Ostalgia del passato che non può tornare



Giuseppe Sacco    7 Marzo 2022       1

Il ritorno della storia, che trent’anni fa venne imprudentemente dichiarata “finita”, ha fatto in questi giorni, nella località detta Belovezhskaya Pushcha, in Bielorussia, un significativo passo avanti. È qui infatti che si sono riuniti per due volte, e pare si riuniranno ancora nei prossimi giorni, e forse oggi stesso, i rappresentanti della Russia e dell’Ucraina incaricati di portare avanti un negoziato di cui tutti avvertono l’immediata necessità. Che però è finora stato difficile e stentato, e in cui si è potuto soltanto cercare di mitigare alcuni effetti collaterali della guerra tra Russia ed Ucraina. Una guerra, che come ha detto più volte lo stesso Putin, oppone tra loro gli uomini di quello egli ancora oggi si ostina a considerare, e a far considerare, “un popolo solo”. Come forse è stato in passato, in certe fasi della storia, ma sul quale gli eventi degli ultimi otto anni non possono che aver avuto un effetto divisivo.

È perciò indubbiamente stata, quella del luogo dove far svolgere il secondo e il futuro terzo round negoziale, una scelta di alto valore simbolico. Fu infatti proprio lì, nei pressi di Viskuli, che l’8 dicembre 1991 i rappresentanti di tre Repubbliche federative socialiste sovietiche, quelle di Bielorussia, Russia e Ucraina fecero il passo decisivo che provocò “la più grande tragedia geopolitica del ventesimo secolo”, com’ebbe a dire lo stesso Putin a proposito della dissoluzione dell’URSS.

Di quella decisione, che nessun russo può non considerare infausta, la responsabilità è portata soprattutto da Boris Eltsin. Ma essa fu dovuta anche all’ingenua ammirazione che una personalità di ben più grande rilievo, Michael Gorbaciov, nutriva nei confronti dei paesi dell’Occidente. E alla fiducia che egli aveva riposto nei loro leader, tanto da accettare come affidabile la promessa verbale che la rinuncia di Mosca al ruolo imperiale sino ad allora esercitato su gran parte dell’Europa orientale, non avrebbe portato ad un’estensione verso est – a parte la DDR – dell’alleanza militare antirussa, la NATO.

Il fatto che Gorbaciov non sia mai stato perdonato dai suoi compatrioti costituisce oggi la più evidente spiegazione del comportamento di Putin, quali che siano i risvolti negativi della sua personalità ed i suoi errori, che potrebbero, nel prossimo futuro, rivelarsi tragici. Egli non ha mai nascosto l’intento di restituire alla sua patria un po’ non solo del lustro imperiale perduto, del suo orgoglio di storicamente essere, dopo Bisanzio, la “terza Roma”, ma anche un più ampio ruolo politico internazionale, e l’egemonia sul mondo slavo.

La guerra di riconquista in cui il “nuovo zar” si è così imprudentemente gettato, ha sollevato una reazione ostile su scala mondiale; marcata, nell’Assemblea dell’ONU da una quasi-unanimità mai vista fino ad oggi. Una situazione di quasi isolamento da cui sarà difficile uscire, anche a voler ritenere fondata la valutazione secondo la quale una buona parte dei sentimenti di Putin siano condivisi dal popolo russo; quello stesso popolo in cui qualcuno in Occidente dice invece di confidare perché ponga termine alla di lui più che ventennale presidenza.

Ed anche a voler assumere che sia ancora possibile fare appello a quel sentimento di essere, Russi e Ucraini, un popolo solo che l’uomo del Cremlino – come apparso esplicitamente nel discorso da lui pronunciato giovedì 3 marzo – pensa essere ancora tiepido sotto le ceneri di un trentennale divorzio, o almeno risuscitabile, tra gli stessi Ucraini. Egli sembra infatti convinto che un ritorno alla storia, e un ritorno al passato, siamo possibili persino all’indomani della guerra oggi in atto, una volta “denazificato” il Paese. Cioè una volta eliminata la teppa neo-nazista della Divisione Misantropica e del Battaglione Azov, attualmente facente parte della guardia nazionale ucraina. Il che, anche se desiderabile per chi auspica che i popoli, tutti i popoli, vivano in pace tra di loro, appare assai poco verosimile.

C’è senza dubbio, in Putin, un elemento di quella che molti chiamano oggi ostalgia, una sorta di ricordo trasfigurato del ritmo e del sapore che aveva la vita al di là della cortina di ferro, negli anni della Guerra Fredda. Una sorta di disaffezione e perfino di rigetto per la società iper-competitiva di oggi; disaffezione che si esprime nel lodare i tempi in cui una pagnotta di più di un chilo costava 11 coperchi, e in cui tutti vivevano gli anni di un’istruzione prevalentemente tecnica senza grandi aspettative, ma nella consapevolezza che al termine degli studi sarebbe stato pronto un lavoro, ed un modesto welfare.

È questo il “mondo di ieri”, verso il quale l’invasione russa vorrebbe riportare l’Ucraina del 2022. Ma che questa, almeno in parte, sembra rifiutare energicamente, contrapponendogli un sentimento di identità nazionale che sembra abbastanza autentico. E che rassomiglia, sia per gli aspetti negativi che per quelli positivi, a quanto già visto in Italia nella prima metà del novecento: un sentimento di orgoglio ed indipendenza che inevitabilmente finisce per contrapporsi al conformismo globalista, pseudo-europeista e post-nazionale oggi imposto – con allarmante unanimità – dai media del mondo occidentale, che presenta l’amore per le proprie tradizioni e la fedeltà ad esse come elemento di un passato ormai travolto e sepolto.

E che lo è, in un certo senso, almeno se lo si confronta all’euforia patriottica che accompagnò, In tutta Europa il progressivo e drammatico scivolamento verso la catastrofe della Prima guerra mondiale. Quando mancò un soggetto politico di prestigio che proponesse, come sembra fare oggi il premier israeliano Naftali Bennett, un negoziato. Che è poi – ce lo consentano tutte le variopinte folle che scendono in piazza ad invocare la pace – l’unica e vera alternativa alla guerra.

Se si presta attenzione alla disperata sincerità con cui Zelensky moltiplica nei confronti del suo popolo gli appelli a gettarsi, per il proprio Paese, in una battaglia che si annuncia come impossibile da vincere, si ritrova un’eco di come alcuni intellettuali italiani dell’inizio del secolo, ponessero il tema della partecipazione del nostro paese alla guerra europea: come un problema di dignità e addirittura di esistenza come popolo. Tanto da giungere ad augurarsi che l’Italia non rimanesse comunque fuori del conflitto, quali che fossero le probabilità di un esito positivo. Perché, come scrisse Giuseppe Prezzolini in una lettera a Benedetto Croce, sotto un profilo identitario, per l’Italia sarebbe stato meglio uscire vinta dalla guerra che essere stata neutrale.

La fierezza quasi dannunziana con cui Zelensky combatte la propria battaglia è insomma anch’essa parte di un ritorno alle grandi promesse del passato. Anche se la sua strategia, fatta sostanzialmente di continui appelli ad un sostegno da parte dell’Occidente, non trova molto riscontro, egli tende ad assumere un ruolo spirituale, a configurarsi con una chiamata alle armi dell’Europa capitalista in funzione antirussa. Ma poi Zelensky saluta con un pugno chiuso, quasi a rappresentare anche una vecchia Russia, quella sovietica in cui gli Ucraini erano una componente, dominata ma legata ai Russi da sentimenti in definitiva fraterni. Anche perché il popolo ucraino forniva alla élite rivoluzionaria alcune delle sue figure più tragiche e rappresentative.

(Tratto da www.politicainsieme.com)


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