La lezione afghana



Giuseppe Ladetto    15 Ottobre 2021       2

I recenti fatti afghani hanno reso evidente tutto quanto era già chiaro, ma che l’opinione pubblica occidentale (condizionata dai media allineati all’establishment) non voleva vedere.

1) La prima cosa da prendere in considerazione è la natura della relazione fra i Paesi cosiddetti “alleati” e gli Stati Uniti nell’ambito della NATO. Al contrario di quanto la retorica celebra nelle varie occasioni, non è un rapporto tra soggetti di pari dignità, ma è quello che connota le relazioni fra una grande potenza (un impero) e i suoi satelliti.

Quante volte abbiamo sentito dire che la nostra presenza militare in Afghanistan era stata motivata dalla lotta al terrorismo, ma in seguito aveva assunto il compito di trasformare il Paese in uno Stato moderno, dotato di istituzioni democratiche. Un compito fatto proprio da tutti i Paesi della NATO impegnati nella missione sotto la guida degli Stati Uniti in uno stretto rapporto di collaborazione fra “alleati”.

Niente di vero. Joe Biden ha detto che l’America era andata in Afghanistan solo per distruggere le basi del terrorismo. I cosiddetti “alleati” la hanno seguita fra quelle montagne perché così voleva Washington, ma non hanno mai avuto alcuna voce in capitolo. Lo dimostra la decisione di andarsene presa dagli americani senza preavviso, né accordo preliminare con gli alleati, e ciò sino alla fine, quando si sono accinti a partire dimenticandosi di loro.

2) In Afghanistan, erano in gioco anche interessi nostri o dell’Europa, al di là degli obblighi che ci impone l’alleanza con gli USA?

Era anche nostro interesse, dicono gli atlantisti, combattere il terrorismo islamico sradicandolo da quella che, al momento, era la sua principale base territoriale, mentre era doveroso punire gli autori del terribile attentato dell’11 settembre, un attacco a tutto l’Occidente. In argomento, Lucio Caracciolo (in un articolo su “La Stampa” del 17 agosto) scrive: “Curiosa la decisione di vendicare l’attacco saudita-pakistano alle Torri Gemelle invadendo l’Afghanistan. Quanto di meno razionale si possa immaginare. Spiegabile, ma non giustificabile, con l’emozione di quei giorni, quando l’opinione pubblica americana reclamava una rappresaglia devastante, degna del Numero Uno che all’epoca torreggiava senza sfidanti sul pianeta”.

Inoltre, come riconosce anche Biden, quando raggiunto lo scopo con l’eliminazione di Osama Bin Laden (che guarda caso stava in Pakistan, un soggiorno non certo ignorato dai padroni di casa), non ci sarebbe più stata necessità di rimanere nel Paese, visto che ormai il terrorismo islamico, sotto le bandiere dell’ISIS e di Al Qaeda. aveva il suo principale campo di azione altrove (Siria, Iraq, Sahel). Allora. che cosa siamo rimasti a fare? Quali che siano state le motivazioni della potenza nord americana per rimanere, non erano certo nel nostro interesse (come non lo erano state quelle per indurci a partecipare alle azioni militari contro Serbia e Libia).

3) I Paesi occidentali hanno il dovere di esportare la democrazia, di esigere il rispetto dei diritti dell’uomo, di liberare le donne dalla schiavitù imposta da regimi ancorati a costumi premoderni. È quanto viene continuamente ripetuto da esponenti dei partiti e delle istituzioni, e riproposto dai media.

Dalle parole e dai comportamenti dei vertici americani in tutta questa vicenda (e in molte altre che la hanno preceduta), si evince che, alla base degli interventi militari da essi intrapresi (ciò che vale per tutte le grandi e medie potenze), c’è sempre la sola realpolitik, ovvero ci sono motivazioni geopolitiche (necessità di difesa e logiche di potenza). Il resto (esportare la democrazia, esigenze umanitarie, ecc.) è riassumibile nel termine “propaganda”. Soffermiamoci sulle vicende afghane per comprenderlo.

In Afghanistan, fin dagli anni Venti del secolo scorso, vari sovrani diedero corso a un cammino, sia pure altalenante, di riforme riguardanti anche la condizione femminile. Con la Repubblica, a partire dal 1978, prima col nazionalista Daoud Khan, poi con i governi del Partito Democratico Popolare di ispirazione marxista (1978-1992), tali riforme furono potenziate fino a giungere alla parità fra uomo e donna in tutti gli ambiti. Purtroppo, la storia è tornata indietro a partire dal 1992. È in tale data che ha preso corso la via crucis delle donne afghane, con la conquista del potere da parte dei mujaeddin, i protagonisti della “resistenza” alla presenza sovietica, una resistenza incentivata e sostenuta dagli americani (insieme a sauditi e pakistani) con larghezza di mezzi finanziari, di armamenti e di supporto informativo.

Il primo atto dei “resistenti” vittoriosi fu la creazione di uno Stato islamico con la rimozione dei diritti ottenuti dalle donne. La sharia divenne la legge fondamentale del Paese. Per le donne, ci furono l’introduzione del velo, la segregazione nelle scuole, l’esclusione dalla più parte delle attività lavorative, la lapidazione in caso di adulterio, il tutto accompagnato da continui episodi di violenza nei loro confronti.

Malgrado tali fatti, silenzio assoluto da parte dei media di casa nostra. È evidente che l’obiettivo occidentale era stato sottrarre l’Afghanistan all’influenza sovietica senza alcuna preoccupazione per le ricadute sulla condizione del popolo afghano e delle sue donne in particolare. Si aggiunga che l’Afghanistan, subito dopo l’avvento dei mujaeddin, fu teatro di un continuo conflitto fra i “signori della guerra” (i capi delle varie fazioni tribali in cui era divisa la “resistenza”), sicché i talebani ebbero facile gioco, nella stanchezza del Paese per il caos imperante, a impadronirsi del potere; un’impresa, in un primo tempo, vista con favore da molte parti, America compresa.

Attualmente di tutto ciò non si parla, e si fa finta che la schiavitù delle donne afghane sia nata solo nel 1996 con l’ingresso in scena dei talebani (che certo l’hanno mantenuta e inasprita) per nascondere le responsabilità di chi, avendo promosso e sostenuto, per logiche geopolitiche, la “resistenza” dei mujaeddin, ha precipitato il Paese in un oscuro medioevo. Inoltre, oggi, per evitare che il Paese ricada nel caos, diventando un rifugio per il terrorismo islamico, si assegna nuovamente ai talebani, anche da parte americana, il compito di tenerlo insieme, a dispetto di quanti partecipano alle diatribe sul riconoscimento o meno del movimento degli studenti coranici.

4) La lezione afghana smentisce un altro racconto. In questi ultimi anni, abbiamo assistito a un’aspra contrapposizione, negli Stati Uniti, tra democratici e repubblicani, fra Trump e i principali esponenti democratici. A fronte di ciò, in Italia e in Europa, la comunità politica e giornalistica si era subito schierata: le destre cosiddette sovraniste con Trump, con i democratici tutti gli altri. A sentire i simpatizzanti delle due parti, il futuro dell’Italia, dell’Europa e del mondo sarebbe dipeso dal risultato delle elezioni presidenziali americane.

Oggi, abbiamo visto che non è così, almeno per quanto riguarda la politica internazionale. Restando alla lezione afghana, da Obama, passando per Trump, fino a Biden, il destino dell’Afghanistan era già stato definito, avendo come orizzonte il solo interesse americano. Come ci dice sempre Dario Fabbri, le linee politiche messe in campo in ambito internazionale da una grande o media potenza sono dettate dalle ragioni su cui si regge il suo status. Interpreti di tali politiche, negli Stati Uniti, sono essenzialmente i vari apparati, le principali Agenzie federali, il Pentagono, il complesso militare industriale. La voce dei presidenti certo conta, ma non fino al punto di poter modificare dei percorsi dettati dalla storia del Paese. Qui la continuità si rende palese. Il primo obiettivo resta sempre il mantenimento della leadership planetaria, ma la stanchezza di crescente parte dei cittadini per l’impegno richiesto (già interpretata da Trump e ora raccolta anche da Biden) ha imposto di ridurre le azioni politico-militari all’essenziale (contenere o ridimensionare lo spazio di Cina e Russia) ritirandosi dagli scenari di minore rilevanza (come Afghanistan, Iraq, Africa settentrionale, e lo stesso spazio euro-mediterraneo).

5) Altro aspetto evidenziato dai fatti afghani riguarda la condizione delle forze armate della più parte dei Paesi europei aderenti alla NATO. Ad eccezione delle forze armate francesi, tutte quelle dei Paesi dell’UE non sono in grado di operare in autonomia in qualunque scenario bellico: necessitano infatti di supporti nella sola disponibilità delle forze americane, ciò che non consente agli europei di essere operativi se non nell’ambito dell’alleanza.

A cospetto di una tale situazione, si sono levate autorevoli voci in Europa a rivendicare la creazione di un esercito europeo. C’è stato subito chi ha respinto l’idea dicendo che non può esserci un esercito europeo senza una comune politica estera. Affermazione che può essere capovolta: non può esserci una comune politica estera europea senza il supporto di un braccio armato che la renda credibile. Ovviamente sono due obiettivi strettamente legati: non c’è l’uno senza l’altro, ed entrambi sono più che mai necessari quando l’America si ritira da spazi per lei non più rilevanti, ma vitali per gli europei. Tuttavia il problema è che i due obiettivi (forze armate e diplomazia europee comuni) sono irrealizzabili entro il quadro della NATO e dell’Alleanza atlantica.

Deve essere ben chiaro che gli Stati Uniti non intendono perdere il controllo dell’Europa e che la conquista di uno spazio autonomo da parte europea imporrà un durissimo confronto con Washington, chiunque guidi il Paese. Difficile che su questa strada si mettano i Paesi europei minori, mentre potranno prenderla in considerazione Francia e Germania, il nucleo di quell’Europa carolingia che ormai mal sopporta una condizione satellitare.

Al momento, noi italiani dobbiamo accontentarci di un obiettivo minore. Scrive Lucio Caracciolo che l’America, mentre si concentra sul contenimento di Cina e Russia, deve impegnarsi anche sui gravi problemi di casa propria e sanare le fratture socioculturali domestiche, varando megapiani economici di fantastiliardi. Una scelta che viene accompagnata dalla richiesta agli “alleati” di rafforzare il presidio delle rispettive aree di competenza. Aggiunge Caracciolo: “Di qui una possibile salutare conseguenza anche per noi: invece di battere bandiera a casaccio in giro per il mondo, addestrando e armando i nostri futuri nemici solo per ostentarci serventi alla causa del Superiore, e ottenere l’esatto opposto di quanto proclamato, potremmo finalmente, con la benedizione di Washington (o almeno dei suoi apparati meno disorientati), concentrare le nostre scarse risorse, non solo militari, nelle aree di nostro immediato interesse: lo Stretto di Sicilia, non quello di Taiwan; il deserto del Sahara con le proiezioni saheliane, non quello del Rigestan; i rilievi balcanici con i loro santuari jihadisti e non l’Hindu-Kush. Carta canta. Basta leggerla”.


2 Commenti

  1. l’Europa, è inutile nasconderlo, è ancora in uno stato embrionale. l’allargamento ai Paesi balcanici anziché rafforzarla l’ha fortemente indebolita. In questa situazione non possiamo fare a meno di avere un “protettore” dal punto di vista militare. Per questo siamo costretti ogni volta a chinare il capo alle decisioni dello stesso. Bisognava seguire il metodo adottato per la formazione degli Stati Uniti d’America. Completare la unione politica e militare degli Stati fondatori e solo dopo accettare l’allargamento, uno alla volta dei successivi Stati. Ora siamo condannati al litigio continuo sugli interessi di parte e a defaticanti ricerche di accordi comuni. Un esercito comune può esistere soltanto se nasce un concetto di Patria comune. Il servilismo fastidioso agli USA rimane una necessità per ora inderogabile.

  2. Ancora una volta devo dire che l’articolo di Giuseppe Ladetto dovrebbe essere imparato a memoria dai funzionari della Farnesima. Molto realistico l’ultimo capoverso, auspicabile e pure molto fattibile da applicare … basterebbe la volontà.

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