Il prossimo 22 ottobre, gli elettori argentini saranno chiamati a eleggere il nuovo Presidente e larga parte delle due Camere; si tratta di un avvenimento di notevole rilievo non solo locale, di cui voglio occuparmi per almeno due questioni, al di là del mio personale interesse per quel Paese, dovuto a legami familiari.
La prima delle due questioni riguarda la necessità di inquadrare la vicenda elettorale in sé, che cade in un momento drammatico per il Paese e – quasi dramma nel dramma – lascia intravvedere esiti a dir poco inquietanti per il futuro della stessa Argentina e per le conseguenti ricadute a livello geopolitico.
La seconda attiene a un fenomeno che ha toccato noi e tutto il mondo occidentale, ossia il progressivo affermarsi di movimenti populisti; una sorta di epidemia. In questo caso assistiamo al profilarsi di un inedito scontro tra due populismi, che tendono ad occupare tutta la scena politica.
La vicenda elettorale cade in un Paese in profonda crisi; seconda realtà del Sud America per estensione e terza per popolazione, di cultura profondamente europea, è in piena sindrome da nobile decaduto: nella prima metà del Novecento era tra le prime dieci economie del mondo, alla fine della guerra mondiale, con i proventi realizzati vendendo carne e cereali alle nazioni in guerra – si racconta – le riserve auree avevano riempito i caveau della banca centrale e i lingotti dovevano essere sistemati nei corridoi.
Oggi, con un’inflazione stimata al 116% per il 2023, è in competizione per il primato negativo con il Venezuela. Con un’attività economica in calo e un deficit della bilancia commerciale ad agosto del 2023 di un miliardo di dollari (cifra resa nota dall’INDEC, l’Istituto nazionale di statistica albiceleste, e rappresenta il settimo record negativo dell’anno) è chiaro che l’opinione pubblica è in subbuglio.
La classe politica, globalmente intesa, è ampiamente screditata e sotto accusa per un tale disastro e lo è in particolare il governo peronista-kirchnerista, gravato da palesi responsabilità. Il governo però, ha tentato di difendere la sua base di consenso elettorale, tendenzialmente rappresentata dagli strati più poveri della società, accentuando il suo carattere populista e tenendo in vita una pletora di sussidi individuali, vagamente simili al nostro reddito di cittadinanza, oltre ad assumere un posizionamento internazionale di simpatia verso il Venezuela e Cuba, con un occhio a Russia e Cina.
Il Peronismo è stato ed è un movimento variegato e con diverse anime al suo interno. Quasi tutti gli osservatori davano per scontato la probabile imminente fine del ciclo peronista dei Kirchner, espressione della sinistra interna, iniziato nel 2003 con l’elezione di Nestor Kirchner e proseguito per due mandati dalla vedova Cristina sino al 2015, interrotto per un turno dalla vittoria del deludente candidato della coalizione del centrodestra, Maurizio Macri e poi nuovamente in sella con l’attuale presidente Alberto Fernandez, già capo-gabinetto della stessa Cristina. Oltre tutto l’attuale candidato peronista è Sergio Massa, il ministro dell’Economia in carica, il che costituisce un ben modesto titolo di merito.
Ho già citato la coalizione del centrodestra che aveva fatto eleggere nel 2015 Macri; costui aveva piuttosto ben meritato come sindaco di Buenos Aires, ma si rivelò inadeguato come capo del governo (oltretutto trattato con evidente freddezza dal suo più illustre connazionale J.M. Bergoglio, a differenza di una certa simpatia palesata verso la Kirchner e i suoi). Sarà dunque la volta buona, questa volta, per i “moderati” di riprendere in mano il Paese?
La candidata scelta, Patricia Bullrich, almeno vista dall’Italia, da lontano, appare singolare: nasce da una famiglia celebre, onusta di gloria nella storia nazionale e di mezzi economici (per dire: porta il suo nome il palazzo che ospita la più elegante galleria commerciale della capitale, il Patio Bullrich). Da giovane però si manifestò come una accesa militante del peronismo di sinistra, assai vicina ai “montoneros”, come i Kirchner; poi, con diversi successivi riposizionamenti e con molta ambizione, cambiò strada, divenendo ministra di Macri ed oggi propugna una linea dura, specie in materia di ordine pubblico, assecondando una delle esigenze primarie della società argentina, angustiata dall’esplodere della microcriminalità. Una candidata giudicata forte ma indebolita dal suo passato e da una certa vaghezza nei programmi.
Ecco allora esplodere, quasi all’improvviso, il caso di Javier Milei. Un personaggio incredibile, una specie di Beppe Grillo argentino, che ricorda nello stile e nella grevità dell’eloquio. Difficilmente inquadrabile nelle nostre categorie, una sorta di anarco-radical-super liberale. Sulla stampa locale è chiamato “el libertario”. Si qualifica come un economista e ai comizi si è presentato scarmigliato, brandendo un decespugliatore, come simbolo della necessità di far piazza pulita della casta politica, propone di abolire il Banco Central (la Banca Nazionale), la dollarizzazione dell’economia con la soppressione della valuta locale, la liceità del commercio di organi, il porto libero delle armi, ecc.; il tutto condito con scatti d’ira e di insulti, verso giornalisti, avversari e anche il Papa, cui ha rivolto improperi che preferisco omettere.
Comportamenti che hanno portato l’editorialista Joaquin Morales Solá a scrivere il 3 settembre sull’autorevole “La Nation”: “la verità è che non tutti possono essere presidenti. La storia, più di ogni altra scienza sociale, insegna che i capi di Stato devono soddisfare alcuni requisiti, oltre a quelli costituzionali: devono, in effetti, mostrare temperanza e serenità, un profondo senso delle proporzioni e un comprovato controllo delle emozioni. Nella più antica democrazia del mondo, quella degli Stati Uniti, il rispetto di queste condizioni era inappellabile fino a quando Donald Trump non è salito al potere”. Milei: una specie di Beppe Grillo, dicevo, assonante però con Trump e Bolsonaro.
Una quintessenza di un altro populismo, insomma, che si contrappone a quello storico, peronista. Adesso, con le elezioni alle porte, per la verità, sta correggendo il tiro, moderando look e linguaggio, pensando di aumentare il consenso, ma col rischio di annacquare la sua forza d’urto.
Per comprender meglio la situazione occorre fornire due dati supplementari: il sistema elettorale argentino prevede (semplifico) il ballottaggio tra i due candidati più votati e che le elezioni vere e proprie debbano essere precedute da primarie. Ora queste primarie si sono tenute in agosto e i risultati hanno lasciato di stucco: Milei ha ottenuto quasi il 30% dei voti, il centrodestra circa il 28 e i peronisti il 27. Milei ha raccolto consensi da tre tipi di elettori, dai ceti più modesti, storicamente feudi peronisti, da coloro che chiedono a gran voce di rompere con lo status quo e sono abbagliati dalle sue grida, e da una parte delle nuove generazioni cieca e sorda agli argomenti delle precedenti, riluttanti a qualsiasi idea che metta in dubbio il loro carismatico leader.
I sondaggi di opinione più recenti segnalano che al ballottaggio potrebbero confrontarsi i campioni dei due populismi, lasciando da parte la “moderata” Bullrich. Un elemento di incertezza è legato al fatto che Milei e la sua neonata formazione, pur avendo raccolto un consenso diffuso nel Paese, non è rappresentato nei corpi intermedi, Comuni, Province e potrebbe risentirne il suo risultato.
In conclusione: mai l’Argentina si è trovata in una situazione di questo tipo e il Paese, pur straordinariamente ricco di risorse importanti come allevamento, produzione agricola, risorse energetiche, alta istruzione di base e sempre in procinto di decollare, forse non è ancora pronto per una reale stabilizzazione politico-economica, riprendendo anche il ruolo che gli compete in America Latina.
Anche se non costituisce il focus di questo articolo, non posso esimermi da un’ultima osservazione, proprio sul populismo, che vediamo prosperare rigogliosamente non solo presso i nostri cugini d’oltre oceano ma anche in Europa e negli Stati Uniti. Il populismo è il grande imbroglio, è l’illusione della ricerca di facili soluzioni a problemi reali e complessi. Il rifiuto della complessità e lo scatenamento dell’emotività sono alimentati da un sistema di comunicazione mai così efficace e pervasivo. Quanto più segmenti della società si sentono in difficoltà tanto più è agevole incanalarne lo scontento e la rabbia verso bersagli enfatizzati ad hoc e verso apprendisti stregoni che si proclamano portatori di soluzioni. Purtroppo i partiti politici quali li abbiamo conosciuti, pur con i loro innumerevoli limiti e difetti, costituivano un filtro per alimentare riflessioni e tentare vie di risposta. Erano strumenti spesso inadeguati ma la loro scomparsa ha lasciato campo libero al trionfo degli slogan.
La prima delle due questioni riguarda la necessità di inquadrare la vicenda elettorale in sé, che cade in un momento drammatico per il Paese e – quasi dramma nel dramma – lascia intravvedere esiti a dir poco inquietanti per il futuro della stessa Argentina e per le conseguenti ricadute a livello geopolitico.
La seconda attiene a un fenomeno che ha toccato noi e tutto il mondo occidentale, ossia il progressivo affermarsi di movimenti populisti; una sorta di epidemia. In questo caso assistiamo al profilarsi di un inedito scontro tra due populismi, che tendono ad occupare tutta la scena politica.
La vicenda elettorale cade in un Paese in profonda crisi; seconda realtà del Sud America per estensione e terza per popolazione, di cultura profondamente europea, è in piena sindrome da nobile decaduto: nella prima metà del Novecento era tra le prime dieci economie del mondo, alla fine della guerra mondiale, con i proventi realizzati vendendo carne e cereali alle nazioni in guerra – si racconta – le riserve auree avevano riempito i caveau della banca centrale e i lingotti dovevano essere sistemati nei corridoi.
Oggi, con un’inflazione stimata al 116% per il 2023, è in competizione per il primato negativo con il Venezuela. Con un’attività economica in calo e un deficit della bilancia commerciale ad agosto del 2023 di un miliardo di dollari (cifra resa nota dall’INDEC, l’Istituto nazionale di statistica albiceleste, e rappresenta il settimo record negativo dell’anno) è chiaro che l’opinione pubblica è in subbuglio.
La classe politica, globalmente intesa, è ampiamente screditata e sotto accusa per un tale disastro e lo è in particolare il governo peronista-kirchnerista, gravato da palesi responsabilità. Il governo però, ha tentato di difendere la sua base di consenso elettorale, tendenzialmente rappresentata dagli strati più poveri della società, accentuando il suo carattere populista e tenendo in vita una pletora di sussidi individuali, vagamente simili al nostro reddito di cittadinanza, oltre ad assumere un posizionamento internazionale di simpatia verso il Venezuela e Cuba, con un occhio a Russia e Cina.
Il Peronismo è stato ed è un movimento variegato e con diverse anime al suo interno. Quasi tutti gli osservatori davano per scontato la probabile imminente fine del ciclo peronista dei Kirchner, espressione della sinistra interna, iniziato nel 2003 con l’elezione di Nestor Kirchner e proseguito per due mandati dalla vedova Cristina sino al 2015, interrotto per un turno dalla vittoria del deludente candidato della coalizione del centrodestra, Maurizio Macri e poi nuovamente in sella con l’attuale presidente Alberto Fernandez, già capo-gabinetto della stessa Cristina. Oltre tutto l’attuale candidato peronista è Sergio Massa, il ministro dell’Economia in carica, il che costituisce un ben modesto titolo di merito.
Ho già citato la coalizione del centrodestra che aveva fatto eleggere nel 2015 Macri; costui aveva piuttosto ben meritato come sindaco di Buenos Aires, ma si rivelò inadeguato come capo del governo (oltretutto trattato con evidente freddezza dal suo più illustre connazionale J.M. Bergoglio, a differenza di una certa simpatia palesata verso la Kirchner e i suoi). Sarà dunque la volta buona, questa volta, per i “moderati” di riprendere in mano il Paese?
La candidata scelta, Patricia Bullrich, almeno vista dall’Italia, da lontano, appare singolare: nasce da una famiglia celebre, onusta di gloria nella storia nazionale e di mezzi economici (per dire: porta il suo nome il palazzo che ospita la più elegante galleria commerciale della capitale, il Patio Bullrich). Da giovane però si manifestò come una accesa militante del peronismo di sinistra, assai vicina ai “montoneros”, come i Kirchner; poi, con diversi successivi riposizionamenti e con molta ambizione, cambiò strada, divenendo ministra di Macri ed oggi propugna una linea dura, specie in materia di ordine pubblico, assecondando una delle esigenze primarie della società argentina, angustiata dall’esplodere della microcriminalità. Una candidata giudicata forte ma indebolita dal suo passato e da una certa vaghezza nei programmi.
Ecco allora esplodere, quasi all’improvviso, il caso di Javier Milei. Un personaggio incredibile, una specie di Beppe Grillo argentino, che ricorda nello stile e nella grevità dell’eloquio. Difficilmente inquadrabile nelle nostre categorie, una sorta di anarco-radical-super liberale. Sulla stampa locale è chiamato “el libertario”. Si qualifica come un economista e ai comizi si è presentato scarmigliato, brandendo un decespugliatore, come simbolo della necessità di far piazza pulita della casta politica, propone di abolire il Banco Central (la Banca Nazionale), la dollarizzazione dell’economia con la soppressione della valuta locale, la liceità del commercio di organi, il porto libero delle armi, ecc.; il tutto condito con scatti d’ira e di insulti, verso giornalisti, avversari e anche il Papa, cui ha rivolto improperi che preferisco omettere.
Comportamenti che hanno portato l’editorialista Joaquin Morales Solá a scrivere il 3 settembre sull’autorevole “La Nation”: “la verità è che non tutti possono essere presidenti. La storia, più di ogni altra scienza sociale, insegna che i capi di Stato devono soddisfare alcuni requisiti, oltre a quelli costituzionali: devono, in effetti, mostrare temperanza e serenità, un profondo senso delle proporzioni e un comprovato controllo delle emozioni. Nella più antica democrazia del mondo, quella degli Stati Uniti, il rispetto di queste condizioni era inappellabile fino a quando Donald Trump non è salito al potere”. Milei: una specie di Beppe Grillo, dicevo, assonante però con Trump e Bolsonaro.
Una quintessenza di un altro populismo, insomma, che si contrappone a quello storico, peronista. Adesso, con le elezioni alle porte, per la verità, sta correggendo il tiro, moderando look e linguaggio, pensando di aumentare il consenso, ma col rischio di annacquare la sua forza d’urto.
Per comprender meglio la situazione occorre fornire due dati supplementari: il sistema elettorale argentino prevede (semplifico) il ballottaggio tra i due candidati più votati e che le elezioni vere e proprie debbano essere precedute da primarie. Ora queste primarie si sono tenute in agosto e i risultati hanno lasciato di stucco: Milei ha ottenuto quasi il 30% dei voti, il centrodestra circa il 28 e i peronisti il 27. Milei ha raccolto consensi da tre tipi di elettori, dai ceti più modesti, storicamente feudi peronisti, da coloro che chiedono a gran voce di rompere con lo status quo e sono abbagliati dalle sue grida, e da una parte delle nuove generazioni cieca e sorda agli argomenti delle precedenti, riluttanti a qualsiasi idea che metta in dubbio il loro carismatico leader.
I sondaggi di opinione più recenti segnalano che al ballottaggio potrebbero confrontarsi i campioni dei due populismi, lasciando da parte la “moderata” Bullrich. Un elemento di incertezza è legato al fatto che Milei e la sua neonata formazione, pur avendo raccolto un consenso diffuso nel Paese, non è rappresentato nei corpi intermedi, Comuni, Province e potrebbe risentirne il suo risultato.
In conclusione: mai l’Argentina si è trovata in una situazione di questo tipo e il Paese, pur straordinariamente ricco di risorse importanti come allevamento, produzione agricola, risorse energetiche, alta istruzione di base e sempre in procinto di decollare, forse non è ancora pronto per una reale stabilizzazione politico-economica, riprendendo anche il ruolo che gli compete in America Latina.
Anche se non costituisce il focus di questo articolo, non posso esimermi da un’ultima osservazione, proprio sul populismo, che vediamo prosperare rigogliosamente non solo presso i nostri cugini d’oltre oceano ma anche in Europa e negli Stati Uniti. Il populismo è il grande imbroglio, è l’illusione della ricerca di facili soluzioni a problemi reali e complessi. Il rifiuto della complessità e lo scatenamento dell’emotività sono alimentati da un sistema di comunicazione mai così efficace e pervasivo. Quanto più segmenti della società si sentono in difficoltà tanto più è agevole incanalarne lo scontento e la rabbia verso bersagli enfatizzati ad hoc e verso apprendisti stregoni che si proclamano portatori di soluzioni. Purtroppo i partiti politici quali li abbiamo conosciuti, pur con i loro innumerevoli limiti e difetti, costituivano un filtro per alimentare riflessioni e tentare vie di risposta. Erano strumenti spesso inadeguati ma la loro scomparsa ha lasciato campo libero al trionfo degli slogan.
Ringrazio l’amico Franco Campia per l’ampio quadro dell’attuale momento argentino alla vigilia di una importante scadenza elettorale. I nostri media in genere ci informano poco di quanto avviene nell’America latina, in paesi, come l’Argentina e il Brasile, verso cui, a fine Ottocento e primo Novecento, è stata direzionata gran parte dell’immigrazione del nord Italia. In particolare i piemontesi sceglievano l’Argentina come terra di immigrazione, e siamo in molti ad avere parenti in questa terra dove la lingua piemontese è ancora viva.
Spero che questo articolo sia il primo di una serie con cui Franco Campia ci terrà informati circa i fatti di questa parte del mondo che conosce bene.
Mi complimento con Franco Campia e mi associo all’auspicio di Giuseppe Ladetto.
Anche questi nostri conversari sono il segnale di una multipolarità non più contrastabile
Il quadro assai interessante tracciato da Franco Campia sulle prossime elezioni argentine ci dice dei limiti ma anche della creatività della politica di fronte ai cambiamenti in corso.
Quest’anno l’Argentina ha compiuto un salto di qualità sullo scacchiere globale, essendo stata accolta nel Coordinamento BRICS. Sarà interessante vedere anche che influsso avrà l’esito delle elezioni di domenica prossima sul prosieguo dell’iter di adesione argentina alla suddetta iniziativa, e in particolare se si riprodurrà una situazione simile a quella del vicino Brasile, dove l’alternanza tra Bolsonaro e Lula non ha mai messo in discussione la permanenza del Brasile nei BRICS.
In ogni caso vi è la necessità di rafforzare i nostri già forti legami con l’Argentina per costruire ponti in una fase in cui il rischio dell’arroccamento per l’Occidente appare tutt’altro che remoto.