Secondo i resoconti apparsi sui mass media nel recente Consiglio dei ministri di venerdì 15 ottobre, dedicato alla predisposizione del nuovo decreto per i provvedimenti urgenti in materia di fisco e politiche del lavoro, si sarebbe consumato uno scontro interno tra i ministri, in particolare Giorgetti della Lega e Patuanelli del M5S, sull’opportunità di incrementare i finanziamenti per il Reddito di cittadinanza per l’anno in corso con un importo aggiuntivo di 200 milioni di euro.
La cifra non è particolarmente significativa data l’attuale copertura già prevista per le prestazioni in corso, tenendo conto di quelle destinate al Reddito di emergenza, di circa 9 miliardi. Ma rappresenta di fatto il preannuncio di uno scontro sull’opportunità di riformare il provvedimento in questione, destinato a riprodursi nel corso della redazione della proposta di Legge di bilancio per il 2022. In questa sede il quesito relativo all’opportunità, per non dire alla necessità, di riformare il Reddito di cittadinanza, non potrà essere aggirato.
Le indagini più recenti sull’attuazione del provvedimento in questione, in particolare quelle sviluppate dal centro studi di Itinerari Previdenziali e dalla Caritas, danno contezza del divario esistente tra i numeri della popolazione in condizioni di povertà assoluta evidenziati nell’indagine dell’Istat (5,6 milioni di persone, 2 milioni di nuclei familiari con 1,35 milioni di minori a carico) e quelli dei beneficiari del Reddito di cittadinanza contenuti nei monitoraggi periodici dell’Inps. In particolare rivelano che una parte consistente di quest’ultimi, più di un terzo in grande prevalenza single, non avrebbe i requisiti per usufruire degli assegni pubblici. E che i criteri di calcolo delle integrazioni al reddito penalizzano le famiglie più numerose e più esposte al rischio di povertà.
I beneficiari effettivi del Rdc nelle regioni del Mezzogiorno risultano superiori al numero dei poveri stimati dall’Istat, ma inferiori del 60% rispetto al potenziale dei poveri residenti nelle regioni del Nord rilevati nell’indagine richiamata. Il requisito dei dieci anni di residenza nel nostro Paese per inoltrare le domande ha generato l’esclusione dei due terzi delle famiglie straniere povere, e di circa 500 mila minori, dai benefici del Rdc. Distorsioni che vengono ampliate dagli abusi derivanti dall’impossibilità da parte dell’Inps di verificare preventivamente la congruità delle domande, e delle dichiarazioni Isee autocertificate dai richiedenti, per la sostanziale assenza delle banche dati sui redditi e i patrimoni previste dalle normative, ma non ancora rese operative.
Tutto questo spiega il perché nonostante l’impiego di 18 miliardi dalla data di avvio del Rdc, l’introduzione del Reddito di emergenza nel corso della crisi Covid per allargare la platea dei beneficiari, le risorse distribuite a 2,2 milioni di nuclei familiari e circa 4 milioni di persone beneficiarie, il numero dei poveri stimati dall’Istat sia nel frattempo aumentato di un ulteriore milione e l’intensità della povertà (intesa come la distanza del reddito effettivo dall’indicatore medio utilizzato dall’Istat per stimare il numero delle persone povere) sia diminuita solo dell’1,6%.
Numeri che mettono in discussione anche la presunzione, data per scontata da buona parte degli esponenti politici e dai mass media, che il Reddito di cittadinanza abbia funzionato sul versante del contrasto della povertà assoluta, e che la riforma eventuale debba limitarsi a correggere la parte politiche attive finalizzata all’inserimento lavorativo dei beneficiari per il palese fallimento della cosiddetta operazione navigator.
Una tesi utilizzata a supporto della richiesta avanzata dal M5S, e sostenuta dal PD, di ampliare le risorse da mettere a disposizione del Rdc per contrastare la crescita del numero dei poveri. Un fenomeno che viene attribuito essenzialmente agli effetti della crisi Covid. Un palese tentativo di utilizzare i numeri del fallimento per giustificare la richiesta di nuove risorse.
L’esigenza di riformare l’impianto sarebbe motivata dalla concomitante decisione di estendere i benefici dell’Assegno unico per i figli a carico, in attuazione del Family Act (i 180-220 euro mensili per ogni figlio), anche alle famiglie fiscalmente incapienti. In pratica a tutte quelle beneficiarie del Rdc e degli immigrati in possesso di regolare permesso di soggiorno. Una determinazione che corregge da sola buona parte delle storture prodotte dai criteri di selezione per il Reddito di cittadinanza verso le famiglie numerose, gli immigrati e i minori. Scelte che, in parallelo, dovrebbero comportare una riduzione delle risorse da mettere a disposizione del Rdc, dato che la spesa per l’assegno unico proviene da un diverso capitolo del bilancio.
Nel frattempo si è consolidato un vasto consenso sull’opportunità di ricondurre le politiche attive per l’inserimento dei beneficiari del Rdc in età di lavoro nell’ambito delle regole previste per l’insieme delle persone in cerca di lavoro. La possibilità di rifiutare tutte le offerte di lavoro a tempo determinato e a part-time che viene loro consentita, mentre milioni di lavoratori svolgono abitualmente queste attività, è uno scandalo inaccettabile.
Ma una riforma del Rdc, che appare ovvia sulla base di criteri appartenenti alla categoria del buon senso, non è affatto scontata sul piano politico per tre diverse motivazioni.
Anzitutto, non va trascurato il fatto che gli effetti distorsivi generati dal provvedimento in corso sono il frutto di una precisa scelta politica, quella di mantenere elevato il sussidio di base del Reddito di cittadinanza per avvicinarlo alla promessa elettorale di garantire 780 euro mensili a tutte le persone prive di un reddito da lavoro. La scelta di trasformarla in uno strumento di contrasto della povertà è stata obbligata dalla non sostenibilità dei costi, ma tutto ciò è avvenuto introducendo criteri che limitano la crescita degli importi mensili per le famiglie numerose e la partecipazione dei nuclei familiari degli stranieri extracomunitari. Per M5S, il Rdc rappresenta l’ultima bandiera, la più difficile da ammainare.
Un secondo ostacolo è rappresentato dalla massa degli attuali beneficiari del Rdc (1,65 milioni di nuclei familiari e 3,2 milioni di persone, senza tener conto dei percettori del Reddito di emergenza) che rappresenta un blocco importante di interessi consolidati e un bacino di riferimento elettorale potenziale che non può essere trascurato. Come sempre accade, una volta messi in campo i sussidi assistenziali diventano difficili da riformare. Anzi, diventa più semplice per i parlamentari richiederne l’estensione ad altri soggetti indebitamente esclusi.
Infine, non deve essere trascurata che l’idea di introdurre un reddito di base non condizionato, garantito dallo Stato per tutti coloro che non hanno un’occupazione, definito non a caso come Reddito di cittadinanza, è tutt’altro che esaurita. Non sono in pochi sul versante della sinistra a considerarla come parte fondamentale, insieme all’estensione dei diritti civili e delle rivendicazioni ambientaliste, della piattaforma su cui fondare un’alleanza organica tra PD e M5S.
Il tema viene semplicemente rinviato, e sostanzialmente consegnato alla capacità del Presidente del Consiglio di trovare l’ennesima sintesi per le criticità interne alla maggioranza. Una soluzione possibile sul piano pratico, complicata per quello politico.
La cifra non è particolarmente significativa data l’attuale copertura già prevista per le prestazioni in corso, tenendo conto di quelle destinate al Reddito di emergenza, di circa 9 miliardi. Ma rappresenta di fatto il preannuncio di uno scontro sull’opportunità di riformare il provvedimento in questione, destinato a riprodursi nel corso della redazione della proposta di Legge di bilancio per il 2022. In questa sede il quesito relativo all’opportunità, per non dire alla necessità, di riformare il Reddito di cittadinanza, non potrà essere aggirato.
Le indagini più recenti sull’attuazione del provvedimento in questione, in particolare quelle sviluppate dal centro studi di Itinerari Previdenziali e dalla Caritas, danno contezza del divario esistente tra i numeri della popolazione in condizioni di povertà assoluta evidenziati nell’indagine dell’Istat (5,6 milioni di persone, 2 milioni di nuclei familiari con 1,35 milioni di minori a carico) e quelli dei beneficiari del Reddito di cittadinanza contenuti nei monitoraggi periodici dell’Inps. In particolare rivelano che una parte consistente di quest’ultimi, più di un terzo in grande prevalenza single, non avrebbe i requisiti per usufruire degli assegni pubblici. E che i criteri di calcolo delle integrazioni al reddito penalizzano le famiglie più numerose e più esposte al rischio di povertà.
I beneficiari effettivi del Rdc nelle regioni del Mezzogiorno risultano superiori al numero dei poveri stimati dall’Istat, ma inferiori del 60% rispetto al potenziale dei poveri residenti nelle regioni del Nord rilevati nell’indagine richiamata. Il requisito dei dieci anni di residenza nel nostro Paese per inoltrare le domande ha generato l’esclusione dei due terzi delle famiglie straniere povere, e di circa 500 mila minori, dai benefici del Rdc. Distorsioni che vengono ampliate dagli abusi derivanti dall’impossibilità da parte dell’Inps di verificare preventivamente la congruità delle domande, e delle dichiarazioni Isee autocertificate dai richiedenti, per la sostanziale assenza delle banche dati sui redditi e i patrimoni previste dalle normative, ma non ancora rese operative.
Tutto questo spiega il perché nonostante l’impiego di 18 miliardi dalla data di avvio del Rdc, l’introduzione del Reddito di emergenza nel corso della crisi Covid per allargare la platea dei beneficiari, le risorse distribuite a 2,2 milioni di nuclei familiari e circa 4 milioni di persone beneficiarie, il numero dei poveri stimati dall’Istat sia nel frattempo aumentato di un ulteriore milione e l’intensità della povertà (intesa come la distanza del reddito effettivo dall’indicatore medio utilizzato dall’Istat per stimare il numero delle persone povere) sia diminuita solo dell’1,6%.
Numeri che mettono in discussione anche la presunzione, data per scontata da buona parte degli esponenti politici e dai mass media, che il Reddito di cittadinanza abbia funzionato sul versante del contrasto della povertà assoluta, e che la riforma eventuale debba limitarsi a correggere la parte politiche attive finalizzata all’inserimento lavorativo dei beneficiari per il palese fallimento della cosiddetta operazione navigator.
Una tesi utilizzata a supporto della richiesta avanzata dal M5S, e sostenuta dal PD, di ampliare le risorse da mettere a disposizione del Rdc per contrastare la crescita del numero dei poveri. Un fenomeno che viene attribuito essenzialmente agli effetti della crisi Covid. Un palese tentativo di utilizzare i numeri del fallimento per giustificare la richiesta di nuove risorse.
L’esigenza di riformare l’impianto sarebbe motivata dalla concomitante decisione di estendere i benefici dell’Assegno unico per i figli a carico, in attuazione del Family Act (i 180-220 euro mensili per ogni figlio), anche alle famiglie fiscalmente incapienti. In pratica a tutte quelle beneficiarie del Rdc e degli immigrati in possesso di regolare permesso di soggiorno. Una determinazione che corregge da sola buona parte delle storture prodotte dai criteri di selezione per il Reddito di cittadinanza verso le famiglie numerose, gli immigrati e i minori. Scelte che, in parallelo, dovrebbero comportare una riduzione delle risorse da mettere a disposizione del Rdc, dato che la spesa per l’assegno unico proviene da un diverso capitolo del bilancio.
Nel frattempo si è consolidato un vasto consenso sull’opportunità di ricondurre le politiche attive per l’inserimento dei beneficiari del Rdc in età di lavoro nell’ambito delle regole previste per l’insieme delle persone in cerca di lavoro. La possibilità di rifiutare tutte le offerte di lavoro a tempo determinato e a part-time che viene loro consentita, mentre milioni di lavoratori svolgono abitualmente queste attività, è uno scandalo inaccettabile.
Ma una riforma del Rdc, che appare ovvia sulla base di criteri appartenenti alla categoria del buon senso, non è affatto scontata sul piano politico per tre diverse motivazioni.
Anzitutto, non va trascurato il fatto che gli effetti distorsivi generati dal provvedimento in corso sono il frutto di una precisa scelta politica, quella di mantenere elevato il sussidio di base del Reddito di cittadinanza per avvicinarlo alla promessa elettorale di garantire 780 euro mensili a tutte le persone prive di un reddito da lavoro. La scelta di trasformarla in uno strumento di contrasto della povertà è stata obbligata dalla non sostenibilità dei costi, ma tutto ciò è avvenuto introducendo criteri che limitano la crescita degli importi mensili per le famiglie numerose e la partecipazione dei nuclei familiari degli stranieri extracomunitari. Per M5S, il Rdc rappresenta l’ultima bandiera, la più difficile da ammainare.
Un secondo ostacolo è rappresentato dalla massa degli attuali beneficiari del Rdc (1,65 milioni di nuclei familiari e 3,2 milioni di persone, senza tener conto dei percettori del Reddito di emergenza) che rappresenta un blocco importante di interessi consolidati e un bacino di riferimento elettorale potenziale che non può essere trascurato. Come sempre accade, una volta messi in campo i sussidi assistenziali diventano difficili da riformare. Anzi, diventa più semplice per i parlamentari richiederne l’estensione ad altri soggetti indebitamente esclusi.
Infine, non deve essere trascurata che l’idea di introdurre un reddito di base non condizionato, garantito dallo Stato per tutti coloro che non hanno un’occupazione, definito non a caso come Reddito di cittadinanza, è tutt’altro che esaurita. Non sono in pochi sul versante della sinistra a considerarla come parte fondamentale, insieme all’estensione dei diritti civili e delle rivendicazioni ambientaliste, della piattaforma su cui fondare un’alleanza organica tra PD e M5S.
Il tema viene semplicemente rinviato, e sostanzialmente consegnato alla capacità del Presidente del Consiglio di trovare l’ennesima sintesi per le criticità interne alla maggioranza. Una soluzione possibile sul piano pratico, complicata per quello politico.
Immorale socialmente e stupido pedagogicamente, il reddito di cittadinanza per essere legittimo va chiamato reddito da lavoro e va attribuito rigorosamente in cambio di un lavoro anche nella forma del lavoro socialmente o collettivamente utile.
Finché ci saranno i 5 stelle al governo non potranno mai limitare questo sconcio che è servito soltanto ad assicurare a quel partito la residua esistenza sopratutto al sud. Quella montagna di denaro ha contribuito ad aumentare il debito pubblico ed a letteralmente a “rubare” denaro ai pochi fessi di cittadini che sono costretti a pagare le tasse in questo strano Paese che è l’Italia.