Venti anni fa, l'11 settembre 2001: l'attacco alle Torri gemelle di New York. Chi ha almeno 30 anni ricorda cosa stava facendo quando giunse quella notizia incredibile: a Manhattan un aereo era andato a schiantarsi contro una delle due Torri gemelle. Guasto meccanico, errore umano o cos'altro?
La risposta arrivò poco dopo sui teleschermi quando comparve un altro velivolo e un mondo sbigottito lo vide infrangersi contro il secondo grattacielo, infilandosi come una lama nel vetro e nell'acciaio dell'edificio. Da quell'istante più nessun dubbio: era un attentato terroristico. Una micidiale sequenza alla quale si aggiungevano altri due aerei: uno che si gettava a picco contro il Pentagono e l'ultimo, il cui bersaglio sarebbe stato forse la Casa Bianca o il Campidoglio, finiva la sua corsa tra i boschi della Pennsylvania grazie al coraggioso intervento sui dirottatori da parte dell'equipaggio e dei passeggeri.
Oltre tremila i morti: una strage senza precedenti. Un'azione di guerra che violava, per la prima volta, il territorio americano. Uno shock per il mondo intero. Non è esagerato dire che quella data rappresentò uno spartiacque tra un prima e un dopo. Inevitabile, in questa situazione, la reazione americana ed occidentale contro il terrorismo di matrice islamica e i santuari che da tempo gli stavano offrendo supporto e protezione.
In quest'ottica - e non giudicandolo con il senno di poi - va valutato l'intervento in Afghanistan per rovesciare il regime talebano, complice della rete terroristica che aveva pianificato l'attacco. Certo, gli errori cominciarono presto. Primo tra tutti la guerra contro l'Iraq di Saddam Hussein ritenuto, a torto, di avere mire aggressive verso gli Stati Uniti. Il risultato fu la completa destabilizzazione dell'intera area poiché Saddam, dittatore laico e nazionalista, teneva a freno l'integralismo islamico. Con la sua caduta tutte le ramificazioni fondamentaliste trovarono terreno fertile per le loro scorribande, sino alla nascita dell'Isis e allo sconvolgimento di tutta la regione siriana e mesopotamica.
A venti anni di distanza dall'attacco alle Torri, quale bilancio può esser fatto? La lotta al terrorismo qualche successo lo ha conseguito, soprattutto grazie alle esecuzioni mirate di molti dei capi di Al Qaida, ad iniziare da Osama Bin Laden, e dell'Isis. Il fatto è che la risposta americane doveva circoscriversi al solo contrasto al terrorismo senza avere l'ambizione di democratizzare il mondo islamico. Un obiettivo fallito in pieno. Né poteva essere diversamente.
E' infatti impensabile dar vita ad un sistema democratico dal nulla, trapiantandolo artificialmente in società, come quelle musulmane, del tutto prive di una cultura liberale. Cultura che, peraltro, in Europa e in Occidente si è comunque formata nel corso di diversi secoli. In Iraq e in Afghanistan gli Stati Uniti si sono illusi di fare come con la Germania e il Giappone dopo la Seconda guerra mondiale. Un clamoroso abbaglio.
A Berlino, dopo il regime hitleriano, e a Tokyo, dopo l'ubriacatura ultra nazionalista, tutto era pronto per chiudere quelle tragiche parentesi totalitarie ed intraprendere un cammino democratico. Vi era, in entrambi i Paesi, un contesto sociale e culturale, ancor prima che politico, adatto alla rinascita di robuste e vitali istituzioni libere. Trasporre lo stesso meccanismo nelle società islamiche strutturalmente lontane e, forse, come mostrano i richiami alla Sharia, persino avverse alla nostra concezione della libertà e dei diritti - pensiamo a quelli delle donne - si è rivelato del tutto velleitario.
Di certo l'11 settembre ha reso il mondo meno sicuro. Da quel giorno ci siamo abituati, in ogni parte del mondo, Paesi musulmani compresi, che vi è una rete fondamentalista che progetta di attaccare e distruggere la nostra convivenza civile, che odia la nostra libertà, che considera blasfemo il nostro modo di vivere. A quel punto basta la rabbia improvvisa di qualche kamikaze per mettere, in qualsiasi momento, a repentaglio la nostra vita. Lo abbiamo tragicamente sperimentato in Francia, a Parigi con il Bataclan e a Nizza con il camion in folle corsa sulla Promenade, ma anche in Olanda, in Svezia, in Germania e nelle stragi, di cristiani e di musulmani, in Sri Lanka o in Indonesia.
Poi - ed è storia di oggi - eccoci alle prese con una pandemia che colpisce in ogni angolo del pianeta: la globalizzazione esemplificata in modo perfetto. Certo, stiamo parlando di un tema assai diverso dal terrorismo fondamentalista, ma i due fenomeni sono accomunati dal fatto che si tratta di questioni non risolvibili su scala nazionale o con logiche unilaterali. Bisognerà cooperare in tutte le sedi a cominciare dall'Onu e dal G20. Sfide di questa portata richiedono la massima collaborazione internazionale: unica chiave per avere speranze di successo.
La risposta arrivò poco dopo sui teleschermi quando comparve un altro velivolo e un mondo sbigottito lo vide infrangersi contro il secondo grattacielo, infilandosi come una lama nel vetro e nell'acciaio dell'edificio. Da quell'istante più nessun dubbio: era un attentato terroristico. Una micidiale sequenza alla quale si aggiungevano altri due aerei: uno che si gettava a picco contro il Pentagono e l'ultimo, il cui bersaglio sarebbe stato forse la Casa Bianca o il Campidoglio, finiva la sua corsa tra i boschi della Pennsylvania grazie al coraggioso intervento sui dirottatori da parte dell'equipaggio e dei passeggeri.
Oltre tremila i morti: una strage senza precedenti. Un'azione di guerra che violava, per la prima volta, il territorio americano. Uno shock per il mondo intero. Non è esagerato dire che quella data rappresentò uno spartiacque tra un prima e un dopo. Inevitabile, in questa situazione, la reazione americana ed occidentale contro il terrorismo di matrice islamica e i santuari che da tempo gli stavano offrendo supporto e protezione.
In quest'ottica - e non giudicandolo con il senno di poi - va valutato l'intervento in Afghanistan per rovesciare il regime talebano, complice della rete terroristica che aveva pianificato l'attacco. Certo, gli errori cominciarono presto. Primo tra tutti la guerra contro l'Iraq di Saddam Hussein ritenuto, a torto, di avere mire aggressive verso gli Stati Uniti. Il risultato fu la completa destabilizzazione dell'intera area poiché Saddam, dittatore laico e nazionalista, teneva a freno l'integralismo islamico. Con la sua caduta tutte le ramificazioni fondamentaliste trovarono terreno fertile per le loro scorribande, sino alla nascita dell'Isis e allo sconvolgimento di tutta la regione siriana e mesopotamica.
A venti anni di distanza dall'attacco alle Torri, quale bilancio può esser fatto? La lotta al terrorismo qualche successo lo ha conseguito, soprattutto grazie alle esecuzioni mirate di molti dei capi di Al Qaida, ad iniziare da Osama Bin Laden, e dell'Isis. Il fatto è che la risposta americane doveva circoscriversi al solo contrasto al terrorismo senza avere l'ambizione di democratizzare il mondo islamico. Un obiettivo fallito in pieno. Né poteva essere diversamente.
E' infatti impensabile dar vita ad un sistema democratico dal nulla, trapiantandolo artificialmente in società, come quelle musulmane, del tutto prive di una cultura liberale. Cultura che, peraltro, in Europa e in Occidente si è comunque formata nel corso di diversi secoli. In Iraq e in Afghanistan gli Stati Uniti si sono illusi di fare come con la Germania e il Giappone dopo la Seconda guerra mondiale. Un clamoroso abbaglio.
A Berlino, dopo il regime hitleriano, e a Tokyo, dopo l'ubriacatura ultra nazionalista, tutto era pronto per chiudere quelle tragiche parentesi totalitarie ed intraprendere un cammino democratico. Vi era, in entrambi i Paesi, un contesto sociale e culturale, ancor prima che politico, adatto alla rinascita di robuste e vitali istituzioni libere. Trasporre lo stesso meccanismo nelle società islamiche strutturalmente lontane e, forse, come mostrano i richiami alla Sharia, persino avverse alla nostra concezione della libertà e dei diritti - pensiamo a quelli delle donne - si è rivelato del tutto velleitario.
Di certo l'11 settembre ha reso il mondo meno sicuro. Da quel giorno ci siamo abituati, in ogni parte del mondo, Paesi musulmani compresi, che vi è una rete fondamentalista che progetta di attaccare e distruggere la nostra convivenza civile, che odia la nostra libertà, che considera blasfemo il nostro modo di vivere. A quel punto basta la rabbia improvvisa di qualche kamikaze per mettere, in qualsiasi momento, a repentaglio la nostra vita. Lo abbiamo tragicamente sperimentato in Francia, a Parigi con il Bataclan e a Nizza con il camion in folle corsa sulla Promenade, ma anche in Olanda, in Svezia, in Germania e nelle stragi, di cristiani e di musulmani, in Sri Lanka o in Indonesia.
Poi - ed è storia di oggi - eccoci alle prese con una pandemia che colpisce in ogni angolo del pianeta: la globalizzazione esemplificata in modo perfetto. Certo, stiamo parlando di un tema assai diverso dal terrorismo fondamentalista, ma i due fenomeni sono accomunati dal fatto che si tratta di questioni non risolvibili su scala nazionale o con logiche unilaterali. Bisognerà cooperare in tutte le sedi a cominciare dall'Onu e dal G20. Sfide di questa portata richiedono la massima collaborazione internazionale: unica chiave per avere speranze di successo.
Lo shock patito dagli USA in quel 11 settembre, secondo le vecchie logiche della politica internazionale necessariamente doveva condurre ad una reazione bellica con tutto il peso della prima potenza planetaria.
La fallimentare occupazione ventennale e la conclusiva ritirata caotica inducono ad alcune considerazioni.
Dalla prima potenza mondiale ci si sarebbe dovuto attendere una reazione meno istintiva e più razionale, soprattutto una volta conclusa la fase prettamente militare.
Da un po’ di tempo stanno venendo alla luce i legami piuttosto stretti tra l’intellighentsia del terrore e diversi paesi islamici, in primis Arabia Saudita, Qatar, Pakistan che, allo stesso tempo, hanno avuto e hanno tuttora consolidati rapporti di alleanza politica, economica e anche militare con grandi basi.
In conclusione, dagli USA, grande potenza politica, militare, tecnologica e culturale, potevamo ragionenevolmente aspettarci un diverso esito, considerato che ne esistevano tutte le premesse.