Alla ricerca del Centro



Andrea Griseri    24 Dicembre 2024       3

Correva l’anno 1789 quando un abate parigino, forse più interessato alla filosofia e agli Enciclopèdistes che alla teologia, Emmanuel Joseph Sieyès, pubblicò un pamphlet intitolato Qu'est-ce que le Tiers-État? (Cos'è il Terzo Stato?) in cui compariva un aforisma divenuto ben presto celebre: “Che cos'è il Terzo Stato? Tutto. Che cos'è stato finora nell'ordinamento politico? Nulla. Che cosa desidera? Diventare qualcosa”.

Duecentotrentacinque anni dopo, in Italia non potremmo riproporre la fortunata formula dell’abate con una piccola modifica, sostituendo la parola Tiers-État con Centro?

Per certo non si può dire che il Centro nel nostro Paese sia stato “finora” una nullità ovviamente: ma dopo i fasti della Prima Repubblica nelle fasi successive della vita nazionale (a quale Repubblica siamo arrivati? Ho perso il conto) il Centro ingabbiato nello stivaletto malese del bipolarismo ha rappresentato un’aspirazione per molti, un voglio ma non posso, è stato oggetto di scherno, ha dovuto cercarsi padrini e protettori, si è camuffato sotto diversi costumi, drappeggiato con le bandiere più disparate.

Che cosa è o che cosa dovrebbe essere il Centro nell’Italia di oggi? Che cosa non è o non dovrebbe essere? A che cosa ambisce questo ingombrante ectoplasma dai contorni quanto mai indefiniti e mutevoli?

Provo a dare qualche risposta, soggettiva s'intende, al quesito negativo. Non solo la politica ma anche la società, il mondo culturale, l’informazione sono sotto il segno della divisione e della polarizzazione: l’emotività prevale sulla freddezza indispensabile per esaminare i diversi problemi con oggettività, anziché la ricerca delle soluzioni migliori per tutta la comunità si preferisce segnare un punto a favore della propria fazione talora – ed è incredibile – indipendentemente dal fatto che ne discendano immediati vantaggi tangibili. Chi sta al centro dovrebbe sforzarsi di contrastare queste dinamiche. Con un rischio: quello di cadere in una sorta di atonia, di pilatesca equidistanza (ciò che certa vulgata rimproverava alla DC nell’ultima fase della Prima Repubblica).

Ma oggi si tratterebbe di procedere al disaccoppiamento fra valori, che devono restare ben radicati e spirito fazioso attraverso la pratica dell’ascolto: dei propri simili e dei dissimili, cioè degli avversari. L’ascolto (che non significa sottomissione) dell’altro dovrebbe essere una pratica che distingue soprattutto chi all’interno del Centro è ispirato da valori evangelici: “Che merito avrete se amate (ascoltate) solo i vostri amici? (Lc 6,27). Ma anche l’ascolto dei propri sodali è importante ed è oggi merce rara: le organizzazioni politiche, partiti o movimenti, dovrebbero costituire i luoghi in cui attraverso il confronto e il coinvolgimento più ampio possibile della società civile si sviscerano i problemi e si elaborano le soluzioni migliori. Dove incontriamo oggi un vero, franco, aperto dibattito? Non certo nei talk show televisivi nei quali secondo schemi, i famosi format, importati in genere da oltreoceano, si battibecca, ci si da sulla voce, si scatarrano frasette brevi e apodittiche modellate sullo stile semplificatorio di certi social: non appena un ospite tenta di articolare un ragionamento complesso ecco intervenire il Formigli o il Del Debbio della situazione a interrompere un pericoloso tentativo di risvegliare gli assopiti neuroni degli spettatori. Tu cittadino seduto in poltrona ricordati che sei null’altro che un consumatore: di merendine, di diavolerie digitali, di ideuzze prefabbricate, di emozioni; ti devi conformare e puoi scegliere fra due schemi grossolani, di destra l’uno di sinistra l’altro, ma non ti chiedo né ti permetto di praticare l’intelligenza critica.

Sì, esiste in Italia il rischio di scivolare nuovamente nel fascismo: è l’assopimento dello spirito critico, la povertà dei contenuti (frutto del processo di impoverimento culturale innescato dagli sceneggiatori occulti del grande show mediatico), l’assenza di quella dialettica vivace, partecipativa che secondo Sturzo e Gobetti era il sintomo della vitalità dei popoli liberi e il regime andava a soffocare inesorabilmente; oggi siamo di fronte a un fascismo 2.0 che non ha bisogno di parate, gerarchi e olio di ricino.

Il mitico Centro che cosa dovrebbe dunque fare? Un bisticcio di parole: ridare centralità alla politica, al dibattito e alle inquietudini perché nulla è scontato e occorre in un contesto occidentale dominato da oligarchie interessate a consolidare il proprio potere economico a discapito della politica (e quindi della democrazia) esercitare l’arte del pensiero divergente.

Chi scrive ha maturato la propria esperienza di lavoro nelle aziende private dove da più di un decennio il tema dominante insufflato senza requie nella testa dei dipendenti riguarda l’innovazione e il cambiamento: change, innovation, parole d’ordine onnipresenti! In apparenza è cosa più che logica, i prodotti o i servizi offerti ai clienti devono migliorare costantemente, assecondare le evoluzioni del gusto e degli stili di vita: ma a un certo punto l’innovation e il change si sono trasformati in un dogma. Atemporale, astratto. L’innovazione è presentata come un bene in sé, indipendentemente dai suoi contenuti e dalle sue conseguenze; una filosofia che sembra essersi impadronita oggi anche delle opposte fazioni in politica e aleggia sul brusio mediatico e persino accademico internazionale.

Il Centro dovrebbe invece ispirarsi a un approccio metodologico completamente diverso. Segnatamente un Centro che voglia essere riconosciuto per la propria ispirazione cristiana dovrebbe esaminare il cambiamento in ragione della sua capacità di promuovere il bene comune, senza timore di farsi additare come conservatore qualora un’innovazione sia respinta perché non corrisponde a una tale finalità o se appare utile “conservare”, con gli opportuni aggiornamenti, regole e prassi che arrivano dal passato.

Adesso la metto terra a terra a costo di farmi dare del qualunquista: il Centro ha in Italia come altrove un vasto referente sociale costituito dalla gente che lavora, cerca di migliorarsi ogni giorno, riconosce l’importanza del merito ma ha il senso della giustizia perché capisce che una comunità coesa “che non lascia indietro nessuno” è garanzia di stabilità e prosperità per tutti; gente pronta a cambiare ma senza trasformismi o inutili accelerazioni, gente che diffida delle distruzioni creatrici esaltate fra squilli di buccina dagli aedi del neoliberismo globale.

La politica praticata dalle fazioni è prevedibile, come se ciascun convenuto fosse stato riprogrammato con una specie di manuale Cencelli della mente: il Centro dovrebbe avere il coraggio dell’imprevedibilità. Siamo abituati a pensare al Centro come al luogo dell’eterna mediazione, dell’ossessiva ricerca dell’equilibrio. Alla ricerca costante di un ragionevole negoziato non si deve affatto rinunciare! Ma un Centro che abbia come stella polare il bene comune e un referente sociale che non coincide con il famoso 1% più ricco in un Occidente sempre meno democratico e sempre più oligarchico (i Papi lo dicono da qualche anno, l’altro giorno anche il presidente Mattarella ha esternato in tal senso) può permettersi un certo grado di eclettismo e azioni che secondo il vecchio metro di giudizio possono classificarsi di volta in volta di destra o di sinistra.

Ecco il punto, il futuro Centro dovrebbe bensì avere un ancoraggio valoriale e sociale molto riconoscibile e saldo ma, ove necessario, osare l’inaspettato nella scelta delle battaglie politiche: un Centro roccioso e situazionista insomma, aperto all’innovazione ma senza ipostatizzare e idoleggiare il change.

E che dire del realismo, virtù distintiva della nobile tradizione liberale e dei cristiani (cosa c’è di più realista che muovere dalla consapevolezza della natura peccaminosa dell’uomo?): le due fazioni politiche sono entrambe, in forme diverse, influenzate dalle minoranze estremiste che esercitano una fascinazione culturale assai superiore alla loro carica rappresentativa. Consideriamo a scopo esemplificativo gli approcci alla questione migratoria segnati sul lato destro dalla paura costantemente alimentata del diverso, e su quello sinistro da una sorta di riedizione postilluminista del mito del buon selvaggio, i migranti dipinti come barbari invasori da respingere con ogni mezzo oppure come risorse che ci salveranno da noi stessi, da accogliere senza alcuna limitazione. Due approcci antitetici ma accomunati appunto dalla totale assenza di realismo.

Chi lo sa? Forse in un ipotetico e futuribile “campo largo” un centro fatto da gente con i piedi ben piantati per terra alleggerirà la sinistra dei suoi rancori, abbasserà i ditini alzati, farà evaporare la velleitaria abitudine a coniugare i verbi al condizionale e sempre alle terze persone? Freud sosteneva che il principio di realtà ci aiuta a posticipare l’illusoria soddisfazione dei desideri nel presente per costruire le basi solide di una gratificazione futura. Il realista è simile a quei calciatori che sanno “leggere l’azione” e agire di conseguenza, attaccare lo spazio o ripiegare tagliando le linee di passaggio all’avversario. Vi sono momenti in cui è preferibile un gesto puntuto e radicale e momenti in cui sono consigliabili prudenza e disponibilità al compromesso.

L’abate Sieyés recitò un ruolo da protagonista nella Rivoluzione francese, si eclissò quando le teste calde giacobine scatenarono il Terrore riuscendo nell’impresa, non facile a quei tempi, di salvare la testa; ritornò in politica, diede un contributo decisivo a Napoleone e al primo Impero; con la restaurazione dovette rassegnarsi a un lungo esilio perché reo di avere votato a favore della condanna di Luigi XVI, ma ritornò a Parigi già vecchio nel 1830 e morì circondato dal rispetto universale. Il teorico della Rivoluzione che tematizzò con una felice sintesi il significato storico del Terzo stato come lontano paradigma del moderno centrista? Il Terzo stato e cioè la middle class (in tempi recenti, nelle democrazie industriali avanzate, è stato un contenitore allargato, capace di tenere insieme, sia pure distribuiti tra i quartili superiori e inferiori, il brillante professionista e l’operaio “di mestiere” della FIAT) oggi è nuovamente minacciato: si parla spesso della lotta di classe dei pochi ricchissimi oligarchi non tanto contro il proletariato ma contro la middle class, perno sociale delle democrazie.

Emmanuel Todd nella sua recentissima pubblicazione La sconfitta dell’occidente evoca la contrapposizione fra le “Democrazie autoritarie “ dell’est Europa e le “Oligarchie liberali” dell’occidente profondo a guida anglosassone dove la democrazia appare alle élites un fastidioso fardello da scrollarsi di dosso o almeno depotenziare. È qui che il Centro può svolgere un ruolo cruciale, a dispetto dei radicalismi che finiscono per fare il gioco del nemico; e la questione non riguarda soltanto l’Italia ma tutto l’occidente liberale o, per meglio dire, tutta l’area atlantica che oggi trova un motivo di coesione soltanto nel bellicismo militante contro nemici veri o presunti, muscolare, tecnocratico disancorato da una visione politica lungimirante, autoreferenziale e per questo motivo sommamente pericoloso.

Tornando alle cose di casa nostra e al dibattito, privo a me pare di grande profondità strategica, che si è innescato intorno all’ipotesi centrista noto che pochi danno credito alla possibilità di costituire una terza area alternativa alle due fazioni antagoniste. Il rigido schema bilaterale che ingessa le dinamiche politiche italiane ne inibisce lo sviluppo; e i moderati, i ragionevoli, i realisti potrebbero trovare spazio in veste di comprimari soltanto in seno alle due coalizioni. Già le sirene modulano i loro richiami seducenti a sinistra come a destra: ma in tal modo il Centro non avrebbe grandi possibilità di sviluppare quell’identità nuova e peculiare che manca nel desolato panorama italiano.

Sarà soltanto un sogno ad occhi aperti? Solide basi ma anche un eclettismo a tratti spregiudicato, il confronto a largo raggio con il mondo della politica, della cultura, del lavoro, dell’industria, dell’arte, la proposta di soluzioni non scontate, la capacità di attivare le energie migliori presenti nella società civile: una svolta metodologica insomma capace di mettere a fattore comune i contenuti migliori – qualcosa di buono almeno nelle intenzioni si sarà pur fatto – che in questi anni centrodestra e centrosinistra hanno elaborato. Certamente sarebbe inutile ed esiziale un centro che si appropriasse dei prodotti peggiori fabbricati dalle due fazioni.

Per esempio: pensate che incubo se si presentasse un federatore che suggerisse una politica della sicurezza blanda e tollerante verso borseggiatori e spacciatori di droga, assecondando le ossessioni securitarie della sinistra radicale e nel contempo il superamento definitivo dell’urbanistica, scienza sociale prima che architettonica, facendo dei suoli urbani un terreno di conquista per la speculazione edilizia, in omaggio alle insormontabili pulsioni liberiste che albergano stabilmente a destra… Ogni riferimento a fatti o persone reali ovviamente non è puramente casuale.


3 Commenti

  1. Complimenti ad Andrea per questo articolo denso e ricco di spunti. Condivido in larga misura quanto è scritto anche se mi fa nascere non pochi interrogativi.
    Da molto tempo, “destra” e “sinistra” sono categorie che non mi dicono più niente, strumenti inadeguati per la comprensione del mondo odierno. Che resta allora della denominazione “Centro”, se non lo si considera più un soggetto collocato tra i due predetti riferimenti ormai privi di significato, ma piuttosto un fenomeno totalmente estraneo ad essi?
    Viene detto del Centro che vuole essere riconosciuto per la propria ispirazione cristiana”, ma se è corretto riconoscere che molti dei valori proposti possono essere ad essa ricondotti, mi pare limitativo sottolinearlo come una sua caratteristica identitaria e quindi escludente quanti (pur condividendo tali obiettivi) hanno un’altra cultura o una diversa storia alle spalle.
    E’ stato giustamente detto che c’è la necessità di una voce nuova che rompa con il manicheismo dominante fatto di una guerra tra fazioni chiuse ad ogni dialogo e compromesso, una necessità che riguarda non solo l’Italia, ma l’intera Europa ed anzi tutto l’Occidente. Chiedo se si è a conoscenza di iniziative o movimenti, sorti in questa ampia area, che si muovano nella direzione auspicata.

  2. 1) Mancano. Le idee, quelle idee costituivano, gli ideali attraverso, le quali far star insieme persone con finalità affini, un programma di governo, (é da 30 anni che non leggo un programma serio L’ultimo che ho letto fu quello dell’Ulivo. Un programma innovativo e al passo coi tempi 2)é da 30 che mancano gli intellettuali, viceversa il centro è di per sé é come la caramella POLO, famosa per il nulla cosmico al centro.

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