Il fatto che la CIA – e con lei il segretario di Stato americano Anthony Blinken – si siano premurati di affermare di aver saputo con qualche giorno di anticipo ciò che è poi effettivamente accaduto nella Federazione russa in quest’ ultimo convulso weekend ha rassicurato molti Paesi occidentali. Eppure non riesce a cancellare l’impressione che si tratti di una vicenda in cui abbiano prevalso le ripicche personali, l’improvvisazione, e una allarmante dose di incoscienza.
Era da mesi che gli osservatori seguivano con stupore e con allarme la sempre più ampia delega ad organizzazioni militari private di essenziali funzioni di sicurezza da parte delle autorità della Federazione russa. E ciò chiaramente allo scopo di far pagare il costo umano della guerra soprattutto agli sbandati e agli sradicati che finiscono nelle “legioni straniere” e nelle aziende di “contractors”. E quindi cercando di coinvolgere direttamente il meno possibile nella guerra la società e l’opinione pubblica russa.
Il modello della guerra americana in Irak, in cui il numero dei mercenari – circa 120.000 – era più o meno pari a quello delle truppe regolari, appare, nel caso della “operazione speciale” condotta dalla Federazione russa in Ucraina, fortemente alterato, e non solo in termini quantitativi. Quel che lascia perplessi è soprattutto l’evidente stravolgimento che si può notare anche – e ciò era e rimane molto più grave – in termini di delicatezza e di rilievo politico delle missioni a questi affidate.
Meno imprevedibile di quanto non siano di norma gli eventi politico-militari, appare perciò in questo anomalo quadro il fatto che, nel mezzo di una guerra da cui possono discendere conseguenze terrificanti a livello planetario, Prigorgin e i suoi mercenari abbiano, sabato scorso, pensato di inscenare una “marcia su Mosca”. Una manifestazione che sembra avere causato almeno una dozzina di morti ma che – come ha ben detto Edward Luttwak, in una rarissima e breve intervista su una rete televisiva italiana – ha avuto il carattere di una “manifestazione sindacale”.
Una “manifestazione sindacale” che pare abbia portato a qualche soddisfazione per le truppe mercenarie. Ma che dopo molte parole roventi e molte altisonanti dichiarazioni di principio è finita – almeno per il momento – in un vero e proprio pateracchio. Un accordo che porta tre risultati: pone termine al dramma, offre una via di fuga a Prigorgin, e a Putin un modo per salvare almeno formalmente il proprio ruolo supremo; un ruolo che poche ore prima appariva drammaticamente a rischio. Ma che viene salvato non senza una brutale perdita di credibilità e di prestigio.
Un pateracchio, insomma. Ma un pateracchio – però – in cui i due protagonisti silenziosi di tutta la vicenda sembrano aver ottenuto un non trascurabile successo. Non è da solo da ieri infatti che il Ministro della difesa Shoigu e capo delle Forze Armate, il Generale Gerassimov tentavano di riportare sotto il controllo delle autorità dello Stato le bande di mercenari di cui il gruppo Wagner è solo l’esempio più vistoso.
L’innegabile sconfitta e la perdita di prestigio subita da Putin come conseguenza di questo drammatico fine settimana non si limita tuttavia solo al fatto che, dopo essere stato apertamente sfidato nella sua autorità e dopo minacciato punizioni esemplari, ha dovuto accontentarsi di un mediocre compromesso. Un compromesso, per di più, di cui non si conoscono ancora gli aspetti concreti (cioè quanti miliziani della Wagner saranno effettivamente reinquadrati nell’esercito regolare, e in che misura Prigorgin continuerà ad avere un ruolo autonomo).
È tutta la politica militare di Putin che appare messa in difficoltà; cioè la sua scelta di mantenere – in contraddizione con tutte le sue dichiarazioni di voler restaurare la verticale del potere nella società russa sconvolta trent’anni fa dall’aggressione degli oligarchi – le forze armate divise in entità e feudalità militari diverse e in qualche misura rivali. E ciò al fine di rendere improbabile che esse – le forze armate, se razionalmente costituite in una struttura unitaria – possono finire per usurpare, grazie alla loro forza, le funzioni che a lui propriamente e costituzionalmente spettano.
Una questione aperta, e non di poco conto.
Un cattivo segnale, sotto questo profilo, è venuto dagli eventi giorni scorsi. Solo una minoranza di queste feudalità militari ha dimostrato infatti di essere pronta a combattere contro i mercenari della Wagner. E solo il leader ceceno si è speso in una aperta manifestazione di fedeltà.
Un’altra incognita si è inoltre aperta sulla politica militare di Putin, un’incognita che il fatto che il destino di Prigorgin sia ancora ignoto rende ancora più inquietante. La maggior parte dei successi ottenuti all’estero dalla politica russa negli ultimi anni, consiste nel fatto che Mosca è stata accettata da molti Paesi africani come forza di garanzia in funzione anti-neocoloniale, principalmente a spese della Francia, che per oltre cinquant’anni è invece riuscita a mantenere nella propria zona d’ombra la maggior parte dei Paesi cui la costituzione gollista del 1958 aveva progressivamente concesso la possibilità di rendersi indipendenti.
In questi Paesi, sono però proprio gli uomini della gruppo Wagner a rendere concrete le garanzie offerte da Mosca. E quindi – almeno fino a quando non saranno chiari il destino e la possibilità di azione di Prigorgin – si potrà chiedere se un nuovo capitolo non stia incominciare su un altro fronte, quello africano. E, per quello che riguarda l’Italia e suoi problemi migratori, in particolare su quello libico.
(Tratto da www.politicainsieme.com)
Era da mesi che gli osservatori seguivano con stupore e con allarme la sempre più ampia delega ad organizzazioni militari private di essenziali funzioni di sicurezza da parte delle autorità della Federazione russa. E ciò chiaramente allo scopo di far pagare il costo umano della guerra soprattutto agli sbandati e agli sradicati che finiscono nelle “legioni straniere” e nelle aziende di “contractors”. E quindi cercando di coinvolgere direttamente il meno possibile nella guerra la società e l’opinione pubblica russa.
Il modello della guerra americana in Irak, in cui il numero dei mercenari – circa 120.000 – era più o meno pari a quello delle truppe regolari, appare, nel caso della “operazione speciale” condotta dalla Federazione russa in Ucraina, fortemente alterato, e non solo in termini quantitativi. Quel che lascia perplessi è soprattutto l’evidente stravolgimento che si può notare anche – e ciò era e rimane molto più grave – in termini di delicatezza e di rilievo politico delle missioni a questi affidate.
Meno imprevedibile di quanto non siano di norma gli eventi politico-militari, appare perciò in questo anomalo quadro il fatto che, nel mezzo di una guerra da cui possono discendere conseguenze terrificanti a livello planetario, Prigorgin e i suoi mercenari abbiano, sabato scorso, pensato di inscenare una “marcia su Mosca”. Una manifestazione che sembra avere causato almeno una dozzina di morti ma che – come ha ben detto Edward Luttwak, in una rarissima e breve intervista su una rete televisiva italiana – ha avuto il carattere di una “manifestazione sindacale”.
Una “manifestazione sindacale” che pare abbia portato a qualche soddisfazione per le truppe mercenarie. Ma che dopo molte parole roventi e molte altisonanti dichiarazioni di principio è finita – almeno per il momento – in un vero e proprio pateracchio. Un accordo che porta tre risultati: pone termine al dramma, offre una via di fuga a Prigorgin, e a Putin un modo per salvare almeno formalmente il proprio ruolo supremo; un ruolo che poche ore prima appariva drammaticamente a rischio. Ma che viene salvato non senza una brutale perdita di credibilità e di prestigio.
Un pateracchio, insomma. Ma un pateracchio – però – in cui i due protagonisti silenziosi di tutta la vicenda sembrano aver ottenuto un non trascurabile successo. Non è da solo da ieri infatti che il Ministro della difesa Shoigu e capo delle Forze Armate, il Generale Gerassimov tentavano di riportare sotto il controllo delle autorità dello Stato le bande di mercenari di cui il gruppo Wagner è solo l’esempio più vistoso.
L’innegabile sconfitta e la perdita di prestigio subita da Putin come conseguenza di questo drammatico fine settimana non si limita tuttavia solo al fatto che, dopo essere stato apertamente sfidato nella sua autorità e dopo minacciato punizioni esemplari, ha dovuto accontentarsi di un mediocre compromesso. Un compromesso, per di più, di cui non si conoscono ancora gli aspetti concreti (cioè quanti miliziani della Wagner saranno effettivamente reinquadrati nell’esercito regolare, e in che misura Prigorgin continuerà ad avere un ruolo autonomo).
È tutta la politica militare di Putin che appare messa in difficoltà; cioè la sua scelta di mantenere – in contraddizione con tutte le sue dichiarazioni di voler restaurare la verticale del potere nella società russa sconvolta trent’anni fa dall’aggressione degli oligarchi – le forze armate divise in entità e feudalità militari diverse e in qualche misura rivali. E ciò al fine di rendere improbabile che esse – le forze armate, se razionalmente costituite in una struttura unitaria – possono finire per usurpare, grazie alla loro forza, le funzioni che a lui propriamente e costituzionalmente spettano.
Una questione aperta, e non di poco conto.
Un cattivo segnale, sotto questo profilo, è venuto dagli eventi giorni scorsi. Solo una minoranza di queste feudalità militari ha dimostrato infatti di essere pronta a combattere contro i mercenari della Wagner. E solo il leader ceceno si è speso in una aperta manifestazione di fedeltà.
Un’altra incognita si è inoltre aperta sulla politica militare di Putin, un’incognita che il fatto che il destino di Prigorgin sia ancora ignoto rende ancora più inquietante. La maggior parte dei successi ottenuti all’estero dalla politica russa negli ultimi anni, consiste nel fatto che Mosca è stata accettata da molti Paesi africani come forza di garanzia in funzione anti-neocoloniale, principalmente a spese della Francia, che per oltre cinquant’anni è invece riuscita a mantenere nella propria zona d’ombra la maggior parte dei Paesi cui la costituzione gollista del 1958 aveva progressivamente concesso la possibilità di rendersi indipendenti.
In questi Paesi, sono però proprio gli uomini della gruppo Wagner a rendere concrete le garanzie offerte da Mosca. E quindi – almeno fino a quando non saranno chiari il destino e la possibilità di azione di Prigorgin – si potrà chiedere se un nuovo capitolo non stia incominciare su un altro fronte, quello africano. E, per quello che riguarda l’Italia e suoi problemi migratori, in particolare su quello libico.
(Tratto da www.politicainsieme.com)
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