Arriva dalla Chiesa in Africa una indicazione su come affrontare la crisi migratoria e lo spiega Mons. Sosthène Léopold Bayemi Matjei, Vescovo di Obala, Camerun, ad Aiuto alla Chiesa che Soffre (ACS).
Obala è una diocesi rurale con circa 800.000 abitanti, più della metà dei quali cattolici. “Non solo i cristiani ma tutti gli abitanti del Camerun preferiscono rimanere nella loro patria. Esaminando i dati dell’emigrazione verso l’Europa, da circa 20 anni si registra una crescita dei camerunesi che emigrano verso Francia e Italia a causa del peggioramento della situazione socio-politica interna. Ad esempio, un medico in Camerun percepisce circa 350 euro al mese. Con uno stipendio così basso – prosegue il prelato – non riesce a vivere. L’imprenditoria non si sviluppa perché non c’è accesso dignitoso alle risorse economiche: le nostre banche, che sono tutte francesi o inglesi, applicano tassi di interesse per i prestiti che arrivano al 10-12%. La nostra moneta, il franco Cfa, è controllata dalla Francia, questo accade in Camerun e in altri 13 Paesi africani, e abbiamo l’obbligo di destinare metà delle nostre risorse alla Banca di Francia”, spiega il vescovo di Obala. “I ragazzi vorrebbero rimanere a casa, ma sono costretti a emigrare. Da 6 anni viviamo una situazione di instabilità a causa di Boko Haram e a causa degli scontri tra anglofoni e francofoni che utilizzano le risorse economiche per sovvenzionare le loro guerre e non per creare e favorire lo sviluppo professionale, le infrastrutture e le strutture necessarie al nostro Paese. La situazione è complicata e aggravata dalla corruzione. Assistiamo a una corsa al potere e temiamo un colpo di Stato”.
Un altro fattore determinante è rappresentato dal cambiamento climatico. “Nella nostra regione solitamente arrivavano le piogge nel periodo di Ferragosto, ma da 4 anni questo non accade più e ci è capitato di restare senza acqua fino a fine settembre, il che ha danneggiato i terreni arabili.
Di fronte a un’Europa perennemente alle prese con la gestione dell’emergenza immigrazione mons. Bayemi Matjei sottolinea che “è fondamentale la prevenzione. Il Camerun prima del conflitto tra anglofoni e francofoni e prima delle violenze di Boko Haram era un’isola di pace, anche se intorno al nostro Paese c’erano Stati con gravi problemi come Ciad, Nigeria, Repubblica del Congo, Repubblica Centrafricana. Eravamo consapevoli che sarebbero arrivati migranti da queste terre, ma non siamo stati preparati ad accoglierli. Ci vuole un cambiamento completo e per farlo bisogna partire dalla gestione dell’emergenza con lo scopo di creare un futuro, dare una speranza. È giusto prevedere i flussi e regolamentarli con i mezzi di controllo statale ma è meglio dare la possibilità di rimanere in patria”.
Mons. Bayemi Matjei descrive poi i limiti delle attuali politiche per lo sviluppo. “Sono vescovo da 13 anni e sono molto impegnato nello sviluppo, ho incontrato esponenti del Fondo Monetario Internazionale e ho chiesto loro di confrontarsi non solo con i governi ma anche con coloro che vivono condizioni problematiche e dovrebbero ricevere gli aiuti. Molti contributi vengono usati male perché manca il confronto diretto, questo genera una paralisi. Gli interventi devono riguardare l’intera filiera produttiva. Ad esempio, la Danimarca anni fa ha iniziato un progetto per la creazione di pozzi d’acqua. Hanno costruito le infrastrutture nei villaggi collegando acquedotti ai fiumi ma non hanno fatto formazione locale. Hanno lasciato l’infrastruttura ma non ci hanno insegnato a gestire la manutenzione e ci siamo ritrovati senza assistenza tecnica e a dover coprire i costi del carburante per far funzionare le macchine”.
Quanto alle concrete iniziative assunte dalla Diocesi, il prelato racconta di aver sviluppato uno specifico piano pastorale. “Ho costruito una scuola agraria per formare i ragazzi dopo la maturità, ma dopo la formazione, che dura 3 anni, è necessario l’inserimento nel mondo del lavoro”.
Anche Mons. Bruno Ateba, Vescovo della diocesi di Maroua-Mokolo, nell’estremo nord del Camerun, racconta la sua visione delle sfide che i giovani africani affrontano mentre cercano di fuggire dalla miseria in cui è immerso gran parte del loro continente.
C’è una chiara connessione tra la realtà degli sfollati, l’emigrazione e la mancanza di un futuro stabile. spiega. Ed è anche una questione demografica. “Non dobbiamo dimenticare che l’Africa ha una popolazione molto giovane. E i giovani rappresentano un enorme potenziale per il nostro continente, ma solo se possiamo dare loro gli strumenti e le opportunità necessarie per prosperare”.
Nonostante le straordinarie difficoltà che la sua diocesi già affronta a causa del terrorismo, Mons. Ateba sta facendo grandi sforzi per includere opportunità di formazione professionale e creazione di posti di lavoro nella sua opera pastorale, aiutando i giovani sfollati interni a diventare autonomi.
Un esempio, spiega, è “un centro di attività per giovani finanziato da ACS nel campo profughi di Minawao, nella parrocchia di Zamay, che accoglie 80.000 rifugiati provenienti dalla vicina Nigeria e fuggiti da Boko Haram. Grazie a questo progetto, queste persone ricevono attenzione pastorale e allo stesso tempo acquisiscono competenze, come riparare scarpe o computer, o cucire, le quali permettono loro di trovare lavoro per guadagnarsi da vivere. L’impegno della Chiesa verso queste persone è un faro di speranza in mezzo a grandi avversità”.
(Tratto da www.acistampa.com)
Obala è una diocesi rurale con circa 800.000 abitanti, più della metà dei quali cattolici. “Non solo i cristiani ma tutti gli abitanti del Camerun preferiscono rimanere nella loro patria. Esaminando i dati dell’emigrazione verso l’Europa, da circa 20 anni si registra una crescita dei camerunesi che emigrano verso Francia e Italia a causa del peggioramento della situazione socio-politica interna. Ad esempio, un medico in Camerun percepisce circa 350 euro al mese. Con uno stipendio così basso – prosegue il prelato – non riesce a vivere. L’imprenditoria non si sviluppa perché non c’è accesso dignitoso alle risorse economiche: le nostre banche, che sono tutte francesi o inglesi, applicano tassi di interesse per i prestiti che arrivano al 10-12%. La nostra moneta, il franco Cfa, è controllata dalla Francia, questo accade in Camerun e in altri 13 Paesi africani, e abbiamo l’obbligo di destinare metà delle nostre risorse alla Banca di Francia”, spiega il vescovo di Obala. “I ragazzi vorrebbero rimanere a casa, ma sono costretti a emigrare. Da 6 anni viviamo una situazione di instabilità a causa di Boko Haram e a causa degli scontri tra anglofoni e francofoni che utilizzano le risorse economiche per sovvenzionare le loro guerre e non per creare e favorire lo sviluppo professionale, le infrastrutture e le strutture necessarie al nostro Paese. La situazione è complicata e aggravata dalla corruzione. Assistiamo a una corsa al potere e temiamo un colpo di Stato”.
Un altro fattore determinante è rappresentato dal cambiamento climatico. “Nella nostra regione solitamente arrivavano le piogge nel periodo di Ferragosto, ma da 4 anni questo non accade più e ci è capitato di restare senza acqua fino a fine settembre, il che ha danneggiato i terreni arabili.
Di fronte a un’Europa perennemente alle prese con la gestione dell’emergenza immigrazione mons. Bayemi Matjei sottolinea che “è fondamentale la prevenzione. Il Camerun prima del conflitto tra anglofoni e francofoni e prima delle violenze di Boko Haram era un’isola di pace, anche se intorno al nostro Paese c’erano Stati con gravi problemi come Ciad, Nigeria, Repubblica del Congo, Repubblica Centrafricana. Eravamo consapevoli che sarebbero arrivati migranti da queste terre, ma non siamo stati preparati ad accoglierli. Ci vuole un cambiamento completo e per farlo bisogna partire dalla gestione dell’emergenza con lo scopo di creare un futuro, dare una speranza. È giusto prevedere i flussi e regolamentarli con i mezzi di controllo statale ma è meglio dare la possibilità di rimanere in patria”.
Mons. Bayemi Matjei descrive poi i limiti delle attuali politiche per lo sviluppo. “Sono vescovo da 13 anni e sono molto impegnato nello sviluppo, ho incontrato esponenti del Fondo Monetario Internazionale e ho chiesto loro di confrontarsi non solo con i governi ma anche con coloro che vivono condizioni problematiche e dovrebbero ricevere gli aiuti. Molti contributi vengono usati male perché manca il confronto diretto, questo genera una paralisi. Gli interventi devono riguardare l’intera filiera produttiva. Ad esempio, la Danimarca anni fa ha iniziato un progetto per la creazione di pozzi d’acqua. Hanno costruito le infrastrutture nei villaggi collegando acquedotti ai fiumi ma non hanno fatto formazione locale. Hanno lasciato l’infrastruttura ma non ci hanno insegnato a gestire la manutenzione e ci siamo ritrovati senza assistenza tecnica e a dover coprire i costi del carburante per far funzionare le macchine”.
Quanto alle concrete iniziative assunte dalla Diocesi, il prelato racconta di aver sviluppato uno specifico piano pastorale. “Ho costruito una scuola agraria per formare i ragazzi dopo la maturità, ma dopo la formazione, che dura 3 anni, è necessario l’inserimento nel mondo del lavoro”.
Anche Mons. Bruno Ateba, Vescovo della diocesi di Maroua-Mokolo, nell’estremo nord del Camerun, racconta la sua visione delle sfide che i giovani africani affrontano mentre cercano di fuggire dalla miseria in cui è immerso gran parte del loro continente.
C’è una chiara connessione tra la realtà degli sfollati, l’emigrazione e la mancanza di un futuro stabile. spiega. Ed è anche una questione demografica. “Non dobbiamo dimenticare che l’Africa ha una popolazione molto giovane. E i giovani rappresentano un enorme potenziale per il nostro continente, ma solo se possiamo dare loro gli strumenti e le opportunità necessarie per prosperare”.
Nonostante le straordinarie difficoltà che la sua diocesi già affronta a causa del terrorismo, Mons. Ateba sta facendo grandi sforzi per includere opportunità di formazione professionale e creazione di posti di lavoro nella sua opera pastorale, aiutando i giovani sfollati interni a diventare autonomi.
Un esempio, spiega, è “un centro di attività per giovani finanziato da ACS nel campo profughi di Minawao, nella parrocchia di Zamay, che accoglie 80.000 rifugiati provenienti dalla vicina Nigeria e fuggiti da Boko Haram. Grazie a questo progetto, queste persone ricevono attenzione pastorale e allo stesso tempo acquisiscono competenze, come riparare scarpe o computer, o cucire, le quali permettono loro di trovare lavoro per guadagnarsi da vivere. L’impegno della Chiesa verso queste persone è un faro di speranza in mezzo a grandi avversità”.
(Tratto da www.acistampa.com)
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