Le tesi dell'ambasciatore Sergio Romano, espresse in una recente intervista qui rilanciata, aggiungono altre materie di riflessione per quanti intendono rimettere in gioco il cattolicesimo democratico nel contesto attuale.
Accanto al riconoscimento degli errori commessi, dopo la fine della Democrazia cristiana, in politica economica occorre riconoscere anche quelli compiuti in politica estera. In entrambi gli ambiti vi è stata una subalternità culturale e politica alle élite globaliste, il cui progetto era quello di affermare un modello di governance unipolare dopo la fine dell'URSS, incentrato su un unico grande centro finanziario mondiale a cui nessuna transazione che avviene sulla faccia della terra avrebbe potuto evitare di pagare dazio. Un delirio di potere inquietante, promosso dal “pensiero unico” e dalla dittatura del “politicamente corretto”, dai tratti orwelliani e addirittura esoterici (Ap 13, 16-17). La ineguagliabile potenza di fuoco degli Stati Uniti avrebbe dovuto consentire di superare qualsiasi resistenza alla realizzazione di questo progetto.
Un disegno che però è stato sconfitto in questo secolo non tanto sul piano militare, economico e finanziario ma principalmente al proprio interno, per implosione del sistema che voleva farsi egemone. “L'economia che uccide”, come l'ha definita papa Francesco, ha potuto seminare morte e distruzione in Iraq, Libia, Siria, Yemen, finanziare e organizzare in chiave anti-euroasiatica il terrorismo “islamista”, incurante del fatto di produrre gigantesche ondate di profughi che hanno destabilizzato l'Europa intera, a partire dall'Italia. Ma nulla ha potuto contro la rivolta del metalmeccanico di Detroit, del giovane precario di Manchester, del pensionato di Moncalieri, della casalinga di Salisburgo.
Nel giro di un paio d'anni l'establishment globalista ha inanellato sulle due sponde dell'Atlantico una serie di sconfitte determinate dalla rivolta elettorale della classe media occidentale che ha ri-scoperto di poter essere maggioranza politica oltre che sociale.
Il fatto che siano state premiate dall'elettorato forze populiste, non appare una ragione sufficiente per negare che il modello globalista è insostenibile socialmente, economicamente e alla lunga nocivo allo stesso ordinamento democratico. E neanche per non considerare il fatto che le istanze sociali intercettate dai movimenti populisti costituiscono domande di giustizia sociale e di lavoro, che sono rimaste inascoltate dalle forze riformatrici tradizionali.
Per questa ragione credo che l'ambasciatore Romano quando auspica una Unione europea capace di pensarsi come una “grande Svizzera”, in una posizione di neutralità sullo scacchiere internazionale, indica una prospettiva molto valida ma destinata a rimanere un sogno nel cassetto finché l'UE resta quello che è.
E questo penso sia anche il punto attorno al quale dobbiamo discutere noi Popolari se vogliamo farci interpreti delle ragioni di un nuovo europeismo. Credo che occorra riconoscere una fondamentale discontinuità: nel passaggio dalla Comunità economica europea all'Unione europea il progetto comunitario ha subito una sorta di mutazione genetica, è stato piegato a obiettivi e interessi economici, finanziari, geopolitici che appaiono incompatibili con lo spirito dei suoi padri costituenti.
La ragione principale della crisi profonda in cui versa oggi l'Unione europea è che le sue alte burocrazie e il suo azionista di maggioranza, la Germania ritornata grande, la concepiscono come l'embrione del progetto massonico del governo mondiale, ancorché ridotto ad avamposto della resistenza globalista dopo l'arrivo di Trump alla casa Bianca. Il mix tra questi interessi, della finanza speculativa transnazionale e l'interesse nazionale tedesco, affermato spesso con tracotanza, ha sparso impoverimento, disoccupazione, insicurezza, aumento delle disuguaglianze fra le classi medie di tutta Europa.
Un simile progetto di dittatura delle élite, incarnato alla lettera e acriticamente in Italia dal Partito Democratico, ma che non appartiene né alla storia né ai valori del nostro filone culturale e politico, e che nei suoi tratti decisivi risulta in netto contrasto con la nostra Costituzione, quanto è meritevole del nostro sostegno?
La scadenza delle elezioni europee del prossimo anno può divenire una grande occasione per il cattolicesimo democratico, sociale e politico per elaborare una idea di Europa come Comunità di destino e di solidarietà fra i popoli, culturalmente alternativa sia al populismo sia all'attuale mercantilismo tedesco, al guinzaglio del monetarismo dell'establishment finanziario internazionale. Una Casa comune dove a governare torni ad essere la politica, la democrazia e non più il denaro; i popoli e non le oligarchie.
Se l'Europa sarà capace di un cambiamento così profondo si trasformerà, anche senza volerlo esplicitamente, nella Svizzera del mondo: la NATO rimarrà importante più come archivio storico che per i suoi arsenali; la Russia cesserà di essere indicata come una minaccia, ma apparirà per quello che effettivamente è con Putin, un partner affidabile e responsabile, desideroso di integrarsi con l'Europa con reciproco vantaggio; Israele non vedrà più in Bruxelles un'insidia, e al popolo palestinese sarà riconosciuta la propria patria, con grande beneficio per la stabilizzazione dell'intero Medio Oriente e per il potenziamento delle vie di comunicazione e di commercio euroasiatiche.
Alla fine ciò che è in discussione per i Popolari è se tornare o meno a stare nel popolo e con il popolo, dalla parte giusta della storia. Il processo di disintossicazione dal neoliberismo globalista non sarà né breve né semplice, ma va iniziato se i gruppi dirigenti dei partiti, dei sindacati, dell'associazionismo, intendono recuperare l'arretratezza di visione che li separa dal loro e nostro popolo.
Accanto al riconoscimento degli errori commessi, dopo la fine della Democrazia cristiana, in politica economica occorre riconoscere anche quelli compiuti in politica estera. In entrambi gli ambiti vi è stata una subalternità culturale e politica alle élite globaliste, il cui progetto era quello di affermare un modello di governance unipolare dopo la fine dell'URSS, incentrato su un unico grande centro finanziario mondiale a cui nessuna transazione che avviene sulla faccia della terra avrebbe potuto evitare di pagare dazio. Un delirio di potere inquietante, promosso dal “pensiero unico” e dalla dittatura del “politicamente corretto”, dai tratti orwelliani e addirittura esoterici (Ap 13, 16-17). La ineguagliabile potenza di fuoco degli Stati Uniti avrebbe dovuto consentire di superare qualsiasi resistenza alla realizzazione di questo progetto.
Un disegno che però è stato sconfitto in questo secolo non tanto sul piano militare, economico e finanziario ma principalmente al proprio interno, per implosione del sistema che voleva farsi egemone. “L'economia che uccide”, come l'ha definita papa Francesco, ha potuto seminare morte e distruzione in Iraq, Libia, Siria, Yemen, finanziare e organizzare in chiave anti-euroasiatica il terrorismo “islamista”, incurante del fatto di produrre gigantesche ondate di profughi che hanno destabilizzato l'Europa intera, a partire dall'Italia. Ma nulla ha potuto contro la rivolta del metalmeccanico di Detroit, del giovane precario di Manchester, del pensionato di Moncalieri, della casalinga di Salisburgo.
Nel giro di un paio d'anni l'establishment globalista ha inanellato sulle due sponde dell'Atlantico una serie di sconfitte determinate dalla rivolta elettorale della classe media occidentale che ha ri-scoperto di poter essere maggioranza politica oltre che sociale.
Il fatto che siano state premiate dall'elettorato forze populiste, non appare una ragione sufficiente per negare che il modello globalista è insostenibile socialmente, economicamente e alla lunga nocivo allo stesso ordinamento democratico. E neanche per non considerare il fatto che le istanze sociali intercettate dai movimenti populisti costituiscono domande di giustizia sociale e di lavoro, che sono rimaste inascoltate dalle forze riformatrici tradizionali.
Per questa ragione credo che l'ambasciatore Romano quando auspica una Unione europea capace di pensarsi come una “grande Svizzera”, in una posizione di neutralità sullo scacchiere internazionale, indica una prospettiva molto valida ma destinata a rimanere un sogno nel cassetto finché l'UE resta quello che è.
E questo penso sia anche il punto attorno al quale dobbiamo discutere noi Popolari se vogliamo farci interpreti delle ragioni di un nuovo europeismo. Credo che occorra riconoscere una fondamentale discontinuità: nel passaggio dalla Comunità economica europea all'Unione europea il progetto comunitario ha subito una sorta di mutazione genetica, è stato piegato a obiettivi e interessi economici, finanziari, geopolitici che appaiono incompatibili con lo spirito dei suoi padri costituenti.
La ragione principale della crisi profonda in cui versa oggi l'Unione europea è che le sue alte burocrazie e il suo azionista di maggioranza, la Germania ritornata grande, la concepiscono come l'embrione del progetto massonico del governo mondiale, ancorché ridotto ad avamposto della resistenza globalista dopo l'arrivo di Trump alla casa Bianca. Il mix tra questi interessi, della finanza speculativa transnazionale e l'interesse nazionale tedesco, affermato spesso con tracotanza, ha sparso impoverimento, disoccupazione, insicurezza, aumento delle disuguaglianze fra le classi medie di tutta Europa.
Un simile progetto di dittatura delle élite, incarnato alla lettera e acriticamente in Italia dal Partito Democratico, ma che non appartiene né alla storia né ai valori del nostro filone culturale e politico, e che nei suoi tratti decisivi risulta in netto contrasto con la nostra Costituzione, quanto è meritevole del nostro sostegno?
La scadenza delle elezioni europee del prossimo anno può divenire una grande occasione per il cattolicesimo democratico, sociale e politico per elaborare una idea di Europa come Comunità di destino e di solidarietà fra i popoli, culturalmente alternativa sia al populismo sia all'attuale mercantilismo tedesco, al guinzaglio del monetarismo dell'establishment finanziario internazionale. Una Casa comune dove a governare torni ad essere la politica, la democrazia e non più il denaro; i popoli e non le oligarchie.
Se l'Europa sarà capace di un cambiamento così profondo si trasformerà, anche senza volerlo esplicitamente, nella Svizzera del mondo: la NATO rimarrà importante più come archivio storico che per i suoi arsenali; la Russia cesserà di essere indicata come una minaccia, ma apparirà per quello che effettivamente è con Putin, un partner affidabile e responsabile, desideroso di integrarsi con l'Europa con reciproco vantaggio; Israele non vedrà più in Bruxelles un'insidia, e al popolo palestinese sarà riconosciuta la propria patria, con grande beneficio per la stabilizzazione dell'intero Medio Oriente e per il potenziamento delle vie di comunicazione e di commercio euroasiatiche.
Alla fine ciò che è in discussione per i Popolari è se tornare o meno a stare nel popolo e con il popolo, dalla parte giusta della storia. Il processo di disintossicazione dal neoliberismo globalista non sarà né breve né semplice, ma va iniziato se i gruppi dirigenti dei partiti, dei sindacati, dell'associazionismo, intendono recuperare l'arretratezza di visione che li separa dal loro e nostro popolo.
Concordo con Davicino; evidenziando, però, una perplessità e indicando un punto aggiuntivo. La perplessità è sul Putin: non credo che sia un democratico, come noi popolari lo intendiamo. Così come non penso che Israele, finché i suoi Governanti e la maggioranza del popolo si comportano come la nuova Italia verso gli ultimi e gli sfortunati, possa diventare un riferimento di democrazia. Il punto aggiuntivo: riscoprire le autonomie, le periferie, evitare le centralizzazioni di decisione e dei servizi (sia in Italia che nella nuova Comunità Europea, che a livello regionale). In questi anni i cittadini sono stati penalizzati soprattutto per trasporti, sanità, Tribunali mentre si sarebbe dovuto rafforzare il tutto. Anche qui prevale la finanza, con la scusa dei risparmi e dell’eccellenza (vedi Università). La cittadinanza la si può esercitare anche se si può godere di servizi e dei collegamenti necessari, altrimenti è come in Piemonte dove Torino è servito e conta, mentre si sente sempre più isolato: ricordiamo che nel 2019 ci sono anche le Regionali
Devo correggere la parte finale del commento precedente, dove risulta esservi una mancanza. La frase corretta è: La cittadinanza la si può esercitare solo se si può godere di servizi e dei collegamenti necessari, altrimenti è come in Piemonte dove Torino è servito e conta, mentre “l’Altro Piemonte”, le zone periferiche, si sentono sempre più isolate; ricordiamoci che nel 2019 si vota anche per le Regionali!