Il sovranismo che serve all’Europa



Giuseppe Ladetto    12 Febbraio 2022       2

“Sovranista” è l’accusa che viene fatta a chi si mostra scettico rispetto alla UE, ma in realtà che cosa significa?

La sovranità è l’attributo proprio di chi esercita il governo di un territorio, fa scelte di tipo politico, economico e sociale, le impone e le fa rispettare avendo il monopolio della forza. È quindi un attributo di uno Stato che ha piena autorità e non è sottoposto a nessun altro potere. Sovrano è il soggetto che entro lo Stato detiene la potestà più alta: nella monarchia assoluta, era il re; in democrazia, il popolo. Tuttavia, la sovranità di ogni Stato trova una limitazione in quella degli altri Stati, perché non è mai esistita una sovranità globale che implicherebbe uno Stato esteso alla Terra intera. Guardando all’ambito internazionale, Dario Fabbri (che va sempre diretto al nocciolo delle questioni senza timore di apparire urticante) ci ha ricordato che, nel mondo, di Stati veramente sovrani ce ne sono pochi (le grandi potenze e talune medio-grandi potenze). Per gli altri, la condizione è quella di una “sovranità limitata”, etichetta che era stata coniata per i Paesi nell’orbita sovietica, ma che va ben oltre, e ci riguarda da vicino.

Con la globalizzazione, sono intervenute nuove limitazioni, oltre a quella di subalternità a una grande potenza. La circolazione di capitali, merci ed esseri umani ha ridotto la capacità di controllo degli Stati anche all’interno del proprio territorio. Le società multinazionali scelgono (almeno fino ad oggi) le proprie sedi fiscali nei Paesi che fanno le condizioni di pagamento delle imposte più favorevoli; delocalizzano gli impianti produttivi dove la mano d’opera costa di meno e dove vincoli di varia natura (in primis ambientali) sono poco stringenti o aggirabili; strutturano le loro attività sulla base di norme di origine privatistica sottratte alla giurisdizione statale con il ricorso a lodi arbitrali gestiti da arbitri nominati dalle stesse parti in causa. Alla libera circolazione dei capitali, si aggiunge oggi la creazione di monete virtuali a indebolire ulteriormente il potere di controllo degli Stati.

Questo indebolimento delle capacità di controllo e di governo degli Stati si fa maggiormente sentire nelle nazioni di piccola e media dimensione, rendendo sempre più debole la loro sovranità. In tali Paesi, gli strumenti proposti, per farvi fronte, dai cosiddetti “sovranisti” si rivelano (come ha scritto Carlo Calenda) trincee fragili ancorché, al momento, offrano una protezione almeno psicologica. Che fare allora? Ci sono, schematicamente, due orientamenti.

Il primo è fondato sulla constatazione che i grandi Paesi possono mantenere un elevato grado di sovranità. Quindi le piccole e medie nazioni di un’area continentale o sub-continentale si potrebbero associare per dare vita a una qualche struttura più grande. È il caso della UE? Più che dare una risposta, pongo ulteriori interrogativi.

Una organizzazione internazionale di Stati, come la UE, di natura complessa, con competenze circoscritte agli ambiti ad essa conferiti dagli Stati partecipi, può essere considerata detentrice della sovranità che compete a uno Stato? Al momento credo che si debba dare una risposta negativa. Allora possiamo ritenere che basti implementare le competenze conferite all’Unione per raggiungere l’obiettivo? Anche in questo caso è lecito, quanto meno, avere dei dubbi. Con tale indicazione, non si esce da un ambito eminentemente tecnico-giuridico, mentre, allo scopo, ci vorrebbe qualcosa di politicamente molto più forte: definire, una volta per tutte, che cosa sia l’Europa che si vuole costruire; che cosa questa abbia di peculiare che la distingue da ciò che non è Europa.

Tempo fa, Umberto Eco, Aleksandr Solzenicyn e, più recentemente, Emmanuel Macron hanno fatto una quasi identica considerazione che ritengo importante, e che si può così sintetizzare: quando sono in un Paese europeo che non sia il mio, mi sento comunque a casa; solo quando esco dall’Europa, avverto di trovarmi in terra straniera, e provo nostalgia per il mio vecchio continente. In queste parole, c’è l’identità dell’Europa; non nella sola proclamazione di valori che possono essere universalmente condivisi, ma, appunto per questo, non la definiscono e non la delimitano.

E qui, guardando a quell’élite neoliberale insediata al vertice e nei gangli vitali dell’Unione, cascano le braccia. Ricordo (ne ho scritto in un articolo dell’aprile del 2020) che la Commissione attuale, allora entrante, aveva previsto la nomina di una figura nuova: il “Commissario incaricato della protezione del modo di vita europeo”. Si è subito scatenato un coro di proteste e di accuse di nazionalismo. Risultato: precipitosa marcia indietro della Commissione, ridottasi a dover precisare che il “modo di vita europeo consiste nell’accettare tutti gli altri modi di vita”, cioè di non averne uno proprio, negando l’esistenza di una fisionomia o identità europea frutto dell’eredità di chi ci ha preceduto nei secoli su questo territorio. Certo un’identità è sempre in divenire, ma conserva, come accade a una lingua, un nucleo stabile che la rende riconoscibile nel tempo. Senza identità, viene meno il terreno su cui basare quel momento fondativo che solo può dare corpo ad un’Europa sovrana.

C’è quindi ancora molta strada da fare. In particolare bisogna tenere a mente che non si raggiungerà l’obiettivo se non si prende, fin da ora, totale distanza dal secondo orientamento, di cui vado ora a parlare, favorevole a un mondo privo di sovranità, e non solo degli Stati.

Domenico Accorinti, in L’anarcocapitalismo che soffoca la UE, ci ha mostrato come l’anarcocapitalismo, oggi dominante nel mercato globale, abbia mosso guerra alla sovranità degli Stati considerata un impedimento al pieno dispiegarsi delle logiche di mercato e alla connessa scalata ai profitti di quella nuova classe di miliardari impostasi con la globalizzazione.

Per l’ideologia neoliberale, sovranità, Stato o nazione sono concetti superati, perché ostacoli alle logiche di mercato, ma soprattutto sono ritenuti la causa di tutti i mali possibili. Lo Stato è il problema, viene detto. La ricerca della pace richiede il superamento degli Stati nazionali e un’apertura a un multilateralismo che coinvolga, oltre alle nazioni, soggetti di varia natura (anche privata) riservando un ruolo primario alle istituzioni sovranazionali. Fra queste, l’ONU con le sue agenzie, i molti organismi istituiti sulla base di trattati internazionali per vigilare su materie varie, i tribunali e le corti interpreti delle carte dei diritti, e i vari fori tipo G7 e G20.

Ora, se è cosa ragionevole la collaborazione tra gli Stati per trovare soluzioni alle questioni di interesse generale (modificazioni climatiche, ambiente, crescita demografica, consumo delle risorse, migrazioni, disarmo nucleare, ecc.), non lo è invece assegnare tale ruolo agli organismi sopracitati quando elaborano e pongono in esecuzione, in ogni ogni ambito, regole e direttive che la più parte degli Stati (o quanto rimane di essi) deve applicare senza, di fatto, aver avuto modo di concorrere alla loro elaborazione. Così la distanza tra i luoghi dei poteri decisionali e i cittadini diventa enorme, e non basta dire, a giustificazione di tale situazione, che i problemi globali non hanno soluzione con politiche elaborate a chilometro-zero. È come dire che la democrazia è considerata inadeguata a governare un mondo diventato più vasto e più complesso. C’è già, infatti, chi deplora la “democrazia elettorale” (che non darebbe spazio decisionale ai competenti e a quanti hanno una più ampia visione delle cose del mondo) come se in democrazia si potesse fare a meno delle indicazioni del popolo espresse con il voto.

A ciò si aggiunge, in Europa, una sempre più marcata giuridificazione di ogni aspetto della nostra vita da cui deriva una marea di leggi, leggine, regolamenti e via dicendo. Inoltre, in nome del primato assegnato ai diritti individuali, si è dato, e si sta dando, un crescente spazio ad un diritto creato e gestito al di fuori di ogni controllo democratico ad opera di giuristi, tecnici ed esperti. Alla base di ciò, come ebbe a dire Mario Cicala, c’è l’intreccio di fonti normative (costituzioni, carte varie dei diritti dell’uomo) in cui primeggiano disposizioni di principio ritenute di rango superiore, un intreccio che porta i magistrati a convincersi di essere chiamati a dar corpo e sostanza al Diritto, a qualcosa che prescinde dalle singole leggi approvate dai Parlamenti. Tuttavia, costituzioni e carte dei diritti nascono tutte, per canali diversi, dalla volontà popolare. Quest’ultima conserva il pieno potere di intervenire su di esse nel caso non fossero più ritenute valide per le mutate condizioni di una società e di un mondo in profonda trasformazione.

È in particolare l’attuale élite neoliberale europea a privilegiare la componente giudiziaria: infatti, la UE non ha un governo, ma ha due corti di giustizia, e ora dà vita a una procura europea. Inoltre, nel mondo globalizzato, in cui la grande finanza e le multinazionali sempre più spesso operano al di fuori e al di sopra degli Stati, la sopracitata élite europea si è convinta che siano i soli fattori economici a muovere il mondo, e che debba essere il solo interesse economico a guidare le scelte dei governanti. Poiché i mercati, sempre più integrati, sono ritenuti i principali fattori del progresso, i singoli Stati devono adeguarsi alla loro supremazia. Ma mi pare evidente che sulla base dei soli rapporti giuridici ed economici non si possa fondare e guidare una società, tanto più se la si vuole giusta ed attenta alle vere esigenze dei cittadini. Ci vuole un’anima.

Di conseguenza, la prioritaria attenzione alle regole di mercato e alle procedure (considerate più importanti degli obiettivi auspicati) costituisce un handicap per l’UE e per i Paesi che ne fanno parte (che Angelo Panebianco definisce “giuridici”) nella competizione con quelle nazioni che hanno mantenuto il senso della realtà mostrando pragmatismo e difendendo la propria sovranità e gli interessi dei propri cittadini.

Torno alla domanda posta a inizio articolo: “Che cosa significa sovranista?” Se con tale termine si indica chi pensa di sopravvivere nelle piccole patrie nazionali difendendosi dietro fragili trincee, allora ne prendo distanza perché è evidente l’ingenuità che alimenta una tale posizione. Se invece sovranista designa anche tutti coloro che si oppongono a una globalizzazione ove gli Stati sono considerati ostacoli al pieno dispiegarsi delle logiche di mercato e un pericolo per quanti si ritengono liberi di non riconoscere più doveri verso la comunità di appartenenza, allora mi dichiaro convinto sovranista, fautore della creazione di uno Stato europeo sovrano in politica, economia ed in campo militare.


2 Commenti

  1. Bene Ladetto! Uscire fuori dal coro del liberismo sfrenato è buona cosa. Se dinanzi alle ingiustizie le persone oneste tacciono il male si diffonde. Sono certo che la globalizzazione è la causa della crescita della povertà, la perdita di posti di lavoro, l’ingiustizia sociale e una minore tutela dell’ambiente, della salute e della vita privata. Inoltre, ci sentiamo minacciati della nostra identità, tradizioni e nel nostro modo di vivere. Occorre riconoscere e rispondere a queste preoccupazioni. La cattiva gestione, sta portando l’Italia verso una tragica esemplificazione di ciò che avvenne in Russia con i deportati diventati coloni di lavoro, costretti ad integrarsi in una società segnata da una penalizzazione generale, in cui nessuno sapeva chi sarebbero stati i prossimi esclusi. E’ ciò che sta subendo attualmente la classe media italiana, con il conseguente declino economico, lo si può paragonare al regresso sociale che accompagnò l’assalto sferrato dallo potere sovietico contro la sua stessa società produttiva degli anni trenta. Al gioco delle tre carte vince sempre chi riesce ad incantare meglio i creduloni. Gli attuali rappresentanti del M5s non sono politici seri, corretti ed onesti, ma ottimi illusionisti. L’Italia ha bisogno di uomini veri. come La Pira, Mattei, Olivetti, ecc. Ho aperto un dialogo con la Commissione Europea, Ylva.Johasson@ec.europa.euNacira.Boulehouat@ec.europa.eu; 1049 Brussels, Belgio Tel. + 32 22991111, sarebbe buona cosa la creazione di un gruppo di studio, che prenda a modello il libro di Stephen Smith. “Fuga in Europa. La giovane Africa verso il vecchio continente”. Conosco l’Africa equatoriale, una polveriera pronta ad esplodere, ho realizzato in quei luoghi grandi progetti per diversi anni, servono riferimenti validi in Europa, per generare potenti deterrenti atti a trattenere in Africa i potenziali emigranti. JF Kennedy parlò del bisogno di tutti gli statunitensi di essere cittadini attivi, pronunciando la famosa frase: “Non chiedete cosa può fare il vostro paese per voi, chiedete cosa potete fare voi per il vostro paese”. Se partisse da noi una simile iniziativa ben strutturata, ma con lo spirito lapiriano costruttivo e pacifico, sarebbe un antidoto coraggioso contro le cause di ricorrenti inettitudini e di pericolose conflittualità. Se non vengono seguite dai fatti, le parole non contano.

  2. L’Unione Europea può seguire la propria vocazione originaria e approdare non alla compressione o addirittura all’eradicazione delle sovranità nazionali (che, da quando è stata abolita la monarchia assoluta, si basano sul potere del popolo, la democrazia appunto) ma piuttosto a una sorta di sovereignity enhancement (potenziamento della sovranità) nel segno della società aperta e non delle asfittiche gelosie nazionaliste. Ricordo l’ex segretario PD Zingaretti che esclamava trionfalmente: “avanti con nuove, ampie cessioni di sovranità!”: si bravo ma a favore di chi? Di un’unione cementata da interessi ma anche da una storia, una tradizione e una cultura millenaria e condivisa (ad onta delle conflittualità del passato)? O di qualche anonimo soggetto extraterritoriale espressione di quell’un per cento di ricchezza straripante su cui tutti a parole si stracciano le vesti? E’ poi fondamentale che l’attribuzione consapevole e procedurizzata di funzioni e poteri a un organismo sovranazionale sia accompagnata, come ben argomenta Ladetto, da una riduzione delle distanze fra gli spazi del decision making e quelli dell’applicazione e del controllo delle decisioni assunte.

Lascia un commento

La Tua email non sarà pubblicata.


*