Sin dalla sua fase preparatoria, quando le truppe che preparavano l’invasione facevano ancora manovra all’interno del territorio russo, si sono da più parti levati preoccupati appelli e preventive invocazioni alla pace. Si trattava di appelli in gran parte sinceri, ma nondimeno caratterizzati da uno dei peggiori mali nel nuovo secolo. Un male antico quanto il mondo, e che ha trovato, dopo il crollo delle utopie dell’Ottocento del Novecento, una nuova e universale accettazione. Il convincimento che non tutti gli esseri umani siano uguali.
Quale il nesso tra quanto sta tragicamente accadendo in Ucraina e l’istanza pacifista? Che fare, nelle attuali condizioni, se si vuole essere pacificatori?
Il pacifismo tradizionale del XX secolo – noto come pacifismo di testimonianza – oggi non è in grado, da solo, di far avanzare la causa della pace. Esso continuerà ad essere un’opzione della coscienza individuale, degna della massima tutela giuridica e della più ampia considerazione sociale; ma il mantenimento della pace in terra esige, nelle attuali condizioni storiche, molto di più. E ciò per due ragioni fondamentali. La prima è esterna al pacifismo: sono mutate sia le cause sia la natura della guerra, come ben si sa. Giovanni Paolo II è stato fra i primi a comprendere questo fatto. Nel suo primo Angelus del 2002, il Papa disse: “Forze negative, guidate da interessi perversi, mirano a fare del mondo un teatro di guerra” (corsivo aggiunto). Parole inquietanti che sanno non solo di profezia, ma soprattutto di atto d’accusa politica. La guerra continua a rimanere un’opzione possibile nelle agende politiche. Con il che il destino economico e sociale dei singoli Paesi e popoli continua ad essere ignorato e trattato strumentalmente.
La seconda ragione riguarda, invece, lo stesso pacifismo di testimonianza, il quale è oggi afflitto da una sorta di paradosso: da una parte, ha bisogno della guerra per rivendicare la pace; dall’altra, reagisce molto tiepidamente (fino ad ignorarle) a quella miriade di conflitti che coinvolgono popoli “marginali”, ma che sono poi quelli che preparano la via alla guerra guerreggiata. La guerra in sé non viene chiamata in causa, ma vengono denunciate le singole guerre, di cui si va alla ricerca delle cause “locali”. Come ha scritto M. Albertini (1984), il pacifismo di testimonianza coltiva “il sogno di eliminare la guerra senza distruggere il mondo della guerra”. E un primo intervento in tale direzione è quello di rivedere radicalmente le regole del mercato globale delle armi. La Russia è il secondo esportatore al mondo di armamenti, dopo gli USA. Il trattato sul commercio di armi convenzionali, mentre è stato ratificato dalla UE, non è stato firmato da USA, Russia e Cina. Ancora più preoccupante è la mancata revisione del trattato di non proliferazione nucleare. Ecco perché è urgente muovere passi veloci verso un nuovo pacifismo, quello che chiamo istituzionale ed il cui slogan potrebbe essere: se vuoi la pace prepara istituzioni di pace (vale a dire, si vis pacem, para civitatem).
Cosa vuol dire essere costruttori di pace (“Beati gli operatori di pace” Mt 5,9) nelle odierne condizioni storiche? Significa prendere finalmente sul serio la proposizione della Populorum Progressio (1967) secondo cui “lo sviluppo è il nuovo nome della pace”. Tre sono le tesi che valgono a conferire a tale affermazione tutta la sua forza profetica. Primo, la pace è possibile, dato che la guerra è un evento e non già uno stato di cose. Il che significa che la guerra è un’emergenza transitoria, per quanto lunga possa essere, non una condizione permanente della società degli umani. E dunque non hanno ragione i “realisti politici” secondo cui nell’arena internazionale conta solo la forza e il calcolo degli interessi in gioco, dal momento che la guerra sarebbe comunque inevitabile, stante l’icastica affermazione hobbesiana dell’homo homini lupus. La seconda tesi afferma che la pace però va costruita, posto che essa non è qualcosa che spontaneamente si realizza a prescindere dalla volontà degli uomini. In un libro di grande rilevanza – e proprio per questo mai citato – di Q. Wright (A study of war, 1942) si legge che “mai due democrazie si sono fatte la guerra”. È proprio così, come la storia ci conferma. Se dunque si vuole veramente la pace, quanto occorre fare è di operare per estendere ovunque la cultura e la prassi del principio democratico.
La terza tesi, infine, afferma che la pace è frutto di opere tese a creare istituzioni (cioè regole del gioco) di pace: quelle che appunto mirano a realizzare uno sviluppo umano integrale. Sempre tenendo a mente che la pace va costruita con mezzi di pace.
Quali istituzioni di pace meritano nelle condizioni odierne, attenzione primaria?
Primo, rendere credibile il ripudio della guerra come mezzo di risoluzione dei conflitti mediante la predisposizione di strumenti efficaci di difesa dell’aggredito.
Secondo, dare vita ad una Agenzia (indipendente) Internazionale per la Gestione degli Aiuti (AIGA), alla quale affluiscano le risorse rese disponibili dal “dividendo della pace” e da altre fonti e, che, in forza del principio di sussidiarietà (circolare), operi in quanto ente grant-making. Se solo il 10% della spesa militare globale, pari a circa 1700 miliardi di dollari all’anno, venisse dirottata su AIGA, nell’arco di un decennio le attuali diseguaglianze strutturali potrebbero venire sanate.
Terzo, si tratta di rivedere, in modo trasformazionale, l’assetto delle istituzioni politico-giuridiche nate a Bretton Woods nel 1944 (FMI, OMS, Banca Mondiale, WTO), divenute ormai obsolete. Al tempo stesso, operare per far nascere due altre istituzioni, dotate dei medesimi poteri di quelle già esistenti: un’Organizzazione Mondiale delle Migrazioni (OMM) e un’Organizzazione Mondiale dell’Ambiente (OMA). Infine, è urgente far decollare un piano di pre-distribuzione e di redistribuzione del reddito a livello globale per arrestare l’endemico aumento delle diseguaglianze sociali tra Paesi e tra gruppi sociali.
È bene che si sappia che quanto sopra è tecnicamente possibile sotto tutti i profili. Piuttosto quel che manca è la volontà di agire in tale direzione. Assai opportunamente il cardinale Pietro Parolin ha scritto: “Purtroppo, bisogna riconoscere che non siamo stati capaci di costruire, dopo la caduta del Muro di Berlino, un nuovo sistema di convivenza tra le Nazioni, che andasse al di là delle alleanze militari o delle convenienze economiche. La guerra in corso in Ucraina rende evidente questa sconfitta”. (“Vatican News”, 11 marzo 2022).
Se la catastrofe ucraina servisse a farci comprendere la portata delle gravi vulnerabilità dell’attuale ordine internazionale e a spingerci ad agire di conseguenza, come la Fratelli tutti ci sollecita a fare, potremo dire che questa immane tragedia a qualcosa di buono è servita. Il che apre alla speranza, la quale non riguarda solo il futuro, ma anche il presente, perché abbiamo bisogno di sapere che le nostre opere, oltre ad una destinazione finale, hanno un senso e un valore anche qui e ora.
(Tratto da www.politicainsieme.com)
Quale il nesso tra quanto sta tragicamente accadendo in Ucraina e l’istanza pacifista? Che fare, nelle attuali condizioni, se si vuole essere pacificatori?
Il pacifismo tradizionale del XX secolo – noto come pacifismo di testimonianza – oggi non è in grado, da solo, di far avanzare la causa della pace. Esso continuerà ad essere un’opzione della coscienza individuale, degna della massima tutela giuridica e della più ampia considerazione sociale; ma il mantenimento della pace in terra esige, nelle attuali condizioni storiche, molto di più. E ciò per due ragioni fondamentali. La prima è esterna al pacifismo: sono mutate sia le cause sia la natura della guerra, come ben si sa. Giovanni Paolo II è stato fra i primi a comprendere questo fatto. Nel suo primo Angelus del 2002, il Papa disse: “Forze negative, guidate da interessi perversi, mirano a fare del mondo un teatro di guerra” (corsivo aggiunto). Parole inquietanti che sanno non solo di profezia, ma soprattutto di atto d’accusa politica. La guerra continua a rimanere un’opzione possibile nelle agende politiche. Con il che il destino economico e sociale dei singoli Paesi e popoli continua ad essere ignorato e trattato strumentalmente.
La seconda ragione riguarda, invece, lo stesso pacifismo di testimonianza, il quale è oggi afflitto da una sorta di paradosso: da una parte, ha bisogno della guerra per rivendicare la pace; dall’altra, reagisce molto tiepidamente (fino ad ignorarle) a quella miriade di conflitti che coinvolgono popoli “marginali”, ma che sono poi quelli che preparano la via alla guerra guerreggiata. La guerra in sé non viene chiamata in causa, ma vengono denunciate le singole guerre, di cui si va alla ricerca delle cause “locali”. Come ha scritto M. Albertini (1984), il pacifismo di testimonianza coltiva “il sogno di eliminare la guerra senza distruggere il mondo della guerra”. E un primo intervento in tale direzione è quello di rivedere radicalmente le regole del mercato globale delle armi. La Russia è il secondo esportatore al mondo di armamenti, dopo gli USA. Il trattato sul commercio di armi convenzionali, mentre è stato ratificato dalla UE, non è stato firmato da USA, Russia e Cina. Ancora più preoccupante è la mancata revisione del trattato di non proliferazione nucleare. Ecco perché è urgente muovere passi veloci verso un nuovo pacifismo, quello che chiamo istituzionale ed il cui slogan potrebbe essere: se vuoi la pace prepara istituzioni di pace (vale a dire, si vis pacem, para civitatem).
Cosa vuol dire essere costruttori di pace (“Beati gli operatori di pace” Mt 5,9) nelle odierne condizioni storiche? Significa prendere finalmente sul serio la proposizione della Populorum Progressio (1967) secondo cui “lo sviluppo è il nuovo nome della pace”. Tre sono le tesi che valgono a conferire a tale affermazione tutta la sua forza profetica. Primo, la pace è possibile, dato che la guerra è un evento e non già uno stato di cose. Il che significa che la guerra è un’emergenza transitoria, per quanto lunga possa essere, non una condizione permanente della società degli umani. E dunque non hanno ragione i “realisti politici” secondo cui nell’arena internazionale conta solo la forza e il calcolo degli interessi in gioco, dal momento che la guerra sarebbe comunque inevitabile, stante l’icastica affermazione hobbesiana dell’homo homini lupus. La seconda tesi afferma che la pace però va costruita, posto che essa non è qualcosa che spontaneamente si realizza a prescindere dalla volontà degli uomini. In un libro di grande rilevanza – e proprio per questo mai citato – di Q. Wright (A study of war, 1942) si legge che “mai due democrazie si sono fatte la guerra”. È proprio così, come la storia ci conferma. Se dunque si vuole veramente la pace, quanto occorre fare è di operare per estendere ovunque la cultura e la prassi del principio democratico.
La terza tesi, infine, afferma che la pace è frutto di opere tese a creare istituzioni (cioè regole del gioco) di pace: quelle che appunto mirano a realizzare uno sviluppo umano integrale. Sempre tenendo a mente che la pace va costruita con mezzi di pace.
Quali istituzioni di pace meritano nelle condizioni odierne, attenzione primaria?
Primo, rendere credibile il ripudio della guerra come mezzo di risoluzione dei conflitti mediante la predisposizione di strumenti efficaci di difesa dell’aggredito.
Secondo, dare vita ad una Agenzia (indipendente) Internazionale per la Gestione degli Aiuti (AIGA), alla quale affluiscano le risorse rese disponibili dal “dividendo della pace” e da altre fonti e, che, in forza del principio di sussidiarietà (circolare), operi in quanto ente grant-making. Se solo il 10% della spesa militare globale, pari a circa 1700 miliardi di dollari all’anno, venisse dirottata su AIGA, nell’arco di un decennio le attuali diseguaglianze strutturali potrebbero venire sanate.
Terzo, si tratta di rivedere, in modo trasformazionale, l’assetto delle istituzioni politico-giuridiche nate a Bretton Woods nel 1944 (FMI, OMS, Banca Mondiale, WTO), divenute ormai obsolete. Al tempo stesso, operare per far nascere due altre istituzioni, dotate dei medesimi poteri di quelle già esistenti: un’Organizzazione Mondiale delle Migrazioni (OMM) e un’Organizzazione Mondiale dell’Ambiente (OMA). Infine, è urgente far decollare un piano di pre-distribuzione e di redistribuzione del reddito a livello globale per arrestare l’endemico aumento delle diseguaglianze sociali tra Paesi e tra gruppi sociali.
È bene che si sappia che quanto sopra è tecnicamente possibile sotto tutti i profili. Piuttosto quel che manca è la volontà di agire in tale direzione. Assai opportunamente il cardinale Pietro Parolin ha scritto: “Purtroppo, bisogna riconoscere che non siamo stati capaci di costruire, dopo la caduta del Muro di Berlino, un nuovo sistema di convivenza tra le Nazioni, che andasse al di là delle alleanze militari o delle convenienze economiche. La guerra in corso in Ucraina rende evidente questa sconfitta”. (“Vatican News”, 11 marzo 2022).
Se la catastrofe ucraina servisse a farci comprendere la portata delle gravi vulnerabilità dell’attuale ordine internazionale e a spingerci ad agire di conseguenza, come la Fratelli tutti ci sollecita a fare, potremo dire che questa immane tragedia a qualcosa di buono è servita. Il che apre alla speranza, la quale non riguarda solo il futuro, ma anche il presente, perché abbiamo bisogno di sapere che le nostre opere, oltre ad una destinazione finale, hanno un senso e un valore anche qui e ora.
(Tratto da www.politicainsieme.com)
La suddetta argomentazione è perfetta, vedo la sintesi nel giudizio di Giovanni Paolo II che è stato fra i primi a comprendere l’origine dei conflitti. Nel suo primo Angelus del 2002, il Papa disse: “Forze negative, guidate da interessi perversi, mirano a fare del mondo un teatro di guerra”. Parole inquietanti che sanno non solo di profezia, ma soprattutto di atto d’accusa politica. La guerra continua a rimanere un’opzione possibile nelle agende politiche. Con il che il destino economico e sociale dei singoli Paesi e popoli continua ad essere ignorato e trattato strumentalmente.
La conferma la troviamo nell’intervista di Francesca Basso a Jens Stoltemberg segretario generale della NATO – Corriere della sera del 17 marzo 2022:
Stoltenberg (Nato): «Nessuna no-fly zone, diamo più armi a Kiev e ci rafforziamo a Est»
Parla il segretario generale: «Dobbiamo adattare l’alleanza atlantica al mondo che cambia e diventa più competitivo. La Russia e la Cina agiscono insieme» BRUXELLES — «O si crede nella democrazia e nella libertà oppure no. Io credo nei valori democratici e la Nato li protegge. La Russia no, li viola. È la differenza tra democrazia e autocrazia».
Il segretario generale della Nato, Jens Stoltenberg, risponde alle domande del Corriere al termine della riunione dei ministri della Difesa della Nato. E spiega così perché lo slogan «né con la Nato né con la Russia» per lui non sia comprensibile.
Le ultime notizie sulla guerra in Ucraina. Ha detto che siamo in un momento decisivo per la sicurezza europea. Cosa intende?
«Ci troviamo di fronte a una nuova realtà, la Russia sta contestando i principi al cuore della nostra sicurezza: il diritto di ogni nazione di scegliere il proprio percorso e il diritto della Nato di difendere i propri alleati. Mosca è disposta a usare la forza per ottenere i suoi obiettivi: ha invaso l’Ucraina, una nazione indipendente e pacifica. E cerca di influenzare la Nato chiedendo di ritirare tutte le nostre forze dai Paesi che si sono uniti all’Alleanza dopo il 1997. Abbiamo 30 membri, di cui 14 hanno aderito dopo quella data. Dunque la Russia pretende per questi Paesi una sorta di membership di seconda classe, per cui non avremmo il diritto di proteggerli come facciamo con l’Italia o qualsiasi altro Paese alleato. Questa è la nuova realtà».
Per quanto tempo l’Ucraina può resistere all’attacco russo? Per la Polonia serve una missione di pace della Nato. «Il presidente Putin ha totalmente sottostimato la forza e il coraggio dell’esercito ucraino, dei cittadini e della leadership politica. La Nato per anni ha fornito supporto agli ucraini, mettendo a disposizione equipaggiamento militare e addestrando migliaia di truppe che ora sono in prima linea. Non voglio speculare sui prossimi sviluppi, ma gli alleati proseguiranno con il loro sostegno, continueremo a imporre costi pesantissimi con le sanzioni e rafforzeremo la nostra presenza a Est tra i Paesi dell’Alleanza per prevenire un’escalation. Sosteniamo gli sforzi per la pace, i negoziati tra Ucraina e Russia, ma non abbiamo intenzione di dispiegare truppe Nato in Ucraina perché la Nato non è parte del conflitto».
Ieri Mosca ha chiesto agli Usa di non fornire più armi a Kiev. E il presidente Zelensky di chiudere lo spazio aereo. «L’Ucraina è una nazione sovrana e indipendente, con un governo eletto democraticamente, ha il diritto di autodifendersi. Noi aiutiamo l’Ucraina nel difendere il suo diritto. E gli alleati lo hanno confermato anche alla riunione dei ministri della Difesa: continueremo con il nostro sostegno. Forniamo sistemi di difesa antiaerea e antimissile, ma una no-fly zone implica attaccare o abbattere aerei russi, perché la no-fly zone non è qualcosa che si dichiara ma che si impone e questo porterebbe a una guerra tra Nato e Russia con ancora maggiore distruzione».
I Baltici, la Polonia temono un attacco russo anche se sono nella Nato. Finlandia e Svezia dovrebbero aderire per essere più sicure? «La Nato preserva la pace e previene i conflitti. La nostra clausola di difesa collettiva dice che se un alleato viene attaccato risponde tutta l’Allenza. Non c’è equivoco sul nostro impegno, abbiamo aumentato la presenza delle truppe Nato a Est, ho recentemente incontrato i piloti italiani in Romania e voglio elogiare l’Italia per il suo contributo alla nostra difesa collettiva. Il messaggio alla Russia è che proteggiamo i nostri alleati e questo è un deterrente credibile che ha preservato la pace per oltre 70 anni. Finlandia e Svezia sono nazioni sovrane, sta a loro decidere».
Come giudica il ruolo dell’Italia in questa crisi? «L’Italia è un membro fondatore della Nato, è un validissimo alleato che dà un contributo importante alla difesa collettiva, ha contribuito al rafforzamento dei battlegroup nella regione baltica, fornisce navi e aerei, e ha giocato un ruolo chiave nei Balcani Occidentali, con la sua presenza in Kosovo. L’Italia ha una posizione molto chiara nel condannare l’invasione, nell’imporre sanzioni, nel fornire sostegno».
Stefano Zamagni ci dice che “se dunque si vuole veramente la pace, quanto occorre fare è di operare per estendere ovunque la cultura e la prassi del principio democratico”.
Attenzione perché questo argomento è proprio quello che Bush figlio e successori hanno introdotto per intraprendere quelle “guerre per esportare la democrazia” che hanno insanguinato e devastato vari paesi del Sud del Mondo.
Del resto Henry Kissinger aveva già evidenziato che Woodrow Wilson motivò l’ingresso degli Stati Uniti nella Grande Guerra con la necessità di diffondere la libertà e la democrazia. Riteneva, infatti, che i paesi democratici non fossero aggressivi per natura e che pertanto la diffusione della democrazia avrebbe portato alla pace permanente. Se non che, rileva Kissinger, questa è stata una forzatura interpretativa della realtà politica europea perché tutti i paesi entrati in guerra nel 1914 (con l’eccezione della Russia zarista) disponevano di parlamenti eletti e di pari condizioni di libertà di stampa e di espressione del pensiero.
In modo più radicale, John Mearsheimer ci dice che “la condivisione del sistema istituzionale non evita la competizione e il conflitto fra gli Stati, e ciò vale anche nel caso delle istituzioni democratiche: non basta la diffusione della democrazia per garantire un futuro di pace. Neppure la libera circolazione dei prodotti e dei capitali, e l’interdipendenza delle economie fanno venire meno i possibili conflitti”.
Luciano Canfora ci ricorda che, nella Grecia antica, le poleis più inclini ad intraprendere imprese militari erano quelle “democratiche” rispetto a quelle rette da oligarchie e perfino da tiranni.
Certo ben venga la diffusione nel mondo di istituzioni democratiche (fondate sulla partecipazione, l’eguaglianza e il primato della politica sulle logiche economicistiche), tuttavia non attendiamoci che ciò basti ad evitare le guerre. Fino ad oggi, i più lunghi periodi di pace (o meglio di assenza di conflitti armati) si sono avuti quando è stata realizzata una condizione di equilibrio fra le principali potenze. Si può, e si deve aspirare a qualche cosa di meglio, di più nobile e di più stabile, ma senza inseguire illusorie utopie.
Giuseppe Ladetto ci ricorda il vero motivo per cui c’è la guerra in Ucraina e per il quale l’Occidente è stato impegnato in guerre ininterrotte dalla caduta della cortina di ferro ad oggi. Manca tuttora un accordo su un punto di equilibrio per la gestione del potere mondiale. In Occidente ormai le democrazie sono un paravento, come dice l’economista Fitoussi, le elezioni servono per cambiare le persone e non le politiche, tranne che in rarissimi casi. La sovranità è pressoché interamente esercitata dai vertici delle multinazionali, e più ancora dai capi dei colossi finanziari che ne detengono la proprietà, in un gioco di partecipazioni incrociate che fa sì che una ristretta cupola abbia il potere di controllare tutto il potere (dei media, della finanza, dei big del digitale, della farmaceutica…) e di imporre il modello di società che vuole senza alcun dibattito democratico. Questo gruppo di potere privato si sente padrone del mondo e sta perseguendo un piano di un proprio governo mondiale attraverso shock finanziari, sanitari, energetici. Questa élite globalista sostiene in modo ferreo l’unipolarismo, non accetta lo schema multipolare proposto da Cina, India e Russia, né sembra disposto a mediazioni. Per questo le motivazioni del conflitto in corso sono mondiali e, senza un improbabile, ma non impossibile, ribaltamento dei rapporti di forza in Occidente, la deriva verso un conflitto mondiale sembra inarrestabile. Senza che, peraltro, le forze politiche facciano qualcosa di concreto per evirarlo al di là di generici appelli alla pace, condivisibili ma non tradotti in una seria strategia.