Il 17 ottobre Caritas Italiana ha presentato il suo 21° Rapporto su povertà ed esclusione sociale, dal titolo “L’anello debole”. Il documento offre uno spaccato aggiornato della povertà nel nostro Paese guardando, appunto, agli “anelli deboli della famiglia umana che, sganciati da meccanismi di solidarietà e accompagnamento, rischiano di isolarsi e staccarsi dal resto della compagine sociale“. Lo fa basandosi su diverse fonti quantitative e qualitative, attraverso le quali individua quelle che sono le principali sfide sociali che le istituzioni pubbliche, in primis il prossimo Governo, saranno chiamate ad affrontare nei mesi a venire.
Su giornali, radio e tv si è parlato molto del Rapporto, ma i dati citati dai principali media quasi sempre erano riferiti alle già note statistiche ufficiali sulla povertà. Meno attenzione è invece stata dedicata a quella che probabilmente è la parte più interessante del documento, ovvero i dati raccolti da quasi 2.800 Centri di Ascolto Caritas1 presenti su tutto il territorio nazionale, oltre ai risultati di due indagini empiriche originali.
Di seguito si propone un approfondimento su queste informazioni, a nostro avviso lasciate un po’ ai margini, oltre che sulle valutazioni di Caritas in merito alle attuali politiche di contrasto alla povertà e alle riforme e agli investimenti da realizzare per migliorare il contrasto alla povertà in Italia, in particolare grazie alle risorse del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza.
Le statistiche ufficiali sulla povertà
Anche se, come detto, dovrebbero essere già noti ai più, ricordare i dati ufficiali sulla povertà può essere utile per inquadrare anche le ulteriori informazioni raccolte direttamente da Caritas.
Nel 2021 la povertà si è confermata ai suoi massimi storici toccati nel 2020. Le famiglie in povertà assoluta sono 1.960.000, pari a 5.571.000 persone: il 9,4% della popolazione residente. L’incidenza si conferma più alta nel Mezzogiorno, dove è in aumento rispetto al 2020 (9,4% al 10%), mentre scende in misura significativa al Nord, in particolare nel Nord-Ovest (6,7% da 7,9%) dove lo scorso anno si erano registrati numeri inediti per quest’area del Paese.
Secondo le statistiche ufficiali i livelli di povertà continuano ad essere inversamente proporzionali all’età. La percentuale di poveri assoluti si attesta infatti al 14,2% fra i minori, è pari all’11,4% nella fascia 18-34 anni, all’11,1% per la classe 35-64 e ben al di sotto della media nazionale tra gli over 65, dove appena il 5,3% è in povertà assoluta.
Il fatto che circa 1,4 milioni di minori si trovi in povertà non dovrebbe stupire visto che tra il 2020 e il 2021 l’incidenza della povertà è cresciuta più della media soprattutto nelle famiglie con almeno 4 persone e in cui sono presenti bambini e adolescenti. La povertà aumenta anche nelle famiglie in cui la persona di riferimento ha un’età tra 35 e 55 anni, in cui sono presenti stranieri e dove c’è un solo reddito di lavoro. È invece cresciuta meno della media per le famiglie piccole, con anziani, e in quelle composte da soli italiani.
I (nuovi) volti della povertà
Il Rapporto, come detto, è interessante anzitutto perché presenta numerosi dati originali che offrono un prezioso spaccato sui volti che ha assunto la povertà nell’ultimo anno. Queste informazioni, provenienti da 2.797 Centri di Ascolto e servizi afferenti a 192 diocesi italiane, permettono di fare diverse valutazioni sulle forme assunte dall’indigenza al di là delle statistiche ufficiali.
Nel solo 2021 le persone incontrate e supportate dai Centri di Ascolto sono state 227.566 persone. Rispetto al 2020 si è registrato un incremento del 7,7% del numero di beneficiari supportati. Il rapporto tra uomini (50,9%) e donne (49,1%) è quasi uguale, mentre l’età media è di 45,8 anni.
La quota dei “nuovi poveri“, seppur in leggero calo rispetto al 2020 (quando furono il 44%), rimane consistente: il 42,3% dei beneficiari ha infatti fatto il primo accesso ai servizi Caritas nel 2021. La percentuale di persone in carico da 1-2 anni è in aumento e pari al 22,1%, un dato che per Caritas può essere interpretato come una mancata ripresa da parte di chi ha sperimentato gli effetti socio-economici della crisi pandemica, ma anche un probabile ritorno di coloro che già nel pre-pandemia avevano vissuto momenti di fragilità, come famiglie a rischio povertà per le quali una riduzione delle ore di lavoro, un problema di salute o magari un problema familiare può facilmente compromettere lo standard di vita. Calano leggermente le povertà di lungo corso (3.4 anni) e croniche (oltre 5 anni di assistenza).
È interessante notare la nazionalità delle persone aiutate. Mediamente nel 55% dei casi si tratta di stranieri, ma con distribuzioni molto diverse a seconda dell’area del Paese che si prende in considerazione. Nelle regioni del Nord-Ovest e del Nord-Est si arriva a punte del 65,7% e al 61,2%, mentre nel Sud e nelle Isole sono pari solo al 31,7% e al 25,8%. Qui, di fatto, sono soprattutto gli italiani a rivolgersi alla Caritas.
Nel 2021 Caritas registra un rafforzamento della correlazione tra stato di deprivazione e bassi livelli di istruzione già evidente negli anni scorsi. Tra gli assistiti cresce infatti il peso di chi possiede al massimo la licenza media (dal 57,1% al 69,7%). A Sud e nelle Isole, dove come detto c’è una maggiore incidenza di italiani, il dato arriva rispettivamente al 75% e all’84,7%. Strettamente correlato al livello di istruzione è, inoltre, il dato sulla condizione professionale: nel 2021 cresce l’incidenza dei disoccupati o inoccupati (dal 41% al 47,1%) mentre si contrae la quota di coloro che, pur occupati, devono rivolgersi a Caritas per un aiuto (dal 25% al 23,6%).
Risulta ancora marcato anche nel 2021 il peso delle povertà multidimensionali: nell’ultimo anno il 54,5% dei beneficiari del sostegno di Caritas ha manifestato due o più ambiti di bisogno (figura 3). Per Caritas le situazioni di multi-problematicità, in cui si sommano contemporaneamente due o più ambiti di bisogno, sono quelli in cui i percorsi di presa in carico risultano più complessi e difficili da concludere. Negli ultimi anni le condizioni di multi-fragilità sono andate diminuendo ma, probabilmente, solo a causa della continua e costante crescita della povertà economica dilagata con la pandemia, che riguarda un numero significativo di “nuovi poveri”.
Tra i bisogni registrati prevalgono quelli legati, appunto, a uno stato di fragilità economica, ma restano forti anche i bisogni occupazionali e abitativi, i problemi familiari (separazioni, divorzi, conflittualità) e le difficoltà legate allo stato di salute o ai processi migratori.
Le risposte di Caritas
Gli interventi della rete Caritas per affrontare queste situazioni di bisogno sono stati numerosi e vari. Complessivamente risultano erogati nel 2021 quasi 1.500.000 interventi, una media di 6,5 interventi per ciascun assistito (considerate anche le prestazioni di ascolto).
In particolare: il 74,7% ha riguardato l’erogazione di beni e servizi materiali (mense/empori, distribuzione pacchi viveri, buoni ticket, prodotti di igiene personale, docce, ecc.); il 7,5% le attività di ascolto, semplice o con discernimento; il 7,4% gli interventi di accoglienza, a lungo o breve termine; il 4,6% l’erogazione di sussidi economici (per il pagamento di affitti e bollette), il 2,2% il sostegno socio assistenziale e l’1,5% interventi sanitari. L’analisi della conversione degli interventi in euro mette in luce, tuttavia, che le erogazioni di sussidi economici pur rappresentando solo il 4,6% degli interventi assorbono oltre il 76% delle spese sostenute.
Caritas nota anche come le proprie risposte coinvolgano molti percettori del Reddito di Cittadinanza, pari al 22,3% del totale (erano il 19,9% nel 2020). Tra gli italiani la percentuale di chi percepisce la misura si attesta al 33,4% (nel 2020 era 30,1%), tra gli stranieri raggiunge appena l’11,3% (era il 9,1% nel 2020). Guardando alla distribuzione per area geografica, Caritas riporta che il Reddito di Cittadinanza è percepito dal 44,9% degli assistiti nel Sud e dal 50,3% di chi vive nelle Isole; la percentuale scende al 23,4% nelle regioni del Nord e addirittura all’8,5% in quelle del Centro.
Secondo Caritas si tratta di un dato su cui riflettere. Dati alla mano, il Reddito di Cittadinanza raggiunge poco meno della metà dei poveri assoluti (44%) e solamente il 22,3% delle persone che si rivolgono alle Caritas (come già segnalato in un precedente Rapporto). Da parte del Pubblico sarebbe quindi opportuno, spiega il report, assicurarsi che fossero raggiunti tutti coloro che versano nelle condizioni peggiori, partendo dai poveri assoluti che, tra le fila di chi si rivolge a Caritas, rappresentano certamente una quota prevalente.
La povertà intergenerazionale
Secondo diversi studi, il raggio della mobilità ascendente (verso posizioni sociali migliori, più “in alto” rispetto a quelle di nascita) risulta “assai corto” e sembra funzionare prevalentemente per chi proviene da famiglie di classe media e superiore. Per chi si colloca sulle posizioni più svantaggiate della scala sociale si registrano invece scarse possibilità di accedere ai livelli superiori. Da qui vengono le espressioni “pavimenti e soffitti appiccicosi” utilizzati nel Rapporto, che indicano la difficoltà nel nostro Paese di scostarsi dalla posizione sociale di origine.
Questa tendenza è confermata dal primo studio nazionale per quantificare le situazioni di povertà ereditaria nel nostro Paese, presentato nel Rapporto. Caritas lo ha realizzato basandosi su diversi studi teorici precedenti e prendendo in considerazione un campione rappresentativo di beneficiari dei servizi di Caritas. Si tratta di 1.281 assistiti tra i 36 e i 56 anni, individuati secondo linee del campionamento statistico costruite su base regionale (regione ecclesiastica) e stratificato per età e genere, considerato rappresentativo di 24.105 utenti Caritas.
La finalità dell’indagine è stata quella di favorire il confronto tra la condizione degli assistiti e quella delle loro famiglie di origine, così da misurare il grado di mobilità intergenerazionale delle persone in stato di povertà, attraverso tre dimensioni specifiche, che richiamano gli indicatori della letteratura sociologica sul tema: istruzione, condizione occupazionale e condizione economica.
Le ragioni della povertà intergenerazionale
Secondo i dati raccolti, il rischio di rimanere intrappolati in situazioni di vulnerabilità economica per chi proviene da un contesto familiare di fragilità è di fatto molto alto.
Il nesso tra condizione di vita degli assistiti e condizioni di partenza si palesa in primis nell’istruzione. Le persone nate tra il 1966 e il 1986 (campione esaminato), che vivono oggi in uno stato di povertà provengono per lo più da nuclei familiari con bassi titoli di studio, in alcuni casi senza qualifiche o addirittura analfabeti (oltre il 60% dei genitori possiede al massimo una licenza elementare). E sono proprio i figli delle persone meno istruite a interrompere gli studi prematuramente, fermandosi alla terza media e in taluni casi alla sola licenza elementare; al contrario tra i figli di persone con un titolo di laurea, oltre la metà arriva ad un diploma di scuola media superiore o alla stessa laurea.
Anche sul fronte lavoro emergono degli elementi di netta continuità. Più del 70% dei padri dei nostri assistiti risulta occupato in professioni a bassa specializzazione. Per le madri è invece elevatissima l’incidenza delle casalinghe (il 63,8%), mentre tra le occupate prevalgono le basse qualifiche. Il raffronto tra le due generazioni mostra che circa un figlio su cinque ha mantenuto la stessa posizione occupazionale dei padri e che il 42,8% ha invece sperimentato una mobilità discendente (soprattutto tra coloro che hanno un basso titolo di studio). Più di un terzo (36,8%) ha, invece, vissuto una mobilità ascendente in termini di qualifica professionale, anche se poi quel livello di qualifica non trova sempre una corrispondenza in termini di impiego (data l’alta incidenza di disoccupati) o un adeguato inquadramento contrattuale e retributivo, vista l’alta incidenza dei lavoratori poveri.
Da ultimo, in termini di condizione economica, tra gli utenti Caritas coloro che percepiscono un peggioramento della propria condizione e che quindi possono dirsi “impoveriti” nel corso della loro vita, rappresentano più della metà degli assistiti (55,3%); un quarto (24,9%) ammette di vivere in continuità rispetto allo standard dei propri genitori e il 19,8% riconosce invece un miglioramento. Un dato che tuttavia lascia immaginare forme di deprivazioni ancor più severe sperimentate nel passato.
Complessivamente nelle storie di deprivazione intercettate, i casi di “povertà intergenerazionale”, ovvero di persone che vivono una una condizione di precarietà economica in continuità con la propria famiglia di origine, pesano per il 59%. Per il restante 41%, invece, si può parlare di persone che hanno subito un impoverimento rispetto alle origini e che vengono pertanto indicate come “poveri di prima generazione”. Si tratta spesso di uomini, con livelli di istruzione medio-alti, che di fatto hanno vissuto una mobilità discendente rispetto alla propria famiglia di provenienza.
Riflettendo di povertà intergenerazionale, il Rapporto cita anche uno studio OCSE (A broken social elevator? How to promote socisal mobility) in cui si sostiene che a chi proviene da una famiglia povera (collocata cioè nell’ultimo decile di reddito) potrebbero servire mediamente 4,5 generazioni per raggiungere un livello di reddito medio. In Italia questo è pari a 5 generazioni: un dato che risulta superiore ai Paesi Scandinavi ma anche a quelli del Mediterraneo, come Spagna e Grecia, più vicini a noi anche rispetto agli standard di povertà.
Le voci e le storie di chi è aiutato e di chi aiuta
Sul tema della povertà intergenerazionale il Rapporto presenta anche i risultati di una ricerca qualitativa realizzata in 6 diocesi per: narrare il vissuto delle famiglie in povertà intergenerazionale, tracciare una mappa dei fattori che la alimentano e delineare approcci utili per spezzare la catena della trasmissione della povertà. La ricerca è stata realizzata coinvolgendo beneficiari, operatori e volontari delle Caritas, operatori sociali di istituzioni e di enti del Terzo Settore attraverso 5 focus group e 30 colloqui svolti nelle diocesi di Torino, Verona, Pisa, Reggio Calabria, Iglesias-Cagliari (rappresentative delle 5 macro-aree del Paese).
La ricerca ha dato voce alle persone provenienti da contesti familiari in cui la povertà è stata trasmessa per almeno tre generazioni, permettendo di delineare un quadro in cui ai citati fattori fondamentali che determinano la trasmissione della povertà (educativa, lavorativa ed economica), si aggiungono la dimensione psicologica (bassa autostima, sfiducia, frustrazione, traumi, mancanza di speranza e progettualità, stile di vita “familiare”), conseguenza di un vissuto lungamente esposto alla povertà e una più ampia dimensione socio-culturale (territorialità, contesto familiare, individualismo, sfiducia nelle istituzioni e nella comunità, povertà culturale), che coinvolge tutta la società ma si amplifica nelle fasce di popolazione in situazione di disagio.
Alla luce dei dati raccolti, il rapporto mette in luce la necessità di interventi e presa in carico che vadano oltre gli indispensabili aiuti materiali che, nel caso delle povertà multigenerazionali, non appaiono sempre risolutivi. I due elementi chiave nelle storie con esito positivo sono la cura della relazione di fiducia con accompagnamenti prolungati nel tempo e l’inserimento attivo nelle comunità, costruendo reti di sostegno e di reciprocità.
Un’eredità destinata a tramandarsi?
Il rapporto, alla luce dei dati che dicono che attualmente si trovano in povertà assoluta 1,4 milioni di minori, sottolinea la necessità di una riflessione condivisa sul tema dell’ereditarietà della povertà.
In questo senso è importante approcciare il contrasto della povertà non in chiave puramente assistenzialistica ma puntare su quei fattori che possono e devono invertire le traiettorie di vita che sembrano in qualche modo già segnate. “Non è immaginabile, certo, pensare di annullare gli effetti diretti o indiretti dell’origine sociale […] tuttavia tra i determinanti della mobilità, oltre ai fattori micro-sociali e individuali, si devono annoverare anche quelli di natura macro-sociale che chiamano in causa gli elementi economici, sociali, demografici e al contempo l’ambito delle politiche pubbliche“.
In tal senso, un peso fondamentale lo hanno le politiche in grado di favorire una maggiore equità e giustizia sociale, a partire dall’istruzione e da approcci che mirino maggiormente all’efficienza dei meccanismi meritocratici, ma anche da misure che possano mitigare le disuguaglianze economiche. Infatti, se la mobilità tende ad essere più debole proprio nelle società dove esistono maggiori disparità di reddito, intervenire con politiche redistributive e sociali può migliorare il livello di dinamismo sociale.
Tuttavia, ricorda il rapporto, la strada maestra per la mobilità sociale è strettamente correlata all’andamento del ciclo economico. Non a caso i più alti livelli di fluidità sociale in Italia sono stati raggiunti quando la economia cresceva a ritmi serrati. Oggi al contrario la stagnazione economica aggravata è dagli alti livelli di inflazione rischiano di cristallizzare che, come visto, è già molto bloccata. Per questo occorre contrastare creando un contesto economico di crescita e sviluppo che possa evitare che i più giovani rilevino l’eredità dei genitori poveri.
Il ruolo di lavoro e formazione
Queste riflessioni sono state ulteriormente approfondite grazie a un’indagine realizzata in collaborazione Caritas Europa e Don Bosco International in 10 Paesi europei per studiare il ruolo della transizione scuola-lavoro tra giovani e adolescenti che vivono in famiglie in difficoltà e che sono intercettate da Caritas o da Centri di Formazione Professionale dei Salesiani.
L’indagine, che ha coinvolto 375 giovani, analizza l’impatto della pandemia sulla vita familiare, personale e la qualità degli studi, le attività di alternanza scuola-lavoro, le esperienze vissute di scambio internazionale, il sostegno ricevuto per l’orientamento educativo e lavorativo. I dati indicano che il 41,3% ha vissuto gravi problemi economici a causa del Covid; il 44,1% riceve aiuto per pagare le spese scolastiche; il 37,4% non si sente preparato per continuare gli studi; il 57,1% non si sente pronto ad entrare nel mondo del lavoro; il 69% non ha mai vissuto esperienze di tirocini/ stage/alternanza scuola lavoro; il 78,6% non è stato aiutato da nessuno a scuola per orientare il proprio futuro.
Ma quanto ha influito il Covid-19 nella vita dei ragazzi e nella pianificazione del loro futuro?
In questo quadro emerge anche l’importanza di luoghi che possano affrontare queste situazioni di disagio. Grazie al confronto con 67 direttori di Centri salesiani di Formazione professionale, l’indagine mette in luce come nel 38% dei casi gli Istituti hanno fornito aiuto a per la DAD e le attività scolastiche a ragazzi in difficoltà; nel 50% dei casi gli studenti dei centri hanno dovuto sostenere inaspettate esigenze familiari dovute alla pandemia; nonostante le misure di isolamento sociale imposte dalla pandemia, l’80% degli Istituti è riuscito a garantire ai ragazzi esperienze di tirocinio o alternanza scuola lavoro all’esterno della scuola.
“Alle istituzioni e alla società civile degli adulti, a tutte le comunità educanti sparse per l’Europa,” si legge nel Rapporto “spetta ora la responsabilità di prendere consapevolezza di questi dati e farsi quindi carico in modo più adeguato ai tempi e ai bisogni dei giovani, specialmente quelli più colpiti dagli effetti della pandemia, nel loro percorso di transizione verso l’età adulta“.
Questioni, priorità e politiche per il futuro
Nella sua parte conclusiva il Rapporto si sofferma sulla situazione e le prospettive delle politiche di contrasto alla povertà, sviluppando una riflessione lungo tre assi: come realizzare buone politiche contro la povertà assoluta; quali sono gli interventi pubblici più adeguati per fronteggiare l’alto rischio di povertà ed esclusione sociale in Italia; il ruolo che la rete delle Caritas può svolgere in uno scenario di politiche pubbliche profondamente mutato negli ultimi anni, in cui lo Stato viene assume un rinnovato ruolo di centralità.
Il Rapporto ricorda come la principale misura di contrasto alla povertà esistente nel nostro Paese, il Reddito di Cittadinanza, è stata finora percepita da 4,7 milioni di persone, ma raggiunge poco meno della metà dei poveri assoluti (44%). Per questo occorre capire come raggiungere anzitutto coloro i quali versano nelle condizioni peggiori. Accanto alla componente economica, ricorda inoltre il documento, andrebbero inoltre garantiti adeguati processi di inclusione sociale che al momento sono tutti via ostacolati da vincoli amministrativi e di gestione.
In questo senso, il Rapporto avanza alcune proposte di rafforzamento della capacità di presa in carico dei Comuni, anche attraverso il potenziamento delle risorse umane e finanziarie a disposizione e un miglior coordinamento delle azioni. Particolare attenzione va data ai nuovi progetti programmi in partenza, finanziati dal Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, tra cui la Garanzia Occupabilità Lavoratori (GOL): un programma pensato per rafforzare i percorsi di occupabilità di disoccupati, lavoratori poveri o fragili/vulnerabili (NEET, giovani, maturi), beneficiari di Reddito di Cittadinanza e di ammortizzatori sociali in costanza o assenza di rapporti di lavoro.
Si tratterebbe di 3 milioni di persone da formare o riqualificare entro il 2025, di cui il 75% saranno donne, disoccupati di lunga durata, giovani under 30, over 55. Per il tipo di profilo definiti, questo programma interesserà senz’altro persone che si rivolgono ai centri e servizi Caritas. Si tratta quindi di persone in situazione di grave marginalità che oggi più che mai è necessario sostenere e includere in percorsi adeguati che li aiutino a uscire dalla propria condizione di povertà estrema.
Secondo la definizione Istat, si tratta della incapacità di accedere a beni e servizi considerati essenziali per mantenere un tenore di vita minimamente accettabile.
(Tratto da www.secondowelfare.it)
Su giornali, radio e tv si è parlato molto del Rapporto, ma i dati citati dai principali media quasi sempre erano riferiti alle già note statistiche ufficiali sulla povertà. Meno attenzione è invece stata dedicata a quella che probabilmente è la parte più interessante del documento, ovvero i dati raccolti da quasi 2.800 Centri di Ascolto Caritas1 presenti su tutto il territorio nazionale, oltre ai risultati di due indagini empiriche originali.
Di seguito si propone un approfondimento su queste informazioni, a nostro avviso lasciate un po’ ai margini, oltre che sulle valutazioni di Caritas in merito alle attuali politiche di contrasto alla povertà e alle riforme e agli investimenti da realizzare per migliorare il contrasto alla povertà in Italia, in particolare grazie alle risorse del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza.
Le statistiche ufficiali sulla povertà
Anche se, come detto, dovrebbero essere già noti ai più, ricordare i dati ufficiali sulla povertà può essere utile per inquadrare anche le ulteriori informazioni raccolte direttamente da Caritas.
Nel 2021 la povertà si è confermata ai suoi massimi storici toccati nel 2020. Le famiglie in povertà assoluta sono 1.960.000, pari a 5.571.000 persone: il 9,4% della popolazione residente. L’incidenza si conferma più alta nel Mezzogiorno, dove è in aumento rispetto al 2020 (9,4% al 10%), mentre scende in misura significativa al Nord, in particolare nel Nord-Ovest (6,7% da 7,9%) dove lo scorso anno si erano registrati numeri inediti per quest’area del Paese.
Secondo le statistiche ufficiali i livelli di povertà continuano ad essere inversamente proporzionali all’età. La percentuale di poveri assoluti si attesta infatti al 14,2% fra i minori, è pari all’11,4% nella fascia 18-34 anni, all’11,1% per la classe 35-64 e ben al di sotto della media nazionale tra gli over 65, dove appena il 5,3% è in povertà assoluta.
Il fatto che circa 1,4 milioni di minori si trovi in povertà non dovrebbe stupire visto che tra il 2020 e il 2021 l’incidenza della povertà è cresciuta più della media soprattutto nelle famiglie con almeno 4 persone e in cui sono presenti bambini e adolescenti. La povertà aumenta anche nelle famiglie in cui la persona di riferimento ha un’età tra 35 e 55 anni, in cui sono presenti stranieri e dove c’è un solo reddito di lavoro. È invece cresciuta meno della media per le famiglie piccole, con anziani, e in quelle composte da soli italiani.
I (nuovi) volti della povertà
Il Rapporto, come detto, è interessante anzitutto perché presenta numerosi dati originali che offrono un prezioso spaccato sui volti che ha assunto la povertà nell’ultimo anno. Queste informazioni, provenienti da 2.797 Centri di Ascolto e servizi afferenti a 192 diocesi italiane, permettono di fare diverse valutazioni sulle forme assunte dall’indigenza al di là delle statistiche ufficiali.
Nel solo 2021 le persone incontrate e supportate dai Centri di Ascolto sono state 227.566 persone. Rispetto al 2020 si è registrato un incremento del 7,7% del numero di beneficiari supportati. Il rapporto tra uomini (50,9%) e donne (49,1%) è quasi uguale, mentre l’età media è di 45,8 anni.
La quota dei “nuovi poveri“, seppur in leggero calo rispetto al 2020 (quando furono il 44%), rimane consistente: il 42,3% dei beneficiari ha infatti fatto il primo accesso ai servizi Caritas nel 2021. La percentuale di persone in carico da 1-2 anni è in aumento e pari al 22,1%, un dato che per Caritas può essere interpretato come una mancata ripresa da parte di chi ha sperimentato gli effetti socio-economici della crisi pandemica, ma anche un probabile ritorno di coloro che già nel pre-pandemia avevano vissuto momenti di fragilità, come famiglie a rischio povertà per le quali una riduzione delle ore di lavoro, un problema di salute o magari un problema familiare può facilmente compromettere lo standard di vita. Calano leggermente le povertà di lungo corso (3.4 anni) e croniche (oltre 5 anni di assistenza).
È interessante notare la nazionalità delle persone aiutate. Mediamente nel 55% dei casi si tratta di stranieri, ma con distribuzioni molto diverse a seconda dell’area del Paese che si prende in considerazione. Nelle regioni del Nord-Ovest e del Nord-Est si arriva a punte del 65,7% e al 61,2%, mentre nel Sud e nelle Isole sono pari solo al 31,7% e al 25,8%. Qui, di fatto, sono soprattutto gli italiani a rivolgersi alla Caritas.
Nel 2021 Caritas registra un rafforzamento della correlazione tra stato di deprivazione e bassi livelli di istruzione già evidente negli anni scorsi. Tra gli assistiti cresce infatti il peso di chi possiede al massimo la licenza media (dal 57,1% al 69,7%). A Sud e nelle Isole, dove come detto c’è una maggiore incidenza di italiani, il dato arriva rispettivamente al 75% e all’84,7%. Strettamente correlato al livello di istruzione è, inoltre, il dato sulla condizione professionale: nel 2021 cresce l’incidenza dei disoccupati o inoccupati (dal 41% al 47,1%) mentre si contrae la quota di coloro che, pur occupati, devono rivolgersi a Caritas per un aiuto (dal 25% al 23,6%).
Risulta ancora marcato anche nel 2021 il peso delle povertà multidimensionali: nell’ultimo anno il 54,5% dei beneficiari del sostegno di Caritas ha manifestato due o più ambiti di bisogno (figura 3). Per Caritas le situazioni di multi-problematicità, in cui si sommano contemporaneamente due o più ambiti di bisogno, sono quelli in cui i percorsi di presa in carico risultano più complessi e difficili da concludere. Negli ultimi anni le condizioni di multi-fragilità sono andate diminuendo ma, probabilmente, solo a causa della continua e costante crescita della povertà economica dilagata con la pandemia, che riguarda un numero significativo di “nuovi poveri”.
Tra i bisogni registrati prevalgono quelli legati, appunto, a uno stato di fragilità economica, ma restano forti anche i bisogni occupazionali e abitativi, i problemi familiari (separazioni, divorzi, conflittualità) e le difficoltà legate allo stato di salute o ai processi migratori.
Le risposte di Caritas
Gli interventi della rete Caritas per affrontare queste situazioni di bisogno sono stati numerosi e vari. Complessivamente risultano erogati nel 2021 quasi 1.500.000 interventi, una media di 6,5 interventi per ciascun assistito (considerate anche le prestazioni di ascolto).
In particolare: il 74,7% ha riguardato l’erogazione di beni e servizi materiali (mense/empori, distribuzione pacchi viveri, buoni ticket, prodotti di igiene personale, docce, ecc.); il 7,5% le attività di ascolto, semplice o con discernimento; il 7,4% gli interventi di accoglienza, a lungo o breve termine; il 4,6% l’erogazione di sussidi economici (per il pagamento di affitti e bollette), il 2,2% il sostegno socio assistenziale e l’1,5% interventi sanitari. L’analisi della conversione degli interventi in euro mette in luce, tuttavia, che le erogazioni di sussidi economici pur rappresentando solo il 4,6% degli interventi assorbono oltre il 76% delle spese sostenute.
Caritas nota anche come le proprie risposte coinvolgano molti percettori del Reddito di Cittadinanza, pari al 22,3% del totale (erano il 19,9% nel 2020). Tra gli italiani la percentuale di chi percepisce la misura si attesta al 33,4% (nel 2020 era 30,1%), tra gli stranieri raggiunge appena l’11,3% (era il 9,1% nel 2020). Guardando alla distribuzione per area geografica, Caritas riporta che il Reddito di Cittadinanza è percepito dal 44,9% degli assistiti nel Sud e dal 50,3% di chi vive nelle Isole; la percentuale scende al 23,4% nelle regioni del Nord e addirittura all’8,5% in quelle del Centro.
Secondo Caritas si tratta di un dato su cui riflettere. Dati alla mano, il Reddito di Cittadinanza raggiunge poco meno della metà dei poveri assoluti (44%) e solamente il 22,3% delle persone che si rivolgono alle Caritas (come già segnalato in un precedente Rapporto). Da parte del Pubblico sarebbe quindi opportuno, spiega il report, assicurarsi che fossero raggiunti tutti coloro che versano nelle condizioni peggiori, partendo dai poveri assoluti che, tra le fila di chi si rivolge a Caritas, rappresentano certamente una quota prevalente.
La povertà intergenerazionale
Secondo diversi studi, il raggio della mobilità ascendente (verso posizioni sociali migliori, più “in alto” rispetto a quelle di nascita) risulta “assai corto” e sembra funzionare prevalentemente per chi proviene da famiglie di classe media e superiore. Per chi si colloca sulle posizioni più svantaggiate della scala sociale si registrano invece scarse possibilità di accedere ai livelli superiori. Da qui vengono le espressioni “pavimenti e soffitti appiccicosi” utilizzati nel Rapporto, che indicano la difficoltà nel nostro Paese di scostarsi dalla posizione sociale di origine.
Questa tendenza è confermata dal primo studio nazionale per quantificare le situazioni di povertà ereditaria nel nostro Paese, presentato nel Rapporto. Caritas lo ha realizzato basandosi su diversi studi teorici precedenti e prendendo in considerazione un campione rappresentativo di beneficiari dei servizi di Caritas. Si tratta di 1.281 assistiti tra i 36 e i 56 anni, individuati secondo linee del campionamento statistico costruite su base regionale (regione ecclesiastica) e stratificato per età e genere, considerato rappresentativo di 24.105 utenti Caritas.
La finalità dell’indagine è stata quella di favorire il confronto tra la condizione degli assistiti e quella delle loro famiglie di origine, così da misurare il grado di mobilità intergenerazionale delle persone in stato di povertà, attraverso tre dimensioni specifiche, che richiamano gli indicatori della letteratura sociologica sul tema: istruzione, condizione occupazionale e condizione economica.
Le ragioni della povertà intergenerazionale
Secondo i dati raccolti, il rischio di rimanere intrappolati in situazioni di vulnerabilità economica per chi proviene da un contesto familiare di fragilità è di fatto molto alto.
Il nesso tra condizione di vita degli assistiti e condizioni di partenza si palesa in primis nell’istruzione. Le persone nate tra il 1966 e il 1986 (campione esaminato), che vivono oggi in uno stato di povertà provengono per lo più da nuclei familiari con bassi titoli di studio, in alcuni casi senza qualifiche o addirittura analfabeti (oltre il 60% dei genitori possiede al massimo una licenza elementare). E sono proprio i figli delle persone meno istruite a interrompere gli studi prematuramente, fermandosi alla terza media e in taluni casi alla sola licenza elementare; al contrario tra i figli di persone con un titolo di laurea, oltre la metà arriva ad un diploma di scuola media superiore o alla stessa laurea.
Anche sul fronte lavoro emergono degli elementi di netta continuità. Più del 70% dei padri dei nostri assistiti risulta occupato in professioni a bassa specializzazione. Per le madri è invece elevatissima l’incidenza delle casalinghe (il 63,8%), mentre tra le occupate prevalgono le basse qualifiche. Il raffronto tra le due generazioni mostra che circa un figlio su cinque ha mantenuto la stessa posizione occupazionale dei padri e che il 42,8% ha invece sperimentato una mobilità discendente (soprattutto tra coloro che hanno un basso titolo di studio). Più di un terzo (36,8%) ha, invece, vissuto una mobilità ascendente in termini di qualifica professionale, anche se poi quel livello di qualifica non trova sempre una corrispondenza in termini di impiego (data l’alta incidenza di disoccupati) o un adeguato inquadramento contrattuale e retributivo, vista l’alta incidenza dei lavoratori poveri.
Da ultimo, in termini di condizione economica, tra gli utenti Caritas coloro che percepiscono un peggioramento della propria condizione e che quindi possono dirsi “impoveriti” nel corso della loro vita, rappresentano più della metà degli assistiti (55,3%); un quarto (24,9%) ammette di vivere in continuità rispetto allo standard dei propri genitori e il 19,8% riconosce invece un miglioramento. Un dato che tuttavia lascia immaginare forme di deprivazioni ancor più severe sperimentate nel passato.
Complessivamente nelle storie di deprivazione intercettate, i casi di “povertà intergenerazionale”, ovvero di persone che vivono una una condizione di precarietà economica in continuità con la propria famiglia di origine, pesano per il 59%. Per il restante 41%, invece, si può parlare di persone che hanno subito un impoverimento rispetto alle origini e che vengono pertanto indicate come “poveri di prima generazione”. Si tratta spesso di uomini, con livelli di istruzione medio-alti, che di fatto hanno vissuto una mobilità discendente rispetto alla propria famiglia di provenienza.
Riflettendo di povertà intergenerazionale, il Rapporto cita anche uno studio OCSE (A broken social elevator? How to promote socisal mobility) in cui si sostiene che a chi proviene da una famiglia povera (collocata cioè nell’ultimo decile di reddito) potrebbero servire mediamente 4,5 generazioni per raggiungere un livello di reddito medio. In Italia questo è pari a 5 generazioni: un dato che risulta superiore ai Paesi Scandinavi ma anche a quelli del Mediterraneo, come Spagna e Grecia, più vicini a noi anche rispetto agli standard di povertà.
Le voci e le storie di chi è aiutato e di chi aiuta
Sul tema della povertà intergenerazionale il Rapporto presenta anche i risultati di una ricerca qualitativa realizzata in 6 diocesi per: narrare il vissuto delle famiglie in povertà intergenerazionale, tracciare una mappa dei fattori che la alimentano e delineare approcci utili per spezzare la catena della trasmissione della povertà. La ricerca è stata realizzata coinvolgendo beneficiari, operatori e volontari delle Caritas, operatori sociali di istituzioni e di enti del Terzo Settore attraverso 5 focus group e 30 colloqui svolti nelle diocesi di Torino, Verona, Pisa, Reggio Calabria, Iglesias-Cagliari (rappresentative delle 5 macro-aree del Paese).
La ricerca ha dato voce alle persone provenienti da contesti familiari in cui la povertà è stata trasmessa per almeno tre generazioni, permettendo di delineare un quadro in cui ai citati fattori fondamentali che determinano la trasmissione della povertà (educativa, lavorativa ed economica), si aggiungono la dimensione psicologica (bassa autostima, sfiducia, frustrazione, traumi, mancanza di speranza e progettualità, stile di vita “familiare”), conseguenza di un vissuto lungamente esposto alla povertà e una più ampia dimensione socio-culturale (territorialità, contesto familiare, individualismo, sfiducia nelle istituzioni e nella comunità, povertà culturale), che coinvolge tutta la società ma si amplifica nelle fasce di popolazione in situazione di disagio.
Alla luce dei dati raccolti, il rapporto mette in luce la necessità di interventi e presa in carico che vadano oltre gli indispensabili aiuti materiali che, nel caso delle povertà multigenerazionali, non appaiono sempre risolutivi. I due elementi chiave nelle storie con esito positivo sono la cura della relazione di fiducia con accompagnamenti prolungati nel tempo e l’inserimento attivo nelle comunità, costruendo reti di sostegno e di reciprocità.
Un’eredità destinata a tramandarsi?
Il rapporto, alla luce dei dati che dicono che attualmente si trovano in povertà assoluta 1,4 milioni di minori, sottolinea la necessità di una riflessione condivisa sul tema dell’ereditarietà della povertà.
In questo senso è importante approcciare il contrasto della povertà non in chiave puramente assistenzialistica ma puntare su quei fattori che possono e devono invertire le traiettorie di vita che sembrano in qualche modo già segnate. “Non è immaginabile, certo, pensare di annullare gli effetti diretti o indiretti dell’origine sociale […] tuttavia tra i determinanti della mobilità, oltre ai fattori micro-sociali e individuali, si devono annoverare anche quelli di natura macro-sociale che chiamano in causa gli elementi economici, sociali, demografici e al contempo l’ambito delle politiche pubbliche“.
In tal senso, un peso fondamentale lo hanno le politiche in grado di favorire una maggiore equità e giustizia sociale, a partire dall’istruzione e da approcci che mirino maggiormente all’efficienza dei meccanismi meritocratici, ma anche da misure che possano mitigare le disuguaglianze economiche. Infatti, se la mobilità tende ad essere più debole proprio nelle società dove esistono maggiori disparità di reddito, intervenire con politiche redistributive e sociali può migliorare il livello di dinamismo sociale.
Tuttavia, ricorda il rapporto, la strada maestra per la mobilità sociale è strettamente correlata all’andamento del ciclo economico. Non a caso i più alti livelli di fluidità sociale in Italia sono stati raggiunti quando la economia cresceva a ritmi serrati. Oggi al contrario la stagnazione economica aggravata è dagli alti livelli di inflazione rischiano di cristallizzare che, come visto, è già molto bloccata. Per questo occorre contrastare creando un contesto economico di crescita e sviluppo che possa evitare che i più giovani rilevino l’eredità dei genitori poveri.
Il ruolo di lavoro e formazione
Queste riflessioni sono state ulteriormente approfondite grazie a un’indagine realizzata in collaborazione Caritas Europa e Don Bosco International in 10 Paesi europei per studiare il ruolo della transizione scuola-lavoro tra giovani e adolescenti che vivono in famiglie in difficoltà e che sono intercettate da Caritas o da Centri di Formazione Professionale dei Salesiani.
L’indagine, che ha coinvolto 375 giovani, analizza l’impatto della pandemia sulla vita familiare, personale e la qualità degli studi, le attività di alternanza scuola-lavoro, le esperienze vissute di scambio internazionale, il sostegno ricevuto per l’orientamento educativo e lavorativo. I dati indicano che il 41,3% ha vissuto gravi problemi economici a causa del Covid; il 44,1% riceve aiuto per pagare le spese scolastiche; il 37,4% non si sente preparato per continuare gli studi; il 57,1% non si sente pronto ad entrare nel mondo del lavoro; il 69% non ha mai vissuto esperienze di tirocini/ stage/alternanza scuola lavoro; il 78,6% non è stato aiutato da nessuno a scuola per orientare il proprio futuro.
Ma quanto ha influito il Covid-19 nella vita dei ragazzi e nella pianificazione del loro futuro?
In questo quadro emerge anche l’importanza di luoghi che possano affrontare queste situazioni di disagio. Grazie al confronto con 67 direttori di Centri salesiani di Formazione professionale, l’indagine mette in luce come nel 38% dei casi gli Istituti hanno fornito aiuto a per la DAD e le attività scolastiche a ragazzi in difficoltà; nel 50% dei casi gli studenti dei centri hanno dovuto sostenere inaspettate esigenze familiari dovute alla pandemia; nonostante le misure di isolamento sociale imposte dalla pandemia, l’80% degli Istituti è riuscito a garantire ai ragazzi esperienze di tirocinio o alternanza scuola lavoro all’esterno della scuola.
“Alle istituzioni e alla società civile degli adulti, a tutte le comunità educanti sparse per l’Europa,” si legge nel Rapporto “spetta ora la responsabilità di prendere consapevolezza di questi dati e farsi quindi carico in modo più adeguato ai tempi e ai bisogni dei giovani, specialmente quelli più colpiti dagli effetti della pandemia, nel loro percorso di transizione verso l’età adulta“.
Questioni, priorità e politiche per il futuro
Nella sua parte conclusiva il Rapporto si sofferma sulla situazione e le prospettive delle politiche di contrasto alla povertà, sviluppando una riflessione lungo tre assi: come realizzare buone politiche contro la povertà assoluta; quali sono gli interventi pubblici più adeguati per fronteggiare l’alto rischio di povertà ed esclusione sociale in Italia; il ruolo che la rete delle Caritas può svolgere in uno scenario di politiche pubbliche profondamente mutato negli ultimi anni, in cui lo Stato viene assume un rinnovato ruolo di centralità.
Il Rapporto ricorda come la principale misura di contrasto alla povertà esistente nel nostro Paese, il Reddito di Cittadinanza, è stata finora percepita da 4,7 milioni di persone, ma raggiunge poco meno della metà dei poveri assoluti (44%). Per questo occorre capire come raggiungere anzitutto coloro i quali versano nelle condizioni peggiori. Accanto alla componente economica, ricorda inoltre il documento, andrebbero inoltre garantiti adeguati processi di inclusione sociale che al momento sono tutti via ostacolati da vincoli amministrativi e di gestione.
In questo senso, il Rapporto avanza alcune proposte di rafforzamento della capacità di presa in carico dei Comuni, anche attraverso il potenziamento delle risorse umane e finanziarie a disposizione e un miglior coordinamento delle azioni. Particolare attenzione va data ai nuovi progetti programmi in partenza, finanziati dal Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, tra cui la Garanzia Occupabilità Lavoratori (GOL): un programma pensato per rafforzare i percorsi di occupabilità di disoccupati, lavoratori poveri o fragili/vulnerabili (NEET, giovani, maturi), beneficiari di Reddito di Cittadinanza e di ammortizzatori sociali in costanza o assenza di rapporti di lavoro.
Si tratterebbe di 3 milioni di persone da formare o riqualificare entro il 2025, di cui il 75% saranno donne, disoccupati di lunga durata, giovani under 30, over 55. Per il tipo di profilo definiti, questo programma interesserà senz’altro persone che si rivolgono ai centri e servizi Caritas. Si tratta quindi di persone in situazione di grave marginalità che oggi più che mai è necessario sostenere e includere in percorsi adeguati che li aiutino a uscire dalla propria condizione di povertà estrema.
Secondo la definizione Istat, si tratta della incapacità di accedere a beni e servizi considerati essenziali per mantenere un tenore di vita minimamente accettabile.
(Tratto da www.secondowelfare.it)
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