L’inizio del nuovo anno scolastico impone una coraggiosa riflessione sull’introduzione delle nuove tecnologie che negli ultimi anni, in parte complice la DaD, hanno modificato in modo incisivo la didattica – intesa come applicazione delle metodologie di insegnamento/apprendimento e dei loro contenuti – fino allo stesso concetto di formazione, delle finalità educative, e dei modi di espletamento di questo fondamentale pubblico servizio.
Ciò non ha riguardato solo gli alunni ma ha comportato una profonda e radicale trasformazione delle competenze richieste ai docenti, poiché l’uso massivo dell’informatica e la digitalizzazione pervasiva hanno di fatto imposto loro il possesso di requisiti aggiornati e di una professionalità innervata nel volano dell’innovazione.
La vecchia metafora di Elio Damiano della società-lepre che fugge e della scuola-tartaruga che la insegue non è più accreditabile e non corrisponde al vero: nel 2024 celebreremo i 50 anni di vita dei cosiddetti “decreti delegati” e lo faremo immersi in una realtà organizzativa e funzionale sideralmente lontana da quella riforma di cui resta – è pur vero — l’impianto di fondo anche se l’introduzione dell’autonomia scolastica ha configurato un quadro d’insieme parcellizzato, difforme, a volte persino sfuggente rispetto all’esigenza inderogabile di conservare l’unitarietà del sistema scolastico nazionale.
Temi come il diritto allo studio, l’uguaglianza delle opportunità educative, la didattica compensativa delle diversità, l’integrazione, la stessa libertà d’insegnamento che illuminavano quegli anni di una luce nuova e li caratterizzavano di motivazioni forti, hanno subito l’inevitabile scorrere del tempo e l’inquadramento in un assetto istituzionale diverso dove spesso l’autonomia si è tradotta in un rafforzamento della funzione dirigenziale a capo di monadi scolastiche fortemente differenziate tra loro e sovente ad impianto strutturato in modo verticistico. Entrando in una scuola oggi, da quella dell’infanzia alle superiori, si osserva un ambiente educativo nettamente diverso a cominciare dai linguaggi circolanti dove si colgono neologismi, anglicismi e acronimi in continua elaborazione: i corsi di formazione dei docenti previsti dal PNRR sono in maggioranza online e la sovrabbondanza dei modelli della cultura anglosassone risultano persino prevalenti rispetto alla tradizione del nostro sistema scolastico, in linguaggi, metodi e contenuti.
Taluni in modo persino imbarazzante poiché mutuano metodologie didattiche che sono già state ampiamente messe in discussione nei Paesi d’origine. Se la pedagogia comparativa fosse materia obbligatoria di aggiornamento professionale per gli addetti ai lavori si scoprirebbe che i sistemi scolastici accentrati muovono sperimentalmente verso il decentramento mentre quelli decentrati vanno nella direzione opposta: quella di un common core, un curricolo scolastico comune a livello nazionale per superare il fallimento didattico e organizzativo delle scuole gestite dalle autorità locali.
Gli anglicismi circolanti nelle nostre scuole, insieme agli acronimi, alle sigle, alle parole magiche e ai progetti effimeri senza verifiche rappresentano l’acritica adesione verso derive di omologazione superate dall’esperienza applicata alle circostanze. Senza contare l’ossessione – una vera patologia che si vanifica nelle procedure senza produrre risultati – della didattica e della formazione online: tutto deve passare attraverso la connessione ad internet (nel momento in cui la stessa Google sperimenta per i propri dipendenti l’uso di PC disconnessi, solo per scrivere testi). Dalla formazione dei docenti viene gradatamente espunta la lezione in presenza, con un relatore di livello a cui porre domande pratiche (anziché rispondere solo a test preconfezionati), molti dirigenti scolastici comunicano solo attraverso circolari (se ne contano oltre 300 l’anno – più del Ministero), alle riunioni via Zoom senza interlocuzione, al registro elettronico utile nelle superiori (anche per l’accesso ai voti da parte delle famiglie) ma inutile e complicato nella scuola d’infanzia e primaria: succede così che nella scuola – il posto di lavoro che secondo il pedagogista Cesare Scurati “realizza relazioni umane” – la gente non si parla più de visu, solo contatti domanda-risposta come succedeva al cane di Pavlov.
Gli alunni leggono poco e scrivono ancora meno, troppa fatica. In Finlandia da tempo è stato abolito l’uso del corsivo e si scrive solo usando i tablet: vediamo di non cadere nello stesso errore. La scuola dovrebbe essere il luogo dell’incontro e della socializzazione, dello stare insieme: ripeto – e mi scuso — la metafora del professor Lombardi Vallauri che paragona la classe a un’astronave degli assorti, intenti ad imparare sotto la guida maieutica e istruttiva di un insegnante.
A poco a poco il nostro sistema scolastico prende le distanze dalla tradizione e dimentica la cultura letteraria, artistica, musicale, scientifica che ci ha resi famosi nel mondo. Parlare solo in italiano è arcaico, leggere un libro una cosa fuori dal tempo, studiare storia e geografia una perdita di tempo, usare un quaderno e una penna per scrivere una roba da lista della spesa. Ci avviamo verso un nuovo analfabetismo culturale, semantico e sintattico, persino grammaticale e ortografico, disdegnando la conoscenza acquisita attraverso lo studio dei classici: per i numeri ci sono le calcolatrici, al posto della creatività subentrano gli algoritmi. E dunque la scuola che dovrebbe coltivare la bellezza e i buoni sentimenti finisce per essere un archivio docimologico di cui tener conto per promuovere o bocciare. Come concludere dunque questo cahiers de doléances, che menziona delusioni e disappunti raccolti specialmente tra gli insegnanti?
Con le parole del Ministro dell’Istruzione e del Merito, Giuseppe Valditara, pronunciate al Convegno “Scuola digitale: il valore imprescindibile di carta e penna” organizzato il 18 luglio scorso dalla Fondazione Einaudi. “La rete non può né deve spazzare via la carta e la penna perché lettura su carta e scrittura a mano sono insostituibili. L’apprendimento attraverso i libri non è rimovibile dal sistema dell’istruzione (…). Il digitale non è rinunciabile ma va governato: alla logica dell’aut-aut preferisco la logica dell’et-et, valorizzare al massimo entrambe le opportunità”. E l’invito a riflettere su questi temi che sta nell’incipit del mio scritto non potrebbe trovare sostenitore più autorevole poiché il Ministro rappresenta l’unitarietà del sistema scolastico nazionale e gli compete per questo una linea di indirizzo. Speriamo che venga raccolto da coloro che disdegnano i libri come strumento di formazione culturale e magari li manderebbero al rogo per far posto al coding digitale.
(Tratto da www.ildomaniditalia.eu)
Ciò non ha riguardato solo gli alunni ma ha comportato una profonda e radicale trasformazione delle competenze richieste ai docenti, poiché l’uso massivo dell’informatica e la digitalizzazione pervasiva hanno di fatto imposto loro il possesso di requisiti aggiornati e di una professionalità innervata nel volano dell’innovazione.
La vecchia metafora di Elio Damiano della società-lepre che fugge e della scuola-tartaruga che la insegue non è più accreditabile e non corrisponde al vero: nel 2024 celebreremo i 50 anni di vita dei cosiddetti “decreti delegati” e lo faremo immersi in una realtà organizzativa e funzionale sideralmente lontana da quella riforma di cui resta – è pur vero — l’impianto di fondo anche se l’introduzione dell’autonomia scolastica ha configurato un quadro d’insieme parcellizzato, difforme, a volte persino sfuggente rispetto all’esigenza inderogabile di conservare l’unitarietà del sistema scolastico nazionale.
Temi come il diritto allo studio, l’uguaglianza delle opportunità educative, la didattica compensativa delle diversità, l’integrazione, la stessa libertà d’insegnamento che illuminavano quegli anni di una luce nuova e li caratterizzavano di motivazioni forti, hanno subito l’inevitabile scorrere del tempo e l’inquadramento in un assetto istituzionale diverso dove spesso l’autonomia si è tradotta in un rafforzamento della funzione dirigenziale a capo di monadi scolastiche fortemente differenziate tra loro e sovente ad impianto strutturato in modo verticistico. Entrando in una scuola oggi, da quella dell’infanzia alle superiori, si osserva un ambiente educativo nettamente diverso a cominciare dai linguaggi circolanti dove si colgono neologismi, anglicismi e acronimi in continua elaborazione: i corsi di formazione dei docenti previsti dal PNRR sono in maggioranza online e la sovrabbondanza dei modelli della cultura anglosassone risultano persino prevalenti rispetto alla tradizione del nostro sistema scolastico, in linguaggi, metodi e contenuti.
Taluni in modo persino imbarazzante poiché mutuano metodologie didattiche che sono già state ampiamente messe in discussione nei Paesi d’origine. Se la pedagogia comparativa fosse materia obbligatoria di aggiornamento professionale per gli addetti ai lavori si scoprirebbe che i sistemi scolastici accentrati muovono sperimentalmente verso il decentramento mentre quelli decentrati vanno nella direzione opposta: quella di un common core, un curricolo scolastico comune a livello nazionale per superare il fallimento didattico e organizzativo delle scuole gestite dalle autorità locali.
Gli anglicismi circolanti nelle nostre scuole, insieme agli acronimi, alle sigle, alle parole magiche e ai progetti effimeri senza verifiche rappresentano l’acritica adesione verso derive di omologazione superate dall’esperienza applicata alle circostanze. Senza contare l’ossessione – una vera patologia che si vanifica nelle procedure senza produrre risultati – della didattica e della formazione online: tutto deve passare attraverso la connessione ad internet (nel momento in cui la stessa Google sperimenta per i propri dipendenti l’uso di PC disconnessi, solo per scrivere testi). Dalla formazione dei docenti viene gradatamente espunta la lezione in presenza, con un relatore di livello a cui porre domande pratiche (anziché rispondere solo a test preconfezionati), molti dirigenti scolastici comunicano solo attraverso circolari (se ne contano oltre 300 l’anno – più del Ministero), alle riunioni via Zoom senza interlocuzione, al registro elettronico utile nelle superiori (anche per l’accesso ai voti da parte delle famiglie) ma inutile e complicato nella scuola d’infanzia e primaria: succede così che nella scuola – il posto di lavoro che secondo il pedagogista Cesare Scurati “realizza relazioni umane” – la gente non si parla più de visu, solo contatti domanda-risposta come succedeva al cane di Pavlov.
Gli alunni leggono poco e scrivono ancora meno, troppa fatica. In Finlandia da tempo è stato abolito l’uso del corsivo e si scrive solo usando i tablet: vediamo di non cadere nello stesso errore. La scuola dovrebbe essere il luogo dell’incontro e della socializzazione, dello stare insieme: ripeto – e mi scuso — la metafora del professor Lombardi Vallauri che paragona la classe a un’astronave degli assorti, intenti ad imparare sotto la guida maieutica e istruttiva di un insegnante.
A poco a poco il nostro sistema scolastico prende le distanze dalla tradizione e dimentica la cultura letteraria, artistica, musicale, scientifica che ci ha resi famosi nel mondo. Parlare solo in italiano è arcaico, leggere un libro una cosa fuori dal tempo, studiare storia e geografia una perdita di tempo, usare un quaderno e una penna per scrivere una roba da lista della spesa. Ci avviamo verso un nuovo analfabetismo culturale, semantico e sintattico, persino grammaticale e ortografico, disdegnando la conoscenza acquisita attraverso lo studio dei classici: per i numeri ci sono le calcolatrici, al posto della creatività subentrano gli algoritmi. E dunque la scuola che dovrebbe coltivare la bellezza e i buoni sentimenti finisce per essere un archivio docimologico di cui tener conto per promuovere o bocciare. Come concludere dunque questo cahiers de doléances, che menziona delusioni e disappunti raccolti specialmente tra gli insegnanti?
Con le parole del Ministro dell’Istruzione e del Merito, Giuseppe Valditara, pronunciate al Convegno “Scuola digitale: il valore imprescindibile di carta e penna” organizzato il 18 luglio scorso dalla Fondazione Einaudi. “La rete non può né deve spazzare via la carta e la penna perché lettura su carta e scrittura a mano sono insostituibili. L’apprendimento attraverso i libri non è rimovibile dal sistema dell’istruzione (…). Il digitale non è rinunciabile ma va governato: alla logica dell’aut-aut preferisco la logica dell’et-et, valorizzare al massimo entrambe le opportunità”. E l’invito a riflettere su questi temi che sta nell’incipit del mio scritto non potrebbe trovare sostenitore più autorevole poiché il Ministro rappresenta l’unitarietà del sistema scolastico nazionale e gli compete per questo una linea di indirizzo. Speriamo che venga raccolto da coloro che disdegnano i libri come strumento di formazione culturale e magari li manderebbero al rogo per far posto al coding digitale.
(Tratto da www.ildomaniditalia.eu)
Da preside in pensione temo che per il sistema scolastico le tante riforme introdotte abbiano peggiorato gli esiti formativi. Il pachiderma è bloccato dalla forza corporativa dei sindacati di settore. Basti pensare al 3 per 2 alle elementari con alunni di prima che fanno educazione fisica dalle 8 alle 10 e matematica nelle ultime ore. Follie.