
Le fabbriche sono, da qualche secolo, luoghi di concentrazione della produzione: ovvero stabilimenti convenientemente attrezzati per una produzione su scala industriale. La produzione avviene in modo ciclicamente programmato, organizzato, coordinato e controllato a seconda delle esigenze di mercato. Ma, sul piano sociale, le fabbriche sono anche luogo di concentrazione di più lavoratori: chiamati a svolgere le mansioni loro assegnate in base alle esigenze produttive. La concentrazione dei lavoratori nello stesso luogo di lavoro porta questi ultimi a confrontarsi, a prendere coscienza della loro condizione di semplici subordinati: ma anche del potere derivante dal “fare numero” e dalla possibilità di avanzare delle rivendicazioni. Nascono così i primi sindacati, già agli albori dell’industrializzazione: in quanto, dalla condizione di subordinati alla convinzione di essere “sfruttati” il passo è breve. E più la produzione aumenta e con essa i profitti degli imprenditori, più le pretese dei lavoratori aumentano: nella consapevolezza che, attraverso lo strumento dello sciopero, l’imprenditore deve “trattare”. La divaricazione tra le esigenze produttive e le richieste dei lavoratori è causa di tensioni e di crisi che spesso diventa irreversibile senza un giusto equilibrio.
Nei Paesi più industrializzati l’utilizzo di sempre nuove tecnologie inserite nei processi produttivi ha ridotto notevolmente nella fabbrica la presenza del lavoratore e il suo potere contrattuale: ma non abbastanza da limitare la ragionevolezza nelle rivendicazioni. Il conflitto è diventato “di classe”, con forti connotazioni politiche. Alcune aziende, per restare competitive sul mercato, hanno cominciato a trasferire parte o tutta la produzione in Paesi sottosviluppati: luoghi dove per i lavoratori le garanzie sono quasi inesistenti. Il terrorismo, per quanto riguarda l’Italia, non ha fatto altro che rendere più rapido questo processo. E uno dei Paesi più promettenti sotto questo profilo è stato la Cina, con il suo forte potenziale di manodopera a basso costo.
Da quello che si sapeva, la Cina era un Paese dove lo sciopero è inesistente e le potenzialità inimmaginabili: un miliardo e quattrocento milioni di abitanti, università che “producono” circa un milione di nuovi ingegneri ogni anno. In Cina ogni coppia può avere al massimo un figlio: i secondi figli, essendo considerati un danno per lo Stato, non hanno diritto all’istruzione e all’età di dieci anni ricevono un tesserino e vanno a lavorare obbligatoriamente e gratuitamente: soltanto dopo 6-8 anni ricevono l’autorizzazione ad iscriversi al collocamento e ad avere un lavoro retribuito. In Cina il costo del lavoro è così incredibilmente basso che, raccontava un imprenditore italiano, nei magazzini di imballaggio il lavoro veniva svolto manualmente “perché una pistola spara chiodi costa molto di più di coloro i quali fanno il lavoro a mano”.
Quando, sul finire degli anni ’80, i nostri imprenditori andavano a cercare fortuna in Cina, venivano accolti con tutti gli onori da una funzionaria: la Signora Wang. Descritta come una bella signora bionda, dai tratti svedesi e molto gentile. Ma anche molto potente: dislocati tutti in un’area di centinaia di ettari, aveva a sua disposizione 125.000 ricercatori e specialisti pronti a fornire ogni tipo di informazione. Gli imprenditori cialtroni venivano individuati e bloccati immediatamente.
Con molta umiltà la Signora Wang ripeteva: “Per voi imprenditori la Cina è come una gallina dalle uova d’oro. Se vi comportate correttamente con noi potrete fare guadagni altissimi e senza sforzo”.
Infatti, in cambio del trasferimento delle produzioni in Cina, nel contratto venivano offerti il 50% degli utili per cinque anni: ai termini dei quali la Cina rilevava l’azienda e produceva per conto proprio. Considerando che il costo del lavoro era infinitamente inferiore a quello dell’Italia, e dell’enorme potenziale produttivo, si trattava di guadagni altissimi che consentivano a chiunque di vivere di rendita e senza problemi per tutto il resto della vita. Solo un “pazzo” avrebbe potuto rifiutare una proposta del genere. Ed è così che moltissimi imprenditori si sono liberati delle loro aziende in Italia e di tutti i problemi ad esse connessi: trasferendo nei paradisi fiscali gli enormi guadagni e mettendosi a fare “finanza”.
Come era facile prevedere, in pochi anni la Cina ha fatto un balzo tecnologico di oltre mezzo secolo. Mantenendo invariate le condizioni di lavoro questo ha reso e continua a rendere impossibile competere sul costo dei suoi prodotti sul mercato internazionale: in quanto anche la qualità oggi è analoga se non superiore.
Tutto questo è avvenuto nel tempo grazie ad un clamoroso errore strategico, commesso non solo dalle industrie italiane: quello di avere considerato la Cina un Paese genericamente sottosviluppato, senza distinzione tra la sua economia e la sua cultura. La Cina non è mai stata un Paese culturalmente sottosviluppato: e lo sta dimostrando, nei fatti, ogni giorno di più.
I dazi imposti da Trump sono frutto di un gesto disperato e inutile. Per risolvere i problemi di squilibrio tra la produzione cinese e quella degli altri Paesi sarebbe necessario sindacalizzare i lavoratori cinesi stimolandoli ad emanciparsi: ma in Cina ci sono ancora milioni di altri lavoratori che premono, sopravvivendo in condizioni disperate nelle campagne, pronti a sostituirli immediatamente. Considerando oltretutto la struttura onnipresente dell’apparato statale cinese nei luoghi di lavoro, non sarà assolutamente facile raggiungere questo obiettivo in tempi brevi. La Cina è, oggi, l’unica e la sola “fabbrica” in grado di produrre per il mondo intero.
Nei Paesi più industrializzati l’utilizzo di sempre nuove tecnologie inserite nei processi produttivi ha ridotto notevolmente nella fabbrica la presenza del lavoratore e il suo potere contrattuale: ma non abbastanza da limitare la ragionevolezza nelle rivendicazioni. Il conflitto è diventato “di classe”, con forti connotazioni politiche. Alcune aziende, per restare competitive sul mercato, hanno cominciato a trasferire parte o tutta la produzione in Paesi sottosviluppati: luoghi dove per i lavoratori le garanzie sono quasi inesistenti. Il terrorismo, per quanto riguarda l’Italia, non ha fatto altro che rendere più rapido questo processo. E uno dei Paesi più promettenti sotto questo profilo è stato la Cina, con il suo forte potenziale di manodopera a basso costo.
Da quello che si sapeva, la Cina era un Paese dove lo sciopero è inesistente e le potenzialità inimmaginabili: un miliardo e quattrocento milioni di abitanti, università che “producono” circa un milione di nuovi ingegneri ogni anno. In Cina ogni coppia può avere al massimo un figlio: i secondi figli, essendo considerati un danno per lo Stato, non hanno diritto all’istruzione e all’età di dieci anni ricevono un tesserino e vanno a lavorare obbligatoriamente e gratuitamente: soltanto dopo 6-8 anni ricevono l’autorizzazione ad iscriversi al collocamento e ad avere un lavoro retribuito. In Cina il costo del lavoro è così incredibilmente basso che, raccontava un imprenditore italiano, nei magazzini di imballaggio il lavoro veniva svolto manualmente “perché una pistola spara chiodi costa molto di più di coloro i quali fanno il lavoro a mano”.
Quando, sul finire degli anni ’80, i nostri imprenditori andavano a cercare fortuna in Cina, venivano accolti con tutti gli onori da una funzionaria: la Signora Wang. Descritta come una bella signora bionda, dai tratti svedesi e molto gentile. Ma anche molto potente: dislocati tutti in un’area di centinaia di ettari, aveva a sua disposizione 125.000 ricercatori e specialisti pronti a fornire ogni tipo di informazione. Gli imprenditori cialtroni venivano individuati e bloccati immediatamente.
Con molta umiltà la Signora Wang ripeteva: “Per voi imprenditori la Cina è come una gallina dalle uova d’oro. Se vi comportate correttamente con noi potrete fare guadagni altissimi e senza sforzo”.
Infatti, in cambio del trasferimento delle produzioni in Cina, nel contratto venivano offerti il 50% degli utili per cinque anni: ai termini dei quali la Cina rilevava l’azienda e produceva per conto proprio. Considerando che il costo del lavoro era infinitamente inferiore a quello dell’Italia, e dell’enorme potenziale produttivo, si trattava di guadagni altissimi che consentivano a chiunque di vivere di rendita e senza problemi per tutto il resto della vita. Solo un “pazzo” avrebbe potuto rifiutare una proposta del genere. Ed è così che moltissimi imprenditori si sono liberati delle loro aziende in Italia e di tutti i problemi ad esse connessi: trasferendo nei paradisi fiscali gli enormi guadagni e mettendosi a fare “finanza”.
Come era facile prevedere, in pochi anni la Cina ha fatto un balzo tecnologico di oltre mezzo secolo. Mantenendo invariate le condizioni di lavoro questo ha reso e continua a rendere impossibile competere sul costo dei suoi prodotti sul mercato internazionale: in quanto anche la qualità oggi è analoga se non superiore.
Tutto questo è avvenuto nel tempo grazie ad un clamoroso errore strategico, commesso non solo dalle industrie italiane: quello di avere considerato la Cina un Paese genericamente sottosviluppato, senza distinzione tra la sua economia e la sua cultura. La Cina non è mai stata un Paese culturalmente sottosviluppato: e lo sta dimostrando, nei fatti, ogni giorno di più.
I dazi imposti da Trump sono frutto di un gesto disperato e inutile. Per risolvere i problemi di squilibrio tra la produzione cinese e quella degli altri Paesi sarebbe necessario sindacalizzare i lavoratori cinesi stimolandoli ad emanciparsi: ma in Cina ci sono ancora milioni di altri lavoratori che premono, sopravvivendo in condizioni disperate nelle campagne, pronti a sostituirli immediatamente. Considerando oltretutto la struttura onnipresente dell’apparato statale cinese nei luoghi di lavoro, non sarà assolutamente facile raggiungere questo obiettivo in tempi brevi. La Cina è, oggi, l’unica e la sola “fabbrica” in grado di produrre per il mondo intero.
L’errore di questa civiltà è di essere sempre più globalizzata!
Gli italiani non si sentono molto legati al tricolore ed allo spirito nazionale, perciò favoriscono a cuor leggero l’accoglienza ad una miriade di etnie, tra queste primeggiano la cinese e l’islamica, ambedue non cristiane e irriconoscenti per il Paese ospitante. La globalizzazione è un tema cruciale una decisione calamitosa da rivedere. Secondo la visione di Giovanni Paolo II, in particolare verso l’immigrazione islamica, l’allora Pontefice tracciò con la lucidità e visione profetica un quadro preciso e per certi aspetti drammatico della situazione del cristianesimo in Europa, soffermandosi sulle varie sfide che la chiesa era chiamata a fronteggiare. Poiché il tema dei migranti non può, per ovvi motivi, essere trattato separatamente da quello più generale del rapporto con l’Islam, vale la pena soffermarsi sui passaggi dell’esortazione dove il santo Papa polacco affronta le questioni: “Si tratta pure di lasciarsi coinvolgere in una migliore conoscenza delle altre religioni, per poter instaurare un fraterno colloquio con le persone che aderiscono ad esse e vivono nell’Europa di oggi. Ma il corretto rapporto con l’islam che è più volte emerso in questi anni nella coscienza dei vescovi europei, “deve essere condotto con prudenza, con chiarezza di idee circa le sue possibilità e i suoi limiti, e con fiducia nel progetto di salvezza di Dio nei confronti di tutti i suoi figli”. E’ necessario, tra l’altro, avere coscienza del notevole divario tra la cultura europea, che ha profonde radici cristiane, e il pensiero musulmano, pertanto personalmente spero che Leone XIV sia dello stesso avviso di san Giovanni Paolo II. A questo riguardo, è necessario preparare adeguatamente i cristiani che vivono quotidianamente a contatto con i musulmani, conoscere in modo obiettivo l’islam e sapersi confrontare con esso; tale preparazione deve riguardare, sia il clero che la politica. Napolitano rivolgendosi al presidente Wolf, così si espresse: «C’è un’immigrazione comoda e ben accolta, quella dei “cervelli”, delle alte qualificazioni, e c’è anche una immigrazione scomoda, quella illegale, riluttante a integrarsi; sarebbe una stupidità dire che in Italia l’immigrazione non crea problemi. Li crea di fronte a una accelerazione degli afflussi. E quella illegale va combattuta con regole severe!!!». Il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, a margine della sua visita a Parigi del 5 luglio 2021, ha commentato: “Alla pandemia abbiamo saputo dare una risposta europea, alla crisi economica altrettanto. Il tema immigrazione oggi interpella i nostri valori e che più di altri mette in gioco la nostra capacità geopolitica e la nostra visione del futuro, non siamo ancora riusciti a dare una risposta adeguata, efficace e comune”. Che un paese abbia una politica migratoria “utilitaria” non è uno scandalo, anzi è la cosa giusta da fare. Porre la questione “sulla qualità degli immigrati” significa affrontare esplicitamente il problema della “selezione”: un principio che molti tendono a respingere, avendo dell’immigrazione una visione di segno umanitario. Sulle politiche “a punti” Alcuni paesi di antica tradizione migratoria (Canada, Australia, Nuova Zelanda) e recentemente, alcuni paesi europei (Gran Bretagna, Danimarca) hanno adottato regole di ammissione “a punti”. Allo stesso tempo è necessaria sia un’approfondita e condivisa attribuzione dei punteggi alle varie caratteristiche: preferiamo i giovani agli adulti, i colti agli incolti, gli specializzati ai generici, le persone sole a quelle con famiglia? E perché? E in che misura? Le risposte a questi quesiti possono darsi sul presunto contributo che il candidato potrebbe dare allo sviluppo della società e dell’economia e alla sua capacità di essere partecipe della società stessa (inclusione, integrazione, interazione.) L’offerta politica all’opinione pubblica deve essere chiara: lo stato ammette, selezionando, chi merita e contribuisce alla crescita della società. Lo stato accoglie, generosamente, chi ha bisogno di aiuto umanitario secondo i principi del diritto internazionale e in accordo con i principi della carta costituzionale. Insomma: vengono ammessi coloro che “sono utili alla società” ma anche i perseguitati, le vittime, le persone la cui vita ed incolumità è in pericolo. Attenzione il quaranta per cento dei carcerati, nelle prigioni italiane, sono extracomunitari, su questa realtà il Governo e i cittadini italiani devono riflettere!
Complimenti per questo articolo molto realistico, la verità è quella, nuda e cruda , non le analisi sui giornali. Bravo Franco Maletti