Dal “politicamente corretto” al “follemente corretto”



Giuseppe Ladetto    28 Aprile 2025       0

Il tema del politicamente corretto è stato più volte oggetto di attenzione su questa nostra rivista. Ne sono stati denunciati i pericoli e le potenziali derive negative.

In origine, il politicamente corretto è stato valutato positivamente da molte parti, o quanto meno assolto dalle accuse. È un progetto, veniva detto, sostenuto da buone intenzioni, volto, attraverso un linguaggio mondato di termini offensivi, a tutelare e includere persone svantaggiate e discriminate per motivazioni varie: l’essere portatrici di difetti fisici, l’umile professione praticata, l’appartenenza a una minoranza etnica o linguistica, l’essere stranieri, l’orientamento sessuale diverso da quello maggioritario. A tale obiettivo, si è accompagnato il rifiuto dell’uso di parole di genere maschile quando riguardano l’altro sesso: ad esempio, sindaco, presidente, ingegnere, se riferiti a donne vengono sostituite da sindaca, presidentessa, ingegnera. Ma oggi, ci sono quanti vogliono cancellare i vocaboli che distinguono i due generi (padre e madre, marito e moglie, signore e signora, e via dicendo), sostituendoli con termini neutri.

Tuttavia il politicamente corretto fin dall’origine portava in seno l’embrione di quanto progressivamente è diventato oggi.

In questi ultimi 15-20 anni, è infatti andato incontro a continue modificazioni diventando il fenomeno attuale, che Luca Ricolfi, in un recentissimo volume, ha definito “follemente corretto”, follemente perché ormai privo di ogni elemento razionale. Si veda il caso della parola “nano”, vietata non solo quando riguarda un essere umano di statura molto piccola, ma messa al bando anche se volta alla denominazione di specie animali o riferita a qualche cosa di inanimato.

Ricolfi paragona il processo di trasformazione dal primo al secondo stadio con quanto avviene in una pandemia virale. Il virus nel diffondersi muta continuamente, differenziandosi al fine di occupare o invadere sempre più spazi da colonizzare. A sostegno di questo paragone, si può osservare il processo di diffusione e differenziazione dei gruppi che rivendicano riconoscimento nell’ambito della sfera sessuale.

In origine, la rivendicazione riguardava gli omosessuali (le lesbiche e i gay) a cui si sono aggiunti i bisessuali e successivamente i transessuali. L’acronimo che contrassegnava questo mondo era LGBT, seguito da + per mostrare una apertura a nuovi soggetti.

Molti (fra cui il sottoscritto) erano rimanti a questo acronimo, ma, ci dice Ricolfi che si è andati molto oltre su questo cammino. Al momento, l’acronimo è diventato LGBTQIA+ (Lesbian, Gay, Bisexual, Trasgender, Queer, Intersexual, Asexual). La lista rimane sempre aperta in attesa che vengano inseriti altri richiedenti riconoscimento.

Comunque tale movimento ideologico coinvolge sempre più persone espandendosi, e ha ormai conquistato il sentire delle classi dominanti, in particolare nei Paesi anglosassoni dove lo si può vedere all’opera e valutarne gli effetti nel contesto sociale, essendosi ormai passati dalle parole ai fatti.

I fautori delle novità linguistiche non si limitano a praticarle, ma intendono imporle agli altri (ai conservatori della lingua fino a ieri praticata da tutti). Gli strumenti impiegati vanno dal biasimo di chi si attarda sul vecchio respingendo la neolingua (un biasimo che, nei social, diventa una sorta di linciaggio verbale), fino al rifiuto di aver rapporti con essi e alla loro esclusione dagli ambienti ove si svolge la vita sociale, compresa quella lavorativa. Ora si giunge alle censure e ai licenziamenti, in particolare in ambito scolastico, con l’accusa di “razzismo” per chi disconosce i diritti e le aspirazioni degli appartenenti a categorie “svantaggiate”.

Ci sono poi le campagne promosse dalle lobby LGBTQIA+ nei confronti delle grandi imprese mediante minacce di boicottaggio (ampiamente sostenute dal mondo dei social) se non si confanno alle loro richieste.

Si parte dalla lingua, ma ci ricorda Ricolfi (rifacendosi a Orwell) che il ruolo della neolingua non è soltanto quello di fornire un mezzo di espressione per la concezione del mondo e per le abitudini mentali dei seguaci della nuova ideologia, ma è soprattutto quello di rendere impossibile ogni altra forma di pensiero, contribuendo alla realizzazione di una società dispotica e totalitaria.

Come già aveva detto Zygmunt Bauman, la logica delle guerre di riconoscimento, condotte da minoranze combattive, spinge a radicalizzare le differenze, e, in mancanza di dialogo, produce crescenti divisioni e contrasti

Assistiamo così al verificarsi di profonde spaccature e contrapposizioni in seno alla società, in primis tra i fautori delle novità e quanti restano ancorati alle concezioni tradizionali o alla realtà naturale; poi fra seguaci del politicamente corretto di vecchia fisionomia e quelli aderenti alla sua nuova versione; infine, in seno a questi ultimi, si innesca la competizione tra categorie per definire quale debba essere considerata più discriminata rispetto alle altre.

A complicare le cose, è infatti intervenuta l’introduzione del concetto di “intersezionalità” (la presenza in una persona di più svantaggi). Da tempo esistono norme che tutelano dalla discriminazione soggetti appartenenti a categorie deboli: donne, neri, transessuali, immigrati, poveri, ecc. ma viene rilevato che queste norme non sono in grado di assicurare adeguata e prioritaria protezione a coloro che si trovano contemporaneamente ad appartenere a più categorie svantaggiate.

Così, in tema di politiche di azione affermativa, si viene a creare tutta serie di combinazioni fra gli “svantaggi” posseduti. La donna va sostenuta in quanto tale, ma una donna nera, o a una donna immigrata e povera, o una donna lesbica, e via dicendo richiede più tutele e considerazione di una donna bianca, e ancor più di una donna bianca, nativa del posto, eterosessuale e benestante. E altrettanto avviene sul versante maschile, ma qui, essendo tutti gli uomini considerati maschilisti, si aggiunge la differente valutazione dei possibili atti violenti da loro commessi nei confronti delle donne. Se a farli è un bianco, specie se autoctono e ricco, la condanna deve essere severissima; se invece si tratta di un uomo di colore, o immigrato e povero nei confronti di una donna bianca, gli si possono concedere molte attenuanti, se non giustificazioni qualora questa fosse pure benestante.

Una crescente e profonda frattura si sta sviluppando in seno alla comunità femminista e a quella lesbica fra chi accetta e chi rifiuta (le femministe gender critical) di considerare vere donne i MtF (maschi che diventano femmine), e ancor più quei maschi che sulla base di una semplice autocertificazione pretendono di essere considerati donne senza essersi sottoposti a trattamenti ormonali e/o chirurgici o aver condotto alcun percorso teso a riconoscere tale condizione. Vengono evidenziate le iniquità che ne sorgono, come accade in ambito sportivo dove è avvantaggiato nelle competizioni chi essendo maschio o avendo una struttura maschile pretende di concorrere nelle categorie femminili. Si risponde alle contestatrici che tale inserimento potrà forse essere iniquo, ma che i diritti dei trans devono prevalere su quelli delle donne perché l’inclusione è più importante dell’equità.

Ma è strano che si parli di inclusione quando invece il risultato di tutto ciò si traduce in sempre nuove esclusioni. Oggi, in certi Paesi (in specie anglofoni), per un maschio bianco, eterosessuale, autoctono e cristiano diventa sempre più difficoltoso trovare un lavoro o, per chi ne dispone, avere un percorso lavorativo che ne riconosca capacità e competenza.

Al di sopra di tutte queste spaccature, viene a porsi quella tra coloro che stanno ai vertici della società, schierati con il nuovo, e le classi popolari ad esso contrarie, e pertanto ritenute rozze, fuori moda, disinformate sulle trasformazioni del gusto e delle tendenze intellettuali, quando non razziste, omofobe e fondamentaliste in tema di religione.

L’adesione alle regole dettate dal follemente corretto sta diventando un mezzo per definire il proprio status. La più parte dei membri delle élite aspira a distinguersi dalle masse adottando modalità varie: gli abiti, gli oggetti di cui si circonda, i luoghi esclusivi e le persone che frequenta, e fra le molte altre cose, c’è il linguaggio (per modo di parlare e vocabolario adottato). La neolingua risponde a questa esigenza insieme alla neocultura di cui è portatrice. La sua piena padronanza (di non facile ottenimento) è diventata in taluni Paesi il criterio di selezione della classe dirigente. Così anche coloro che socialmente si collocano a un livello sottostante rispetto a quest’ultima subito imitano chi sta in alto nella speranza o illusione di salire di qualche gradino. Così il nuovo si diffonde sempre di più.

Per quale motivo i detentori del potere economico, politico e culturale sono schierati con il nuovo?

Nel mondo della comunicazione, è fondamentale coltivare la propria immagine pubblica, presentandosi come paladini delle buone cause, sostenitori di sempre più ampi diritti, mostrandosi ben intenzionati verso quanti sono ritenuti discriminati; e altrettanto raccoglie consenso fare proprie le istanze maturate in una società che cambia. Inoltre, impegnarsi a sostegno dei diritti civili dettati dalle richieste di varie minoranze comporta, per i ceti abbienti, un modesto dispendio di energie e di risorse rispetto all’affrontare le vere condizioni di disagio in cui vive parte rilevante della popolazione. Si aggiunga che in tal modo, dirottando l’attenzione della pubblica opinione verso i sopraddetti diritti, si crea una sorta di cortina fumogena per nascondere la realtà e soprattutto le crescenti disuguaglianze.

Perché, nel panorama politico-partitico, è prevalentemente la sinistra a mostrarsi più disponibile ad accettare la neolingua e la cultura derivata, o, addirittura, se ne fa promotrice assumendole quale abito identificativo, come accade in America da parte del Partito democratico?

Per molti, il nuovo è sempre un connotato della modernità, e fare proprio ciò che è moderno è ritenuto un contrassegno di progressismo. Soprattutto da quando la sinistra, dopo aver messo da parte il socialismo in tutte le sue correnti (marxista, laburista, socialdemocratica), ha totalmente aderito alla visione neoliberale e alle politiche imposte dal capitale finanziario, ha dovuto cercare un terreno su cui distinguersi dai moderati e dai conservatori. E lo ha trovato nella proposta e/o nel sostegno di sempre nuovi diritti, a partire da quelli avanzati dalle varie minoranze sopraindicate fino a confondere con i diritti le semplici aspirazioni o i desideri (come quello di avere figli).

Oggi tuttavia, almeno in alcuni suoi settori, si manifesta crescente perplessità per tale svolta visto che da qualche tempo, nei Paesi occidentali, le elezioni premiano le destre. Le cause di questo fatto sono sicuramente molte, ma certamente conta anche il rigetto di tali novità da parte di vasti ceti popolari non più disposti a farsi marginalizzare.

Resta pertanto la speranza che, a fronte dei gravi problemi e delle minacce che incombono su di noi (a partire dai rischi di una guerra planetaria, dalla crisi climatica, dalle migrazioni incontrollate, ecc.) si ritorni a mettere le cose concrete e serie al centro dell’attenzione.

Tuttavia, non dobbiamo farci illusioni. Internet e la diffusione dei social hanno potentemente favorito la propagazione della neolingua e della connessa ideologia. Queste hanno trasformato situazioni o difficoltà fino a ieri ritenute ordinarie in drammi esistenziali con connesse richieste di risarcimento. I giovani, sempre più fragili, insicuri, incapaci di accettare insuccessi e preda di vittimismo, si dimostrano particolarmente recettivi nei confronti delle denunce e dei messaggi in rete. Ad alimentare tale ideologia e la diffusione della neolingua, ci sono poi soprattutto gli interessi della nuova élite che le utilizza per rafforzare la propria immagine e quindi il proprio potere.

È indispensabile non sottovalutare il pericolo per la democrazia rappresentato dalla deriva totalitaria insita nel follemente corretto.


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