
Solo oggi, dopo la sua esclusione dalla trattativa tra Washington e Mosca per porre fine alla guerra in Ucraina, l’Europa si è accorta di non esistere come soggetto politico. In preda a sgomento, non ha saputo far altro che irresponsabilmente proporre la continuazione della guerra, anche in solitudine, fino alla vittoria di Kiev. A questo risultato porta invocare una pace “giusta”, un proposito che non è in grado di attuare, e che va contro ogni suo interesse, visto che le conseguenze negative della guerra in corso ricadono principalmente su di lei, e che, con una totale rottura con Mosca, diventerebbero ancora più pesanti.
I vertici comunitari e i principali governi europei si oppongono alla trattativa tra Mosca e Washington, adducendo la necessità di rispettare il diritto internazionale che vieta a uno Stato (nel caso la Russia) di violare con le armi la sovranità di un altro Stato (nel caso l’Ucraina), o peggio di impossessarsi di parte del suo territorio.
Tuttavia, i conflitti tra Paesi sono sempre prodotti da cause complesse rispetto alle quali non è possibile separare con un taglio netto il torto dalla ragione. Oggi, da quel che si percepisce, per risolvere il conflitto, sono rimesse in campo le questioni che, già con gli accordi di Minsk e poi con il colloqui di Istanbul, erano state oggetto di discussione, e sulle quali era stato abbozzato un accordo condiviso dalle parti. Però si è voluto, a Londra (con Boris Johnson) e a Washington (con Joe Biden), che l’accordo fallisse per andare a uno scontro con Mosca. E ora, dopo tre anni, con morti e distruzioni, si ritorna da capo.
Quindi non sarà con il ricorso a principi giuridici che si potrà garantire una soddisfacente soluzione, ma solo con la diplomazia e una visione realistica della situazione. E ciò tanto più quando il diritto internazionale viene invocato da chi non ha mancato di violarlo in varie occasioni.
Quante, infatti, sono state le guerre intraprese dagli Stati Uniti, dalla NATO o vari amici con motivazioni non riconosciute valide dalle Nazioni Unite? Molte. Ma, per non allontanarci troppo da casa nostra, ricordiamoci dell’intervento militare della NATO contro la Serbia del 1999 (partecipe l’Italia del governo D’Alema), conclusosi, dopo massicci bombardamenti, con l’invasione del Paese e la sottrazione ad esso del Kosovo, una provincia dotata di autonomia (come una Regione autonoma italiana), seguita dalla cacciata di larga parte della minoranza serba. L’operazione Allied Force è stata un’azione militare contro un Paese sovrano che non aveva attaccato alcun membro della NATO, e priva di ogni avallo dell’ONU, le sole due condizioni che avrebbero potuto consentire un intervento legittimo. Ci troviamo quindi di fronte ad una piena violazione del diritto internazionale.
Oggi, il blocco degli Stati non allineati continua ad acquisire nuovi aderenti perché sono sempre più numerosi i Paesi che non accettano il doppiopesismo con cui l’Occidente, e i vari organismi internazionali da esso plasmati, giudicano gli eventi internazionali.
Ma torniamo all’impotenza della UE, che ci deve interrogare non solo sull’inesistenza di una Europa politica, ma anche in che cosa consista il soggetto Europa di cui continuamente si parla.
Quando ci si interroga sul destino dell’Europa non si allude certo ad un territorio definito dalla sua componente geografica (che va dall’Atlantico agli Urali e al Caucaso), ma ad una realtà molto più complessa.
È infatti il frutto di un lungo secolare percorso che, a partire da quel nucleo carolingio figliato dall’Impero di Carlo Magno, si è andato allargando includendo via via territori e popoli sempre più periferici, ultimo arrivato quel mondo ortodosso (Russia inclusa) che ha ereditato il legame con l’antichità greco-romana e il cristianesimo tramite la tradizione greco-bizantina. In questo lungo percorso, ciascun Paese o popolo ha fornito un suo contributo, sia pure di diversa misura, alla costruzione dell’edificio culturale europeo.
A testimonianza di questa comune appartenenza culturale, Umberto Eco, Aleksandr Solzenicyn e Emmanuel Macron, in differenti momenti e situazioni, hanno fatto una stessa considerazione: “Quando sono in un Paese d’Europa, non avverto di essere europeo, ma quando metto piede in Paesi al di fuori del nostro continente (Stati Uniti inclusi), subito sento di esserlo”.
Ma è stato giustamente detto che questa dimensione spirituale non ha impedito i secolari contrasti e la tante guerre tra i Paesi europei. Infatti negli abitanti di tali Paesi non si è mai sviluppato il sentimento di essere cittadini di un’unica entità politica, di una patria, per la quale si è disposti a fare sacrifici, fino a combattere in vista di un bene e destino comuni. Ma, se avere una cultura condivisa, o diciamo pure una medesima civiltà, non è sufficiente per formare una comunità politica unitaria, non è però possibile costruirla senza possedere questi elementi. Diversamente da quanto pensano l’attuale dirigenza dell’Unione e larga parte dei politici e degli intellettuali di area liberal, per trasformare una società in una patria, non basta certo l’adozione di comuni parametri economici e di regole giuridico-istituzionali, e neppure basta la condivisione dei valori liberaldemocratrici, perché, su questa base, il concetto di Europa si risolve in quello di Occidente.
Oggi, la UE può essere considerata una patria dagli abitanti delle le nazioni che la compongono? Difficile crederlo.
Come si è giunti alla situazione attuale dopo una partenza piena di speranza?
I padri del progetto di una Europa unita (De Gasperi, Schuman e Adenauer) lo hanno fondato sulla riconciliazione tra nazioni che per secoli si erano combattute (in particolare Francia e Germania), avendo esse finalmente riconosciuto di avere molti più elementi comuni che ragioni di contrasto. Il risultato è stata la nascita, con i trattati di Roma (1957), della Comunità Economica Europea costituita dai sei Paesi fondatori, una prima pietra nella costruzione di un soggetto politico europeo.
Ma ben presto sono giunti gli ostacoli posti da parte di quanti avversavano la nascita di un tale soggetto di natura politica. Il Regno Unito, con il sostegno americano, entrò nella CEE (1973) con il principale obiettivo di frenarne l’integrazione politica a cui era ostile, riducendola a un’area di libero scambio. Altre nazioni si sono aggiunte negli anni successivi (dal 1981 al 1995) non senza, talora, indebolire il significato politico della Comunità.
Tuttavia un drastico cambiamento è avvenuto nel 2004 quando, dietro forti pressioni americane, sono entrati a far parte della Comunità quei Paesi dell’Est europeo che il presidente Bush junior aveva definito la “Nuova Europa”, in polemica contrapposizione con la deprecata “Vecchia Europa” che si era dimostrata tiepida nei confronti della guerra irachena del 2003, o peggio (come la Francia di Chirac e la Germania di Schroder) la aveva decisamente avversata.
Tali Paesi dell’Est sono imbevuti di un acceso e rancoroso nazionalismo, desiderosi di rivalse e non senza rinate ambizioni di potenza. Non hanno compreso nulla di quell’esigenza di riconciliazione che i padri fondatori avevano considerata indispensabile per la costruzione europea: con la loro presenza nella UE, il progetto federativo può essere considerato pressoché affossato.
Si attribuisce a Trump la volontà di mandare in frantumi la UE o comunque di penalizzarla, ma il neopresidente si limita a dire ad alta voce, in modo talora provocatorio, ciò che hanno sempre pensato e fatto tutti i suoi predecessori. “Questo matrimonio europeo non s’ha da fare, né domani, né mai” era il titolo di un editoriale di Barbara Spinelli su “La Stampa” di più di venti anni fa. Tutta la classe dirigente nordamericana, politica, militare e del mondo economico, ha sempre, fino ad oggi, osteggiato e contrastato ogni progetto concreto di edificazione di una entità europea autonoma (ancorché non ostile all’America).
Oggi, tuttavia, il mondo sta cambiando, e in qualche misura lo ha compreso lo stesso Trump che ha riconosciuto l’impossibilità per gli USA di continuare a fare il poliziotto del pianeta, compito però essenziale per mantenere in piedi l’unipolarismo. Essendone consapevole e facendo propria la classica logica delle grandi potenze, intende riservare le forze (economiche e militari) della nazione ai suoi interessi più prossimi e vitali, limitando di conseguenza (agenzie securitarie permettendo) il controllo e/o l’influenza statunitense a una meno estesa, se pur rilevante, porzione della Terra.
Infatti, il mondo unipolare, non senza incertezze e sbalzi di percorso, sta giungendo al termine del suo ciclo storico a seguito della fine della globalizzazione (che ha scatenato risentimenti, acuito le diseguaglianze fra Stati e all’interno delle comunità nazionali) e dell’emergere, nelle varie parti del mondo, di nuovi attori politico-economici, identificabili in potenze regionali il cui spazio di influenza si estende, per un raggio più o meno ampio, a paesi linguisticamente e culturalmente prossimi.
È su queste potenze che si andrà costruendo un mondo multipolare. Lo aveva già compreso Henry Kissinger quando nel 2014 scrisse che la storia non sarebbe arrivata alla sua conclusione con l’affermazione planetaria del modello occidentale, e auspicava che le vecchie e nuove potenze comprendessero la necessità di dare vita a un vero ordine mondiale fondato su un insieme di regole condivise e su un equilibrio globale del potere.
Ora, dove si potrà collocare l’Europa in tale nuovo equilibrio di potere? Non basta invocare un posto di rilievo, come fanno oggi coloro che lamentano di essere stati messi da parte dal ventilato accordo tra Mosca e Washington. Bisogna comprendere dove va il mondo perché l’Europa possa prendervi parte da protagonista.
In primo luogo, se vorrà essere un attore di rilievo nel mondo che verrà, rivendicando una piena autonomia nella politica internazionale e in campo militare, dovrà sciogliere un nodo della cui esistenza non ha mai voluto o potuto prendere atto. Occorre infatti chiedersi se una costituenda Europa politica potrà coesistere con la permanenza nell’alleanza atlantica, visti i pluriennali veti americani su tale cammino, e tenuto conto che gli interessi economici, geopolitici e strategici europei sono sempre meno coincidenti con quelli del mondo anglosassone. Londra infatti sceglierà sempre il forte rapporto con Washington rispetto a ogni prospettiva europea.
A chi dirà che, a tenere unite le due sponde dell’Atlantico, c’è la comune appartenenza all’Occidente, è il caso di rispondere che forse è venuto il momento di ridefinire tale concetto come oggi inteso, se non metterlo da parte. È infatti fondato su una concezione gerarchica del mondo, con punte di taglio manicheo, dove gli occidentali si ritengono depositari di valori, di modelli culturali e di istituzioni universali, che hanno il dovere di imporre a quanti sarebbero rimasti indietro nel cammino della storia, o che avrebbero imboccato altre strade, di per sé inevitabilmente pericolose e malvagie. Di qui, sono venute le molte guerre per esportare la liberaldemocrazia, che hanno lasciato dietro di sé macerie, frammentazione di territori, conflitti interni e caos. Aggiungo che, se si continuerà a considerare ogni contrasto tra nazioni come uno scontro tra il bene (l’Occidente) e il male (ogni Paese del resto del pianeta), non avremo mai un mondo pacificato.
Se poi l’Europa, in tema di difesa, saprà o potrà assumere in proprio tale compito, è bene che non agisca nell’ottica della massima “si vis pacem para bellum” perché le armi sono in ogni circostanza l’ultimo mezzo a cui ricorrere, e ciò tanto più quando la UE, già con una spesa militare prossima al 2% del PIL, supera in questo campo la più parte dei suoi potenziali o supposti nemici (vedi La spesa militare dei clientes europei). Una ingiustificata spesa per gli armamenti (portandola oltre il 2% del PIL) sottrarrebbe risorse indispensabili per affrontare i veri problemi del nostro tempo, a partire dal contrasto al riscaldamento climatico, e affosserebbe il sistema di Welfare.
Ma tutto questo sarà inutile se l’Europa non saprà ritrovare la propria identità nelle sue radici storiche e culturali, che avevano condotto i padri fondatori a porre le basi del progetto federativo. L’Europa dei sei, sovente definita carolingia, è oggi forse la sola in cui ancora sopravvivono tracce di una tale identità storico-culturale e una qualche volontà di dare vita ad una vera costruzione federale. Pertanto, ogni possibile serio passo in tale direzione richiede il rafforzamento del predetto nucleo carolingio (comprensivo di più della metà della popolazione della UE), che potrà anche costituirsi come avanguardia in questo percorso, senza farsi frenare da quanti non sono ancora maturi per una Europa cosciente di sé, sovrana ed autonoma.
I vertici comunitari e i principali governi europei si oppongono alla trattativa tra Mosca e Washington, adducendo la necessità di rispettare il diritto internazionale che vieta a uno Stato (nel caso la Russia) di violare con le armi la sovranità di un altro Stato (nel caso l’Ucraina), o peggio di impossessarsi di parte del suo territorio.
Tuttavia, i conflitti tra Paesi sono sempre prodotti da cause complesse rispetto alle quali non è possibile separare con un taglio netto il torto dalla ragione. Oggi, da quel che si percepisce, per risolvere il conflitto, sono rimesse in campo le questioni che, già con gli accordi di Minsk e poi con il colloqui di Istanbul, erano state oggetto di discussione, e sulle quali era stato abbozzato un accordo condiviso dalle parti. Però si è voluto, a Londra (con Boris Johnson) e a Washington (con Joe Biden), che l’accordo fallisse per andare a uno scontro con Mosca. E ora, dopo tre anni, con morti e distruzioni, si ritorna da capo.
Quindi non sarà con il ricorso a principi giuridici che si potrà garantire una soddisfacente soluzione, ma solo con la diplomazia e una visione realistica della situazione. E ciò tanto più quando il diritto internazionale viene invocato da chi non ha mancato di violarlo in varie occasioni.
Quante, infatti, sono state le guerre intraprese dagli Stati Uniti, dalla NATO o vari amici con motivazioni non riconosciute valide dalle Nazioni Unite? Molte. Ma, per non allontanarci troppo da casa nostra, ricordiamoci dell’intervento militare della NATO contro la Serbia del 1999 (partecipe l’Italia del governo D’Alema), conclusosi, dopo massicci bombardamenti, con l’invasione del Paese e la sottrazione ad esso del Kosovo, una provincia dotata di autonomia (come una Regione autonoma italiana), seguita dalla cacciata di larga parte della minoranza serba. L’operazione Allied Force è stata un’azione militare contro un Paese sovrano che non aveva attaccato alcun membro della NATO, e priva di ogni avallo dell’ONU, le sole due condizioni che avrebbero potuto consentire un intervento legittimo. Ci troviamo quindi di fronte ad una piena violazione del diritto internazionale.
Oggi, il blocco degli Stati non allineati continua ad acquisire nuovi aderenti perché sono sempre più numerosi i Paesi che non accettano il doppiopesismo con cui l’Occidente, e i vari organismi internazionali da esso plasmati, giudicano gli eventi internazionali.
Ma torniamo all’impotenza della UE, che ci deve interrogare non solo sull’inesistenza di una Europa politica, ma anche in che cosa consista il soggetto Europa di cui continuamente si parla.
Quando ci si interroga sul destino dell’Europa non si allude certo ad un territorio definito dalla sua componente geografica (che va dall’Atlantico agli Urali e al Caucaso), ma ad una realtà molto più complessa.
È infatti il frutto di un lungo secolare percorso che, a partire da quel nucleo carolingio figliato dall’Impero di Carlo Magno, si è andato allargando includendo via via territori e popoli sempre più periferici, ultimo arrivato quel mondo ortodosso (Russia inclusa) che ha ereditato il legame con l’antichità greco-romana e il cristianesimo tramite la tradizione greco-bizantina. In questo lungo percorso, ciascun Paese o popolo ha fornito un suo contributo, sia pure di diversa misura, alla costruzione dell’edificio culturale europeo.
A testimonianza di questa comune appartenenza culturale, Umberto Eco, Aleksandr Solzenicyn e Emmanuel Macron, in differenti momenti e situazioni, hanno fatto una stessa considerazione: “Quando sono in un Paese d’Europa, non avverto di essere europeo, ma quando metto piede in Paesi al di fuori del nostro continente (Stati Uniti inclusi), subito sento di esserlo”.
Ma è stato giustamente detto che questa dimensione spirituale non ha impedito i secolari contrasti e la tante guerre tra i Paesi europei. Infatti negli abitanti di tali Paesi non si è mai sviluppato il sentimento di essere cittadini di un’unica entità politica, di una patria, per la quale si è disposti a fare sacrifici, fino a combattere in vista di un bene e destino comuni. Ma, se avere una cultura condivisa, o diciamo pure una medesima civiltà, non è sufficiente per formare una comunità politica unitaria, non è però possibile costruirla senza possedere questi elementi. Diversamente da quanto pensano l’attuale dirigenza dell’Unione e larga parte dei politici e degli intellettuali di area liberal, per trasformare una società in una patria, non basta certo l’adozione di comuni parametri economici e di regole giuridico-istituzionali, e neppure basta la condivisione dei valori liberaldemocratrici, perché, su questa base, il concetto di Europa si risolve in quello di Occidente.
Oggi, la UE può essere considerata una patria dagli abitanti delle le nazioni che la compongono? Difficile crederlo.
Come si è giunti alla situazione attuale dopo una partenza piena di speranza?
I padri del progetto di una Europa unita (De Gasperi, Schuman e Adenauer) lo hanno fondato sulla riconciliazione tra nazioni che per secoli si erano combattute (in particolare Francia e Germania), avendo esse finalmente riconosciuto di avere molti più elementi comuni che ragioni di contrasto. Il risultato è stata la nascita, con i trattati di Roma (1957), della Comunità Economica Europea costituita dai sei Paesi fondatori, una prima pietra nella costruzione di un soggetto politico europeo.
Ma ben presto sono giunti gli ostacoli posti da parte di quanti avversavano la nascita di un tale soggetto di natura politica. Il Regno Unito, con il sostegno americano, entrò nella CEE (1973) con il principale obiettivo di frenarne l’integrazione politica a cui era ostile, riducendola a un’area di libero scambio. Altre nazioni si sono aggiunte negli anni successivi (dal 1981 al 1995) non senza, talora, indebolire il significato politico della Comunità.
Tuttavia un drastico cambiamento è avvenuto nel 2004 quando, dietro forti pressioni americane, sono entrati a far parte della Comunità quei Paesi dell’Est europeo che il presidente Bush junior aveva definito la “Nuova Europa”, in polemica contrapposizione con la deprecata “Vecchia Europa” che si era dimostrata tiepida nei confronti della guerra irachena del 2003, o peggio (come la Francia di Chirac e la Germania di Schroder) la aveva decisamente avversata.
Tali Paesi dell’Est sono imbevuti di un acceso e rancoroso nazionalismo, desiderosi di rivalse e non senza rinate ambizioni di potenza. Non hanno compreso nulla di quell’esigenza di riconciliazione che i padri fondatori avevano considerata indispensabile per la costruzione europea: con la loro presenza nella UE, il progetto federativo può essere considerato pressoché affossato.
Si attribuisce a Trump la volontà di mandare in frantumi la UE o comunque di penalizzarla, ma il neopresidente si limita a dire ad alta voce, in modo talora provocatorio, ciò che hanno sempre pensato e fatto tutti i suoi predecessori. “Questo matrimonio europeo non s’ha da fare, né domani, né mai” era il titolo di un editoriale di Barbara Spinelli su “La Stampa” di più di venti anni fa. Tutta la classe dirigente nordamericana, politica, militare e del mondo economico, ha sempre, fino ad oggi, osteggiato e contrastato ogni progetto concreto di edificazione di una entità europea autonoma (ancorché non ostile all’America).
Oggi, tuttavia, il mondo sta cambiando, e in qualche misura lo ha compreso lo stesso Trump che ha riconosciuto l’impossibilità per gli USA di continuare a fare il poliziotto del pianeta, compito però essenziale per mantenere in piedi l’unipolarismo. Essendone consapevole e facendo propria la classica logica delle grandi potenze, intende riservare le forze (economiche e militari) della nazione ai suoi interessi più prossimi e vitali, limitando di conseguenza (agenzie securitarie permettendo) il controllo e/o l’influenza statunitense a una meno estesa, se pur rilevante, porzione della Terra.
Infatti, il mondo unipolare, non senza incertezze e sbalzi di percorso, sta giungendo al termine del suo ciclo storico a seguito della fine della globalizzazione (che ha scatenato risentimenti, acuito le diseguaglianze fra Stati e all’interno delle comunità nazionali) e dell’emergere, nelle varie parti del mondo, di nuovi attori politico-economici, identificabili in potenze regionali il cui spazio di influenza si estende, per un raggio più o meno ampio, a paesi linguisticamente e culturalmente prossimi.
È su queste potenze che si andrà costruendo un mondo multipolare. Lo aveva già compreso Henry Kissinger quando nel 2014 scrisse che la storia non sarebbe arrivata alla sua conclusione con l’affermazione planetaria del modello occidentale, e auspicava che le vecchie e nuove potenze comprendessero la necessità di dare vita a un vero ordine mondiale fondato su un insieme di regole condivise e su un equilibrio globale del potere.
Ora, dove si potrà collocare l’Europa in tale nuovo equilibrio di potere? Non basta invocare un posto di rilievo, come fanno oggi coloro che lamentano di essere stati messi da parte dal ventilato accordo tra Mosca e Washington. Bisogna comprendere dove va il mondo perché l’Europa possa prendervi parte da protagonista.
In primo luogo, se vorrà essere un attore di rilievo nel mondo che verrà, rivendicando una piena autonomia nella politica internazionale e in campo militare, dovrà sciogliere un nodo della cui esistenza non ha mai voluto o potuto prendere atto. Occorre infatti chiedersi se una costituenda Europa politica potrà coesistere con la permanenza nell’alleanza atlantica, visti i pluriennali veti americani su tale cammino, e tenuto conto che gli interessi economici, geopolitici e strategici europei sono sempre meno coincidenti con quelli del mondo anglosassone. Londra infatti sceglierà sempre il forte rapporto con Washington rispetto a ogni prospettiva europea.
A chi dirà che, a tenere unite le due sponde dell’Atlantico, c’è la comune appartenenza all’Occidente, è il caso di rispondere che forse è venuto il momento di ridefinire tale concetto come oggi inteso, se non metterlo da parte. È infatti fondato su una concezione gerarchica del mondo, con punte di taglio manicheo, dove gli occidentali si ritengono depositari di valori, di modelli culturali e di istituzioni universali, che hanno il dovere di imporre a quanti sarebbero rimasti indietro nel cammino della storia, o che avrebbero imboccato altre strade, di per sé inevitabilmente pericolose e malvagie. Di qui, sono venute le molte guerre per esportare la liberaldemocrazia, che hanno lasciato dietro di sé macerie, frammentazione di territori, conflitti interni e caos. Aggiungo che, se si continuerà a considerare ogni contrasto tra nazioni come uno scontro tra il bene (l’Occidente) e il male (ogni Paese del resto del pianeta), non avremo mai un mondo pacificato.
Se poi l’Europa, in tema di difesa, saprà o potrà assumere in proprio tale compito, è bene che non agisca nell’ottica della massima “si vis pacem para bellum” perché le armi sono in ogni circostanza l’ultimo mezzo a cui ricorrere, e ciò tanto più quando la UE, già con una spesa militare prossima al 2% del PIL, supera in questo campo la più parte dei suoi potenziali o supposti nemici (vedi La spesa militare dei clientes europei). Una ingiustificata spesa per gli armamenti (portandola oltre il 2% del PIL) sottrarrebbe risorse indispensabili per affrontare i veri problemi del nostro tempo, a partire dal contrasto al riscaldamento climatico, e affosserebbe il sistema di Welfare.
Ma tutto questo sarà inutile se l’Europa non saprà ritrovare la propria identità nelle sue radici storiche e culturali, che avevano condotto i padri fondatori a porre le basi del progetto federativo. L’Europa dei sei, sovente definita carolingia, è oggi forse la sola in cui ancora sopravvivono tracce di una tale identità storico-culturale e una qualche volontà di dare vita ad una vera costruzione federale. Pertanto, ogni possibile serio passo in tale direzione richiede il rafforzamento del predetto nucleo carolingio (comprensivo di più della metà della popolazione della UE), che potrà anche costituirsi come avanguardia in questo percorso, senza farsi frenare da quanti non sono ancora maturi per una Europa cosciente di sé, sovrana ed autonoma.
Certamente in Europa vi sono tanti che, come l’ amico Ladetto, sono “profeti”,e insieme costituiscono una minoranza illuminata. Per dirla con Machiavelli essi sono però profeti disarmati. Come “armarli” non di armi, ma di efficacia comunicativa?
Commento amaro, lo so, ma come esprimersi diversamente dopo decenni di delusioni da questa Europa vera prima nemica di se stessa?
Come sempre Ladetto ha lucidamente espresso i termini del problema dell’unità europea ed espresso i termini (contraddittori) della civiltà occidentale moderna.
Temo però che a tali lucide domande non si possa dare risposte attuabili per i limiti inrinseci del pensiero occidentale così sublime quando esprime valori astratti (che impongono all’azione dei limiti di alta moralità) ma spesso così ipocrita (necessariamente per poter raggiunere vette di dominio, istinto profondamente radicato nella natura umana) coi risultati concreti spesso di predicare bene e razzolare male, come ben descritto da Ladetto.
Lo scontro con altre civiltà, che io chiamo extraromaniche, magari più crudeli della nostra nella loro visione del mondo, ma, proprio per impostazione teorica, più realiste (almeno in teoria, visto che gli appetiti umani sono gli stessi per tutti gli uomini di qualsiasi cultura e spingono alle prepotenze al di là dei valori professati) nel cercare un limite compromissorio per ridurre il male mediante armonici compromessi, poiché sanno, per antica saggezza maturata con l’esperienza, che nessuno ha monopolio del bene della civiltà, denota che il pensiero occidentale ha delle gravi lacune di natura teorica (mito del progresso) che ne paralizzano l’azione.
E’ una situazione psicologica che possiamo racchiudere in un saggio antico proverbio, il cui dettato è stato fatalmente violato dal delirio globalizzante (versione brutalmente materialistica e terra terra del concetto di “conquista alla civiltà”): “Chi troppo vuole (e magari crede di poter pretendere per una presunta superiorità morale, prima ancora che per vera o presunta superiorità nell’efficienza produttiva) nulla stringe!”. Sul perché l’Europa, carolingia (in realtà già frantumatasi con la fine dei carolingi e l’avvio della rivalità franco – germanica conclusasi un millennio dopo con la salomonica, e velleitaria, idea di spartirsi la sovranità di fatto sul resto d’Europa) o più estesa che sia rispetto all’Europa carolingia, è evidente che quell’unità spirituale, e conseguentemente la fiducia reciproca tra cittadini, che accomuna gli appartenenti ad uno stato (che sia in grado di funzionare, ne parlai a suo tempo definendo la UE in “ircocervo anarcocapitalistico” privo, prima ancora che di forma giuridica, di un’anima statale), nel caso dell’Europa non esiste nel modo più assoluto.
E’ il senso di estraneità che genera il sovranismo, non il sovranismo che genera l’estraneità tra i gruppi umani (si veda lo sfaldamento dell’Impero asburgico alla fine della prima guerra mondiale). Che, piaccia o non piaccia, è un’entità psicologica culturale che garantisce un consenso di massa da parte dei cittadini, prima ancora che politica di cui non si può non tener conto. E che, vedi caso, è la bestia nera dei globalisti, in buona (ecumenici, ma poco accorti circa i limiti delle cose) o in cattiva (affaristi e profittatori senza limiti) fede.
Questa mia riflessione con l’immente festività pasquale. La scristianizzazione europea cammina di pari passo con l’avanzamento esagerato di islamismo, esoterismo e massoneria, in totale discordanza tra l’essere cattolici con l’adesione a queste missioni, il Presidente della Pontificia Accademia di Teologia sottolinea che “all’interno della massoneria si sviluppano trame di potere occulto che sono in contraddizione con l’agire cristiano. Insomma, quando parliamo di inconciliabilità facciamo riferimento a contraddizioni profonde. Non ci possiamo nemmeno appellare all’opposizione polare del teologo Romano GUARINI, per dire che possono stare insieme”. Da sempre il giudizio della Chiesa sulla Massoneria non tiene conto soltanto del fatto che l’organizzazione operi o meno contro la Sposa di Cristo, ma più in generale del suo essere in contraddizione a livello filosofico e morale con la dottrina cattolica. Dopo la lettura dell’articolo del cardinale Gianfranco Ravasi, “Cari fratelli massoni”, (Sole 24 Ore), resta la spiacevole sensazione che il dialogo fra Chiesa cattolica e la massoneria verrà ufficializzato, superando la secolare contrapposizione frontale. Ma l’articolo del cardinale Ravasi lascia spazio a molte ambiguità. Sono temi non facili da trattare e per i quali non ci sono ricette immediate di soluzione. La contrapposizione violenta e netta, non è la strada giusta per dialogare. Certamente vanno affermati i valori senza ambiguità e reticenze, ma con l’attenzione all’interlocutore e alla sua capacità di giudizio. Purtroppo il livello culturale in Italia si è fortemente abbassato e le chiacchiere da salotto sono l’unica fonte di informazione. Non è facile dialogare e confrontarsi quando mancano elementi oggettivi per dire la propria senza scadere nel sentito dire. La fase di arretramento del cristianesimo occidentale e essenzialmente europeo, preoccupa e porta inevitabilmente allo scoraggiamento e all’incertezza sul futuro della fede. Ci sono persone che si definiscono atee, altre non credenti, alcune lontane dalla Chiesa ma religiose, altre ancora credenti anche se non praticanti. Quotidianamente mi interrogo, per essere buoni cristiani dovremmo vivere ogni giorno al meglio delle nostre possibilità, proprio come insegnò Gesù quando era sulla terra e in modo degno per avere la guida dello Spirito Santo. Non cerco giustificazione per me stesso e per coloro che non vivono secondo le regole cristiane. “Quando il Figlio dell’uomo verrà, troverà la fede sulla terrà?” Propose loro ancora questa parabola per mostrare che dovevano pregare continuamente e non stancarsi. “In una certa città v’era un giudice, che non temeva Iddio né aveva rispetto per alcun uomo; e in quella città vi era una vedova, la quale andava da lui dicendo: “Fammi giustizia del mio avversario”. Ed egli per un tempo non volle farlo; ma poi disse fra sé: “Benché io non tema Iddio e non abbia rispetto per alcun uomo, pure, poiché questa vedova mi dà molestia, le farò giustizia, che talora, a forza di venire, non finisca col rompermi la testa”. E il Signore disse: «Ascoltate quel che dice il giudice iniquo. E Dio non farà egli giustizia ai suoi eletti che giorno e notte gridano a lui, e sarà egli tardo per loro? Io vi dico che farà loro prontamente giustizia.