Amari bilanci per l’area riformatrice



Giuseppe Davicino    14 Novembre 2018       0

Dopo otto mesi dal voto politico e a meno di sette mesi da quello europeo, nel campo riformatore è tempo di fare la tara dei fatti dal castello dei buoni propositi.

Il risultato è impietoso, e se si vuole ripartire, bisogna prenderne atto, senza disfattismo, ma con realismo. Nessuna vera critica sulle ragioni non solo della sconfitta del 4 marzo, ma della progressiva marginalizzazione tendente all’estinzione del centrosinistra che fu, è stata svolta. E di conseguenza, nessun reale cambiamento di linea politica, nessuna svolta capace di risintonizzare quest’area politica con il sentire diffuso del Paese è stata compiuta nei partiti dell’area progressista, tanto meno sono potute nascere nuove formazioni in netta discontinuità con il passato. Perché, come diceva Sturzo, quando le idee mancano, anche i fatti vengono meno.

Tra queste macerie dell’ex centrosinistra, uno che ha contribuito non poco a crearle come Matteo Renzi alla fine però rischia pure di apparire come quello con la visione più lucida e distruttivamente coerente, quando pronostica, e pone come obiettivo dell’opposizione di sinistra, il ritorno di un tecnico (Draghi stavolta?) a Palazzo Chigi per la prossima primavera. Una strategia capace di galvanizzare la base e suscitare speranza fra una classe media ormai allo stremo che non vede l’ora di poter avere davanti altri anni di austerità…

Ma, a suo modo, Renzi ha ragione. Cosa aspettarsi d’altro, da una parte politica che appare incapace di svincolarsi – in contraddizione stridente con la sua storia e le culture politiche che compongono il campo riformatore, tra cui quella cattolico-popolare e democratica – da un progetto che è quello delle élite economico-finanziarie transnazionali e che è stato codificato nei Trattati di Maastricht, fondato sul primato del denaro sulla persona e sulla democrazia, e che ha reso impossibile per legge l’adozione di politiche volte allo sviluppo e alla riduzione delle disuguaglianze?

È pur vero che sia nella nostra area, al centro, come pure in quella di sinistra, non mancano tentativi di ricostruire lo schieramento alternativo alla destra sulle basi di un superamento degli attuali rapporti di forza tra democrazia ed economia, ma al momento si tratta di iniziative al limite del narcisismo identitario e soprattutto scollegate fra loro, incapaci di fare rete e dunque organizzativamente quasi irrilevanti. Fatalmente il treno per le prossime Europee risulta ormai perso.

Che almeno questo lungo periodo nel quale, chi crede nella rinascita delle culture riformatrici sarà costretto a saltare un giro, possa servire a forgiare una strategia e un programma incentrato sul vero problema dell’Italia: la caduta della domanda interna che a causa dell’austerità, stenta a tornare dopo un decennio ai livelli pre-crisi. Mai si era visto tanto ritardo, tanta stagnazione neanche nei periodi successivi alle due guerre mondiali nei quali si tornò assai più rapidamente di oggi ai livelli di crescita precedenti ai conflitti.

Ai Popolari la celebrazione oramai vicina del centenario dell’Appello ai Liberi e Forti sarà di aiuto nel perseguire il suddetto obiettivo, di cui il Paese ha bisogno e che per la classe media è indispensabile, a condizione che decideremo da quale parte stare. È auspicabile non dalla parte del nuovo notabilato liberale del nostro tempo (ci stanno già il PD, LeU, la Bonino). Un notabilato, quello attuale, non più agricolo e paesano come quello che don Sturzo aveva sempre combattuto, ma finanziario e cosmopolita, che vede l’onnipotenza a portata di mano. E dunque, capace di condurre il mondo attuale verso il baratro.


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