Tra Moro e Impastato, 9 maggio ’78



Aldo Novellini    14 Maggio 2018       0

Nella tarda mattinata del 9 maggio 1978, una voce al telefono annunciò che una Renault 4 rossa si trovava in via Caetani, nel centro di Roma, a metà strada tra la sede della DC in Piazza del Gesù e quella del PCI in via delle Botteghe Oscure. Nell’auto, parcheggiata in questo premeditato e simbolico crocevia del compromesso storico, vi era il corpo di Aldo Moro.

Si concludeva così, dopo 55 giorni, il drammatico sequestro del leader democristiano. Quasi due mesi di veri e falsi comunicati, di lettere del prigioniero, di molteplici appelli per la sua liberazione, compreso quello particolarmente accorato di Paolo VI. Da parte dello Stato, nessuna disponibilità ad aprire trattative con le BR per salvare la vita dell’ostaggio e d’altronde era impensabile trattare con chi aveva ucciso, al momento del rapimento dello statista, i cinque uomini della scorta. In ballo non c’era soltanto (si fa per dire) il sequestro di un uomo ma anche, non va dimenticato, l’assassinio di altre cinque persone a sangue freddo. Nessun cedimento, dunque, sarebbe stato ammissibile.

Per contro ci sarebbe voluta una maggior efficacia nelle indagini, mentre sin dall'inizio emersero strani ed inspiegabili depistaggi. Tre anni dopo, nel 1981, si scoprì che parecchi degli uomini che presidiavano la sicurezza dello Stato erano affiliati alla loggia P2, e quindi fu ben chiaro che la fedeltà alle istituzioni repubblicane era stata messa in secondo piano rispetto al giuramento fatto a quell'associazione segreta che voleva instaurare in Italia un regime autoritario. E allora quale migliore occasione per liberarsi di Moro, forse il più implacabile avversario di qualsiasi involuzione reazionaria, se non quella di sfruttare la “provvidenziale” azione delle BR che avevano fatto, per conto loro, il lavoro sporco? Bastava frenare e depistare, gettando un po’ di sabbia negli ingranaggi investigativi, e il gioco era fatto.

Sebbene non possano escludersi infiltrazioni dei servizi segreti o qualcosa di simile nell'operazione condotta dai brigatisti, la tesi tutt'ora più plausibile di quanto accade nel caso Moro, è quella dell’innesto di manovre reazionarie su un piano concepito nell’universo brigatista. Nessuna diretta contaminazione tra i due mondi è stata mai seriamente provata, ma è indubbia una certa convergenza di interessi nell'esito della tragica vicenda.

Aldo Moro era un personaggio scomodo: a tanti, a troppi. Il suo progetto, di coinvolgere il Partito comunista nell’area di governo, allarmava non solo Washington ma anche Mosca. Timorosa, quest’ultima, che l’esempio italiano di un PCI perfettamente integrato nei meccanismi del potere di una nazione occidentale, potesse influenzare analoghe evoluzioni nei Paesi dell’Est, dove la dominazione sovietica si reggeva soltanto sulle baionette e non certo su qualche reale forma di consenso.

Il leader DC andava neutralizzato. E, in effetti, con la sua morte scomparve il più lucido protagonista della politica italiana di quegli anni: l’uomo che, tra i primi, aveva compreso i mali della nostra democrazia, tra spinte reazionarie e conati rivoluzionari. Inserire pienamente il PCI nel sistema politico era, secondo lo statista pugliese, il modo per indirizzare l'Italia verso soluzioni inclusive e riformatrici, allargando le basi delle istituzioni democratiche.

Per questo si parlava di lui, come possibile futuro Presidente della Repubblica, nelle elezioni che dovevano svolgersi nel dicembre del 1978, alla scadenza del settennato di Giovanni Leone. Egli sarebbe stato il garante di quegli equilibri sociali più avanzati che si stavano faticosamente costruendo. Memorabile fu il suo ultimo discorso, il 28 febbraio 1978, quando convinse i gruppi parlamentari della DC, della necessità di aprire questa nuova fase, senza poter esser certi – come onestamente riconobbe – a quale esito avrebbe condotto. “Siamo chiamati a vivere il nostro tempo accettandone le sfide”: questo il messaggio che risuonò in quella lontana primavera di 40 anni fa. Qualcosa che vale, ieri come oggi, nella vita politica e non solo in quella.

 

Quel giorno del maggio ’78 non fu solo la data dell'assassinio di Aldo Moro, ma anche quella dell'uccisione, per mano mafiosa, del giornalista siciliano, Peppino Impastato. Una morte passata in secondo piano perché le prime pagine dei giornali, in quei giorni, erano piene di titoli dedicati alla fine dello statista democristiano. E così quello che accadde al giovane reporter di Cinisi, nei pressi di Palermo, non destò alcuna attenzione.

Eppure la vicenda meritava eccome di venir messa in risalto. La mafia ammazzò Impastato facendo passare l'omicidio per un incidente, provocato dal giovane stesso mentre armeggiava con dell'esplosivo. Volevano farlo passare per un attentatore rimasto vittima del suo stesso gioco e infatti quel giorno il suo corpo senza vita fu ritrovato vicino alla ferrovia, a fianco ad una carica di tritolo.

La realtà è che i boss temevano, e volevano eliminare, questo giovane giornalista ed attivista di sinistra che viveva incurante dei rischi, sfidando la mafia con trasmissioni radiofoniche da una modesta emittente locale, facendosi beffe del suo dominio sul territorio e degli uomini che ne facevano parte o la fiancheggiavano. Il capo locale, Gaetano Badalamenti divenne uno dei suoi bersagli preferiti, ridicolizzato dai microfoni della radio libera con il nomignolo di Tano Seduto, per minarne l'autorità.

Impastato doveva dunque essere punito, anche perché a nulla erano valsi i primi avvertimenti. Non si poteva permettere che la sua voce, libera e gioiosa, continuasse imperterrita a lanciare via etere lazzi e motteggi come se niente fosse. Cominciava a preoccupare questo giovanotto impertinente, figlio di quella stessa loro terra, di cui conosceva a menadito vizi, vezzi e virtù, scavando nelle sue inveterate abitudini, denunciandone i suoi mali più profondi.

Egli non era l'intellettuale o l'estraneo che veniva dal nord assai facile da contrastare perché lontano mille miglia da quella realtà che, in fondo, non conosce. Impastato rischiava invece, e i mafiosi lo capirono bene, di essere profeta in patria, in grado di rappresentare un esempio per molti altri ragazzi come lui, per cambiare la cose, per non piegarsi e rassegnarsi allo strapotere criminale.

E infatti quel giovane, che troppo aveva osato, pagò con la vita. Oggi in Sicilia le cose non sono più quelle di 40 anni fa, quando quasi si negava l'esistenza stessa della criminalità mafiosa e delle sue ramificazioni politico-sociali. Certo, da allora sono stati assassinati uomini come Carlo Alberto Dalla Chiesa, Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, caduti, insieme a molti altri, tra giudici, carabinieri e agenti di scorta, perché si erano opposti a quel tremendo bubbone che ammorba quelle terre.

Peppino Impastato è uno di loro: un giovane giornalista che cercava di raccontare i fatti, di far conoscere la verità, utilizzando quel potente mezzo che è la satira. Strumento tanto temuto dai potenti, o presunti tali, perché li riporta alle loro reali dimensioni, non tanto dissimili da quelle che un grande scrittore come Leonardo Sciascia, ricordava nel famoso libro Il giorno della civetta, quando parlava di “ominicchi” e “quaqquaraqquà”. Impastato, per questo suo coraggio, fu ucciso ma oggi non solo Cinisi, bensì l'Italia intera lo ricorda come uno dei simboli della lotta contro qualsiasi sopraffazione.


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