
Una vittoria della legalità, dello Stato, dell'intera comunità nazionale: questo il senso della cattura di Matteo Messina Denaro. Un successo nel nome di tutti coloro - come Giovanni Falcone e Paolo Borsellino e gli agenti delle loro scorte – che sono caduti per mano della mafia.
Dopo questo arresto eccellente sono però molte le cose che restano da chiarire. Evidenti, e per certi versi incredibili, i legami e gli intrecci che hanno favorito la sua latitanza. Complicità durate non pochi mesi o qualche anno ma ben tre decenni: un lasso di tempo talmente lungo di cui all'estero nessuno riesce a capacitarsi. Più che mai è necessario far luce su tutta quella serie di rapporti tra la criminalità vera e propria e quegli spezzoni sociali ad essa contigui che prosperano nell'acqua sporca dell'illegalità. Il lavoro di investigazione, appena all'inizio, va dunque proseguito senza indugi.
A questo proposito bene ha fatto la presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, ad indicare nelle intercettazioni lo strumento decisivo che ha permesso la cattura di Messina Denaro. Non già – come ha affermato con un certo sprezzo del ridicolo il ministro della Giustizia, Carlo Nordio – perché i mafiosi confessino i propri misfatti esplicitamente via telefono, quanto perché proprio grazie all'ampio reticolo di ascolti ambientali nel vasto universo in qualche maniera a lui prossimo, si è giunti a scoprire della sua grave malattia e a stringere lentamente le maglie che hanno finalmente permesso di portarlo dietro le sbarre.
Eppure Nordio intende depotenziare le intercettazioni in nome di un garantismo che proprio non ci convince. Certo, vanno evitati gli eccessi mediatici. Gli abusi sono sempre possibili e probabilmente non sono mancati, ma è impensabile che, come si dice, insieme all'acqua sporca si getti via anche il bambino. Si puniscano quindi le deviazioni e si intervenga sulle fughe di notizia ma non si stravolga l'intero corpo della norma. Anche perché non è affatto vero che in materia regni l'arbitrio più assoluto.
Le regole attuali - peraltro grosso modo in linea con quelle di altri Paesi europei, come Francia, Germania o Spagna (nazioni che comunque per loro fortuna non conoscono fenomeni criminali tanto pervasivi come mafia o ndrangheta) - prevedono che le intercettazioni siano disposte dai procuratori della Repubblica previa autorizzazione dei giudici per le indagini preliminari, per un periodo di quindici giorni, rinnovabili con una nuova richiesta, e possano essere effettuate solo per reati gravi, con pene superiori a cinque anni. Per questo nel famoso decreto sui rave party, ritenendo utile intercettare gli organizzatori, la pena è stata fissata a sei anni.
Oltretutto, dopo le modifiche intervenute nel 2020, il pm è chiamato a separare le intercettazioni utili da quelle superflue: solo le prime entrano in gioco nel processo, mentre le altre finiscono in un archivio informatico senza possibilità di farne copia. Le garanzie insomma ci sono e non basta dire che contro la mafia e il terrorismo sarà sempre possibile impiegare questo prezioso strumento. Il punto non è questo e proprio un ex magistrato come Nordio dovrebbe saperlo.
Quello che realmente conta è poter intercettare quanto si muove attorno alla corruzione, alle frodi fiscali, agli appalti truccati. “Reati spia”, così vengono definiti nel gergo giudiziario, dietro ai quali quasi sempre si nasconde la rete della criminalità organizzata e che, se perseguiti con efficacia, consentono agli investigatori di scoperchiare tali circuiti.
La volontà di una stretta sulle intercettazioni, indebolendo quindi l'apparato investigativo, vede in prima fila la Lega e soprattutto Forza Italia. Ad evitare lo smantellamento di un assetto che ha fornito buoni risultati non solo in quest'occasione, non resta che appellarsi al tradizionale approccio “legge ed ordine” di Fratelli d'Italia, considerato che la Meloni sembra determinata a tenere alta la bandiera della legalità. Il guaio è che la riduzione del perimetro degli ascolti sembra ammaliare anche Azione-Italia viva che potrebbe correre in soccorso della maggioranza. Una sirena cui rischia di non rimanere immune parte del Pd.
Del resto di che stupirsi? Stiamo parlando di un genere di illeciti per lo più commessi dai cosiddetti “colletti bianchi”: tipici reati di quei segmenti sociali che spesso popolano un certo sottobosco politico, economico e finanziario. Non a caso, quindi, la nostra classe dirigente dà prova di un garantismo del tutto sconosciuto in altre situazioni.
Dopo questo arresto eccellente sono però molte le cose che restano da chiarire. Evidenti, e per certi versi incredibili, i legami e gli intrecci che hanno favorito la sua latitanza. Complicità durate non pochi mesi o qualche anno ma ben tre decenni: un lasso di tempo talmente lungo di cui all'estero nessuno riesce a capacitarsi. Più che mai è necessario far luce su tutta quella serie di rapporti tra la criminalità vera e propria e quegli spezzoni sociali ad essa contigui che prosperano nell'acqua sporca dell'illegalità. Il lavoro di investigazione, appena all'inizio, va dunque proseguito senza indugi.
A questo proposito bene ha fatto la presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, ad indicare nelle intercettazioni lo strumento decisivo che ha permesso la cattura di Messina Denaro. Non già – come ha affermato con un certo sprezzo del ridicolo il ministro della Giustizia, Carlo Nordio – perché i mafiosi confessino i propri misfatti esplicitamente via telefono, quanto perché proprio grazie all'ampio reticolo di ascolti ambientali nel vasto universo in qualche maniera a lui prossimo, si è giunti a scoprire della sua grave malattia e a stringere lentamente le maglie che hanno finalmente permesso di portarlo dietro le sbarre.
Eppure Nordio intende depotenziare le intercettazioni in nome di un garantismo che proprio non ci convince. Certo, vanno evitati gli eccessi mediatici. Gli abusi sono sempre possibili e probabilmente non sono mancati, ma è impensabile che, come si dice, insieme all'acqua sporca si getti via anche il bambino. Si puniscano quindi le deviazioni e si intervenga sulle fughe di notizia ma non si stravolga l'intero corpo della norma. Anche perché non è affatto vero che in materia regni l'arbitrio più assoluto.
Le regole attuali - peraltro grosso modo in linea con quelle di altri Paesi europei, come Francia, Germania o Spagna (nazioni che comunque per loro fortuna non conoscono fenomeni criminali tanto pervasivi come mafia o ndrangheta) - prevedono che le intercettazioni siano disposte dai procuratori della Repubblica previa autorizzazione dei giudici per le indagini preliminari, per un periodo di quindici giorni, rinnovabili con una nuova richiesta, e possano essere effettuate solo per reati gravi, con pene superiori a cinque anni. Per questo nel famoso decreto sui rave party, ritenendo utile intercettare gli organizzatori, la pena è stata fissata a sei anni.
Oltretutto, dopo le modifiche intervenute nel 2020, il pm è chiamato a separare le intercettazioni utili da quelle superflue: solo le prime entrano in gioco nel processo, mentre le altre finiscono in un archivio informatico senza possibilità di farne copia. Le garanzie insomma ci sono e non basta dire che contro la mafia e il terrorismo sarà sempre possibile impiegare questo prezioso strumento. Il punto non è questo e proprio un ex magistrato come Nordio dovrebbe saperlo.
Quello che realmente conta è poter intercettare quanto si muove attorno alla corruzione, alle frodi fiscali, agli appalti truccati. “Reati spia”, così vengono definiti nel gergo giudiziario, dietro ai quali quasi sempre si nasconde la rete della criminalità organizzata e che, se perseguiti con efficacia, consentono agli investigatori di scoperchiare tali circuiti.
La volontà di una stretta sulle intercettazioni, indebolendo quindi l'apparato investigativo, vede in prima fila la Lega e soprattutto Forza Italia. Ad evitare lo smantellamento di un assetto che ha fornito buoni risultati non solo in quest'occasione, non resta che appellarsi al tradizionale approccio “legge ed ordine” di Fratelli d'Italia, considerato che la Meloni sembra determinata a tenere alta la bandiera della legalità. Il guaio è che la riduzione del perimetro degli ascolti sembra ammaliare anche Azione-Italia viva che potrebbe correre in soccorso della maggioranza. Una sirena cui rischia di non rimanere immune parte del Pd.
Del resto di che stupirsi? Stiamo parlando di un genere di illeciti per lo più commessi dai cosiddetti “colletti bianchi”: tipici reati di quei segmenti sociali che spesso popolano un certo sottobosco politico, economico e finanziario. Non a caso, quindi, la nostra classe dirigente dà prova di un garantismo del tutto sconosciuto in altre situazioni.
Ho l’impressione che la crociata contro Nordio sul tema delle intercettazioni, intrapresa da varie parti politiche e da importati componenti della magistratura, sia solo un episodio della guerra per sbarrargli la strada verso la necessaria riforma della giustizia. Ho sentito, in un intervento di un parlamentare dell’opposizione, citare i nomi di Falcone e Borsellino come campioni di quella magistratura a cui Nordio vorrebbe legare le mani.
Invito a leggere il bel libro di Giuseppe Ayala (che fu pubblico ministero nel maxi-processo che portò alla condanna dei vertici della mafia) intitolato “Chi ha paura muore ogni giorno” in cui presenta il fondamentale contributo di Falcone e Borsellino nella lotta alla mafia riportando anche le idee di Falcone su una riforma della giustizia ritenuta indifferibile. Per questa sua posizione, Falcone venne ostacolato e combattuto da quella consistente parte della magistratura che rifiutava ogni cambiamento.
Ricordo che, nei giorni successivi alla morte di Falcone, Borsellino denunciò pubblicamente e con grande pathos “quei giuda” che, con le loro trame sotterranee, avevano impedito a quel grande magistrato di raggiungere obiettivi indispensabili per il funzionamento della giustizia e per la stessa lotta alla mafia.
Quali erano le riforme auspicate da Falcone? Le enumera Ayala: la separazione delle carriere fra magistrati giudicanti e pubblici ministeri (o inquirenti) essendo l’unicità delle carriere estranea a tutti gli ordinamenti dei principali Paesi occidentali; l’abolizione dell’obbligatorietà dell’azione penale causa di insopportabile lentezza della macchina giudiziaria e impossibile da osservare; superare i tre gradi di giudizio (ignoti ad altri ordinamenti) il cui principale effetto è allontanare oltre il limite della ragionevolezza il momento della sentenza. Senza superare questi tabù, nessuna seria riforma era ritenuta possibile.
Falcone, inoltre, lamentava che l’Italia fosse il solo Paese a non disporre di una politica contro la criminalità, che non può essere lasciata alle iniziative dei capi uffici o peggio dei singoli magistrati senza alcuna possibilità istituzionale di intervento, essendo il ministro della giustizia privo di ogni potere tanto che il suo ministero, allo stato delle cose, era da lui ritenuto del tutto inutile.
Come si vede, sono nella sostanza i punti alla base della riforma progettata da Nordio, che gli scatena contro tutti i difensori dello status quo.
Quanto alle intercettazioni, sottoscrivo le considerazioni fatte da Giovanni Flick (già guardasigilli nel governo Prodi e successivamente presidente della Corte Costituzionale) in un’intervista rilasciata in occasione della presentazione di un libro scritto con la figlia Caterina.
Per Flick, bisogna distinguere due aspetti relativi alle intercettazioni. La loro diffusione, che è del tutto inammissibile. Il loro uso nelle indagini, che va ben regolato. Allo scopo, occorre cercare un equilibrio fra due contrastanti esigenze: combattere i reati e tutelare la riservatezza delle comunicazioni tra le persone. Il punto di equilibrio si realizza correlando l’estensione delle intercettazioni alla gravità dei reati da combattere. C’è, secondo lui, un secondo aspetto da considerare: le intercettazioni sono un mezzo utile per indirizzare l’investigatore nella ricerca delle prove, ma non sono prove di per se stesse. Un processo costruito sulle sole intercettazioni è fallimentare. Inoltre, le autorizzazioni delle intercettazione devono porre ad esse dei precisi confini. Queste, infatti, non possono essere usate per quella pesca a strascico a cui molte volte abbiamo assistito.
L’arresto di Matteo Messina Denaro ha rinfocolato il dibattito sulle intercettazioni telefoniche, acceso dalla proposta del ministro Umberto Nordio di delimitarne il campo di utilizzo ai fini delle indagini dei magistrati inquirenti.
Nelle discussioni sulla liceità e opportunità delle intercettazioni è emerso, in modo chiaro ed inequivocabile, che il legislatore ha già predisposto specifiche norme per regolamentarne l’uso e prevenirne e punire l’abuso.
Pertanto, si tratta solo di applicare norme già esistenti e non, come indurrebbe a pensare il progetto del ministro, di irrigidire e depotenziare gli strumenti di indagine.
L’arresto del tristemente noto criminale mafioso sta mettendo in luce la fitta rete di complicità, di connivenze e di favoreggiamento di cui si è avvalso durante la sua trentennale latitanza.
È noto da tempo che il complesso apparato della criminalità organizzata è composto da elementi lontanissimi dallo stereotipo, per alcuni versi folcloristico, dell’affiliato e della ritualità che ne scandiva i vari passaggi.
La criminalità organizzata si è trasformata in impresa e ne ha assunto le tecniche di gestione e le professionalità e,in tal modo, il confine tra la legalità e l’illegalità si è assottigliato sempre più, fino a divenire quasi indistinguibile.
A fronte di questa nuova realtà criminale gli strumenti di indagine devono adeguarsi di conseguenza e,quindi, parrebbe assurdo, in questo momento, depotenziarli o limitarne l’utilizzo.