambiente. Chi parla di “crescita sostenibile” dice il falso; è solo un modo per continuare su un cammino che produce guasti gravissimi.
Posizione di chiusura radicale. A fronte di essa, dobbiamo cercare di capire che cosa si intenda per “crescita sostenibile” e chiederci se sia possibile uno sviluppo diverso dall’attuale, tutto focalizzato sull’incremento del PIL. Chi pensa di sì deve cercare di definire i contorni di uno sviluppo compatibile con gli equilibri ambientali e non tale da sconvolgere il tessuto sociale.
In uno scritto su “Rinascita popolare” del maggio 2012 (Ma quale crescita?), dichiaravo che sono auspicabili gli investimenti per creare fonti energetiche rinnovabili, per realizzare strutture abitative e apparecchiature domestiche e industriali a basso consumo energetico, per riciclare i materiali di scarto e i rifiuti. E altrettanto auspicabili sono gli interventi di riassetto idrogeologico del territorio per evitare i danni da alluvioni a cui siamo ormai abituati, e quelli volti potenziare il trasporto collettivo su rotaia per ridimensionare quello su gomma. Sono interventi che richiedono energia e materiali oggi, ma ce ne faranno risparmiare grandemente domani. Ci sono, inoltre, i servizi e i settori dei beni immateriali privi di un rilevante impatto negativo sull’ambiente e sulla disponibilità delle risorse materiali ed energetiche: vedi i settori della comunicazione e dell’informazione e soprattutto quello della conoscenza. Notavo tuttavia che non erano di questa natura le misure invocate da quanti auspicavano una celere ripresa della crescita.
Sono passati da allora sei anni, e siamo allo stesso punto: gli interventi proposti o richiesti dal mondo politico ed economico sono mirati soprattutto a una ripresa fondata sulla domanda dei classici beni di consumo: alimentano il consumismo e vanno quindi a produrre nuovi guasti ambientali e climatici. Si dirà che un cambiamento in materia di consumi è in corso, ma, se c'è, è ancora troppo lento.
Vengo ora ad un'altra questione. Il numero 499 (maggio-giugno 2018) di “Italia Nostra” contiene un grido di allarme per la cementificazione del territorio italiano e pone l'urgenza dell'obiettivo “consumo di suolo zero”. Il rapporto ISPRA Consumo di suolo in Italia 2018, recentemente pubblicato, dice che, nell'ultimo anno, il consumo di suolo ha continuato a crescere senza tregua arrivando a sottrarre alla natura 2 metri quadrati al secondo, pari a 15 ettari al giorno, fino a raggiungere i 52 kmq di superficie. Valori che, in termini economici, rappresentano una perdita per il Paese superiore ai 3 miliardi di euro l'anno.
I dati elaborati dall'ISPRA non lasciano spazio a interpretazioni: la debolezza della congiuntura economica non ha interrotto la realizzazione di infrastrutture e cantieri che hanno continuato a invadere aree protette e zone a pericolosità idrogeologica, sconfinando all'interno di aree vincolate per la tutela del paesaggio come coste, fiumi, laghi, vulcani e montagne. Soprattutto lungo la fascia costiera, il cemento ricopre ormai più di 350 mila ettari. Ha dichiarato Stefano Laporta, presidente dell'ente: “In attesa di interventi normativi efficaci, il consumo di suolo non si arresta. In assenza di interventi strutturali e di un quadro di indirizzo omogeneo a livello nazionale, l'iniziativa delle Regioni e delle amministrazioni locali ha arginato solo marginalmente l'aumento delle aree artificiali, rendendo evidente l'inadeguatezza degli strumenti attuali nel governo del consumo di suolo”.
Come agronomo, mi soffermo sulla perdita di terreno agricolo (sovente terreni di pianura di elevata fertilità). È questo un fatto estremamente grave in un Paese che, già oggi, riesce a produrre a mala pena solo la metà del fabbisogno di cereali. Ricordo che i cereali, direttamente o indirettamente (come, ad esempio, quelli ad uso zootecnico) rappresentano la principale fonte alimentare. In un mondo in cui per varie cause (modificazioni climatiche, guerre, crisi economiche, ecc.), potrebbero verificarsi situazioni critiche sul piano alimentare, avere una così bassa capacità di coprire, con le risorse proprie, il fabbisogno di cibo dovrebbe preoccupare ogni classe dirigente competente e responsabile.
Si dibatte su TAV sì, TAV no e su altre infrastrutture; si parla di olimpiadi, eccetera, mentre, per fare cassa e tenere in piedi strutture ed apparati municipali in molti casi sovradimensionati, i comuni aumentano le densità urbane, consentono di costruire nelle aree pubbliche ancora libere e introducono varianti di piano per autorizzare costruzioni in terreni agricoli.
Ora, se ci sono grandi opere che si rivelino vitali per il Paese, si può responsabilmente dare ad esse il via libera, ma bisognerebbe inquadrare gli interventi in un programma che abbracci il complessivo utilizzo del suolo, la sua salvaguardia e il suo eventuale recupero. È invece irresponsabile, a mio parere, sacrificare anche un solo metro quadro di terreno agricolo o forestale per eventi di varia natura (sportivi, espositivi, ecc.) i cui fini sono di immagine e/o per far girare momentaneamente l'economia. Ciò che ne resta sono talora macerie e costosi baracconi di difficile destinazione; nel caso migliore, tali interventi offrono l'occasione per intraprendere opere non sempre di importanza prioritaria e comunque trasmettono un pessimo messaggio. Penso all'Expo Milano 2015 che, avendo come tema “nutrire il pianeta”, ha richiesto la cementificazione degli ultimi terreni agricoli dell'area milanese: una vera assurdità.
Fino a qualche anno fa, erano in molti a negare le modificazioni climatiche di origini antropica fra i politici, gli opinionisti e soprattutto fra quanti avevano a che fare con l'economia. Oggi, di fronte all'evidenza di quanto sta accadendo, costoro minimizzano i fatti (“sono eventi eccezionali”) o ne collocano il previsto incremento in un tempo lontano che, a loro dire, darà modo alla tecnologia di porre riparo agli eventuali guasti. Ma stiamo già oggi vivendo nel cambiamento climatico, le cui ricadute pesantemente negative caratterizzeranno sempre più il mondo in cui si troveranno a vivere i nostri figli e nipoti.
Oggi ben pochi climatologi pensano che sia possibile restare entro l'aumento di 2° della temperatura planetaria anche se si desse piena attuazione agli accordi di Parigi. Inoltre, l'ultimo rapporto dell'IPCC (Panel Intergovernamentale sui Cambiamenti Climatici), uscito in questi giorni, chiede di limitare il traguardo a +1,5° dismettendo il più rapidamente possibile le fonti fossili (l'approvazione del gasdotto trans-adriatico non va certo in tale direzione), sospendendo i tagli delle foreste e procedendo ad aumentare le superfici boschive (mentre da noi continua la cementificazione del territorio). Infatti l'incremento di 2° creerebbe situazioni più difficili di quanto si prevedeva. Si tratta di una media annuale planetaria, ma nei singoli luoghi e nel corso dell'anno, gli incrementi di temperatura potranno essere molto più rilevanti. Attualmente sono ancora incerte le previsioni delle ricadute locali e stagionali dell'aumento termico di 2 gradi, però qualche rappresentazione circola già in ambienti qualificati. Ad esempio, in Italia, durante l'estate, l'aumento di temperatura potrebbe raggiungere i 6-8 gradi per più mesi: avremo estati caratterizzate da forte caldo e siccità interrotta talora da violenti e distruttivi fenomeni temporaleschi. Non è difficile immaginare, non solo il disagio della gente, ma le conseguenze sull'agricoltura, sul turismo e più in generale sull'economia del nostro Paese.
Sarebbe il caso di cominciare a preoccuparsene. Non bastano gli impegni presi in questo o quel vertice internazionale ai quali bisogna poi dar seguito; non basta progettare e attuare interventi “difensivi” per contenere i danni di eventi catastrofici. È l'intera economia che va cambiata valutando le ricadute che ogni scelta di ordine politico ed economico possa avere nei confronti delle modificazioni climatiche. E qui devo ripetere quanto ho già detto più volte. La crescita del PIL invocata da tutte le parti, a destra come a sinistra, che incidenza viene ad avere sul deterioramento ambientale e climatico?
Esaminando i vari Paesi, risulta evidente una rilevante correlazione fra il livello del PIL di ciascuno di essi e la dimensione della sua impronta ecologica (un parametro utilizzato per indicare la quantità di territorio necessaria per soddisfare i consumi umani, rispettando la capacità della Terra di rigenerare le risorse utilizzate, e per assorbire o metabolizzare i rifiuti prodotti): dove il PIL è elevato, lo è anche l'impronta ecologica; dove è basso, varia in tal senso anche l'indicatore ambientale. Altrettanto accade prendendo in esame il PIL e le tonnellate di CO2 (pro capite) emesse annualmente. Certo ci sono differenze fra Paesi più virtuosi e altri più negligenti: ad esempio, un francese produce (soprattutto grazie al nucleare) 4,3 tonnellate di CO2 all'anno, un tedesco 8,9 ed uno statunitense 16,2 (dati 2016).
Riguardo all'impronta ecologica, è vero che quella dei Paesi ricchi, dopo aver raggiunto i valori più alti negli anni Settanta, è poi diminuita significativamente in rapporto a tecnologie più efficienti e a modelli di crescita maggiormente incentrati su un prodotto lordo di origine immateriale che richiede minor spesa energetica di quanto avveniva quando, negli stessi Paesi, a dominare era la manifattura industriale. Ciò vuol dire che forse si può fare qualche cosa per diminuire l'impatto dello sviluppo e provare a crescere cercando di contenere il danno. Tuttavia se guardiamo all'insieme del pianeta, possiamo constatare che, al momento, le correlazioni sopraindicate sussistono ancora in maniera più che significativa. “Diamo tempo al cambiamento”, ci viene detto, ma i mutamenti climatici procedono più velocemente dell'innovazione tecnologica; inoltre, (rispondono i climatologi) di tempo ce n'è poco per porre argine a mutamenti irreversibili.
Padre Fabiano Longoni, in un convegno delle ACLI dello scorso anno, disse che stiamo vivendo un cambiamento di epoca e che non ritornerà il mondo che abbiamo conosciuto prima della crisi. Un'economia fondata sul consumismo, aggiunge, non è più sostenibile; ci troviamo di fronte a scelte drastiche che non ammettono vie di mezzo: tipica è la scelta tra crescita e ambiente. Chi parla di “crescita sostenibile” dice il falso; è solo un modo per continuare su un cammino che produce guasti gravissimi.
Posizione di chiusura radicale. A fronte di essa, dobbiamo cercare di capire che cosa si intenda per “crescita sostenibile” e chiederci se sia possibile uno sviluppo diverso dall’attuale, tutto focalizzato sull’incremento del PIL. Chi pensa di sì deve cercare di definire i contorni di uno sviluppo compatibile con gli equilibri ambientali e non tale da sconvolgere il tessuto sociale.
In uno scritto su “Rinascita popolare” del maggio 2012 (Ma quale crescita?), dichiaravo che sono auspicabili gli investimenti per creare fonti energetiche rinnovabili, per realizzare strutture abitative e apparecchiature domestiche e industriali a basso consumo energetico, per riciclare i materiali di scarto e i rifiuti. E altrettanto auspicabili sono gli interventi di riassetto idrogeologico del territorio per evitare i danni da alluvioni a cui siamo ormai abituati, e quelli volti potenziare il trasporto collettivo su rotaia per ridimensionare quello su gomma. Sono interventi che richiedono energia e materiali oggi, ma ce ne faranno risparmiare grandemente domani. Ci sono, inoltre, i servizi e i settori dei beni immateriali privi di un rilevante impatto negativo sull’ambiente e sulla disponibilità delle risorse materiali ed energetiche: vedi i settori della comunicazione e dell’informazione e soprattutto quello della conoscenza. Notavo tuttavia che non erano di questa natura le misure invocate da quanti auspicavano una celere ripresa della crescita.
Sono passati da allora sei anni, e siamo allo stesso punto: gli interventi proposti o richiesti dal mondo politico ed economico sono mirati soprattutto a una ripresa fondata sulla domanda dei classici beni di consumo: alimentano il consumismo e vanno quindi a produrre nuovi guasti ambientali e climatici. Si dirà che un cambiamento in materia di consumi è in corso, ma, se c'è, è ancora troppo lento.
Vengo ora ad un'altra questione. Il numero 499 (maggio-giugno 2018) di “Italia Nostra” contiene un grido di allarme per la cementificazione del territorio italiano e pone l'urgenza dell'obiettivo “consumo di suolo zero”. Il rapporto ISPRA Consumo di suolo in Italia 2018, recentemente pubblicato, dice che, nell'ultimo anno, il consumo di suolo ha continuato a crescere senza tregua arrivando a sottrarre alla natura 2 metri quadrati al secondo, pari a 15 ettari al giorno, fino a raggiungere i 52 kmq di superficie. Valori che, in termini economici, rappresentano una perdita per il Paese superiore ai 3 miliardi di euro l'anno.
I dati elaborati dall'ISPRA non lasciano spazio a interpretazioni: la debolezza della congiuntura economica non ha interrotto la realizzazione di infrastrutture e cantieri che hanno continuato a invadere aree protette e zone a pericolosità idrogeologica, sconfinando all'interno di aree vincolate per la tutela del paesaggio come coste, fiumi, laghi, vulcani e montagne. Soprattutto lungo la fascia costiera, il cemento ricopre ormai più di 350 mila ettari. Ha dichiarato Stefano Laporta, presidente dell'ente: “In attesa di interventi normativi efficaci, il consumo di suolo non si arresta. In assenza di interventi strutturali e di un quadro di indirizzo omogeneo a livello nazionale, l'iniziativa delle Regioni e delle amministrazioni locali ha arginato solo marginalmente l'aumento delle aree artificiali, rendendo evidente l'inadeguatezza degli strumenti attuali nel governo del consumo di suolo”.
Come agronomo, mi soffermo sulla perdita di terreno agricolo (sovente terreni di pianura di elevata fertilità). È questo un fatto estremamente grave in un Paese che, già oggi, riesce a produrre a mala pena solo la metà del fabbisogno di cereali. Ricordo che i cereali, direttamente o indirettamente (come, ad esempio, quelli ad uso zootecnico) rappresentano la principale fonte alimentare. In un mondo in cui per varie cause (modificazioni climatiche, guerre, crisi economiche, ecc.), potrebbero verificarsi situazioni critiche sul piano alimentare, avere una così bassa capacità di coprire, con le risorse proprie, il fabbisogno di cibo dovrebbe preoccupare ogni classe dirigente competente e responsabile.
Si dibatte su TAV sì, TAV no e su altre infrastrutture; si parla di olimpiadi, eccetera, mentre, per fare cassa e tenere in piedi strutture ed apparati municipali in molti casi sovradimensionati, i comuni aumentano le densità urbane, consentono di costruire nelle aree pubbliche ancora libere e introducono varianti di piano per autorizzare costruzioni in terreni agricoli.
Ora, se ci sono grandi opere che si rivelino vitali per il Paese, si può responsabilmente dare ad esse il via libera, ma bisognerebbe inquadrare gli interventi in un programma che abbracci il complessivo utilizzo del suolo, la sua salvaguardia e il suo eventuale recupero. È invece irresponsabile, a mio parere, sacrificare anche un solo metro quadro di terreno agricolo o forestale per eventi di varia natura (sportivi, espositivi, ecc.) i cui fini sono di immagine e/o per far girare momentaneamente l'economia. Ciò che ne resta sono talora macerie e costosi baracconi di difficile destinazione; nel caso migliore, tali interventi offrono l'occasione per intraprendere opere non sempre di importanza prioritaria e comunque trasmettono un pessimo messaggio. Penso all'Expo Milano 2015 che, avendo come tema “nutrire il pianeta”, ha richiesto la cementificazione degli ultimi terreni agricoli dell'area milanese: una vera assurdità.
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