Enrico Letta corre a Siena il suo Palio, ma senza insegne. Nella città delle contrade, dei simboli e degli stemmi per eccellenza, rinuncia al gonfalone del PD e chiede i voti per se stesso. Ma anche per il Monte dei Paschi, viene da chiedersi?
Il centrodestra italiano ha molte incoerenze. Ma a sinistra non è che si stia molto meglio. Non si tratta di dare un colpo al cerchio e uno alla botte per accontentare quelli che stanno sempre pronti con il centimetro a cercare un “centro” che, con cura, misura le distanze da assumere da una parte e dall’altra.
Enrico Letta, che si presenta a Siena senza il simbolo del PD, si fa così emblema di una crisi profonda in cui sono piombati il suo partito, l’intera sinistra e, persino, i 5 Stelle. Quest’ultimi partecipi di una vera e propria controversa coalizione, piuttosto che di un’alleanza momentanea e strumentale sollecitata dall’improvvido abbandono di Salvini della cosiddetta maggioranza giallo-verde, inopinatamente spuntata fuori dopo i risultati delle elezioni del 4 marzo 2018. Se quella scimmiottatura dell’ottocentesco “trasformismo” di Agostino de Pretis fallì miseramente in meno di un anno, non è andata molto meglio al successivo “papocchio” 5 stelle-PD costretto, poi, a gettare la spugna e a lasciare campo libero a Mario Draghi.
Il modo in cui giunge la candidatura di Letta nella città del Palio sta plasticamente a raccontare lo smarrimento di una prospettiva e del significato del progetto di dare vita, con il PD, ad un partito dalla vocazione maggioritaria. In realtà, siamo di fronte a un mero tentativo di conservare l’unica cosa che conta per il Partito Democratico e che, ancora, gli dà una forza residua: l’apparato di potere, con una presenza radicata nelle istituzioni e nel sistema della comunicazione, che prova a sopravvivere a se stesso? Da anni lo fa attaccandosi esclusivamente all’esistente. Soprattutto, finché è durato il governo di tante Regioni conquistate. Ultimamente assottigliatesi fino a restare praticamente ridotte ai due “fortilizi” storici della sinistra socialcomunista, Emilia Romagna e Toscana. Più Campania e Puglia, dove però il partito, che oggi è di Letta, deve accettare di buon grado le politiche personalissime imposte da personaggi come Vincenzo De Luca e Michele Emiliano. I due si comportano da veri e propri moderni “satrapi”, in grado di condizionare la dirigenza nazionale come mai sarebbe stato pensabile nel vecchio PCI e nella Democrazia cristiana.
Il PD sta pagando amaramente il vizio dell’autoreferenzialità, il non voler avviare una profonda riflessione sul proprio essere e sul proprio ruolo nella politica italiana, il distacco crescente con quelle realtà sociali e culturali che tanto, a suo tempo, avevano giustificato la presenza dei comunisti e i padri di quei democristiani che hanno poi deciso di entrare a far parte del Partito Democratico. Ci sarebbe da approfondire se sia lo smarrimento della via la causa di un declino o se, al contrario, il calo di tensione sociale e politica è accettato come male minore, mancando la sostanza culturale e programmatica per rispondere ad esso. L’importante è salvare l’assetto di potere di cui, comunque, si gode e che, se ben utilizzato, consente di poter sfruttare un’ampia “utilità marginale” in grado di condizionare la vita politica complessiva, alcune regioni, grosse parti dell’apparato istituzionale, il mondo della comunicazione e, per quota parte, persino la magistratura (stando almeno ai racconti di Luca Palamara e all’esperienza precedente).
Enrico Letta aveva lasciato sdegnato la politica dopo che il suo partito gli aveva preferito lo “stai sereno” di Matteo Renzi ed era quindi uscito dal Parlamento per rifugiarsi, alla Cincinnato, non proprio vicino Roma, ma in quella Parigi con cui egli ha sempre avuto forti rapporti. È del tutto evidente che prima o poi avrebbe potuto provare a tornare in Parlamento perché non ci sono mai stati casi di un leader di partito fuori da una delle due Camere. Qualcuno ricorderà Beppe Grillo. Ma, a parte che la sua figura e il suo ruolo sono diversi da quelli di un ordinario segretario di partito, verrebbe proprio da dire: e si vede! visto il caos in cui sono finiti i 5 Stelle.
In ogni caso, invece di scegliere il seggio suppletivo di Roma, dove si voterà in contemporanea, Letta il giovane – per distinguerlo dal Gianni suo zio, da sempre fidato consigliere di Silvio Berlusconi – il prossimo ottobre corre a Siena. A differenza di quello che fanno i colorati fantini delle dieci contrade senesi nel Palio della Madonna di Provenzano del 2 luglio e in quello del 16 agosto, nel giorno dell’Assunta, egli non mostrerà alcun drappo, ma solamente il suo nome. Sulla scheda, infatti, chi vorrà votarlo dovrà mettere la croce sulla dicitura Con Enrico Letta “in colore bianco sullo sfondo di un tondo rosso fegato”, come ci dice il giornale fiancheggiatore “La Repubblica”.
C’è da chiedersi se quella sfumatura “rosso fegato” non voglia rappresentare adeguatamente il territorio senese. Nel senso che ben esprime le preoccupazioni dell’intera città per le sorti di quello che a lungo è stato un autentico gioiello da esibire a fronte di tutti e cinque i continenti: il Monte dei Paschi di Siena, la prima banca a nascere al mondo. Per anni e anni autentica produttrice di risorse e di posti di lavoro che oggi sono a rischio e ciò fa… ingrossare il fegato ai senesi. Cosa della quale la sinistra si deve fare ovviamente carico per prima, visto che ha dominato, città e Monte, in maniera ferrea; secondo qualche critico anche in maniera “mafiosa”, ovviamente come possono essere mafiosi i toscani, maestri sì dello scontro, ma altrettanto abili e capaci nel consociativismo.
Non è sicuramente un caso se il pisano/romano/parigino Letta va a Siena dove ha appena lasciato vacante il seggio parlamentare il professor Carlo Padoan finito a fare il Presidente del Consiglio di amministrazione di Unicredit, uno dei due colossi bancari made in Italy che, si spera, tiri fuori i senesi dalla disperazione e dalla paura di veder definitivamente finire a rotoli il loro caro Monte. C’è una città intera da salvare e, allora, a fronte di un candidato non proprio irresistibile presentato dalla destra, Letta ha buon gioco a non indossare i panni di nessuno, neppure quelli del PD.
Ma così facendo, entra anche lui in quella logica del partito del leader, malattia che in realtà ha già gravemente afflitto il PD con Matteo Renzi. Apre più che mai la questione del futuro dei democratici. Sarà in grado il “fantino” Letta senza insegne, non dico di vincere, ma almeno d’avviare la sfida che vale ben più di un Palio cittadino?
(Tratto da www.politicainsieme.com)
Il centrodestra italiano ha molte incoerenze. Ma a sinistra non è che si stia molto meglio. Non si tratta di dare un colpo al cerchio e uno alla botte per accontentare quelli che stanno sempre pronti con il centimetro a cercare un “centro” che, con cura, misura le distanze da assumere da una parte e dall’altra.
Enrico Letta, che si presenta a Siena senza il simbolo del PD, si fa così emblema di una crisi profonda in cui sono piombati il suo partito, l’intera sinistra e, persino, i 5 Stelle. Quest’ultimi partecipi di una vera e propria controversa coalizione, piuttosto che di un’alleanza momentanea e strumentale sollecitata dall’improvvido abbandono di Salvini della cosiddetta maggioranza giallo-verde, inopinatamente spuntata fuori dopo i risultati delle elezioni del 4 marzo 2018. Se quella scimmiottatura dell’ottocentesco “trasformismo” di Agostino de Pretis fallì miseramente in meno di un anno, non è andata molto meglio al successivo “papocchio” 5 stelle-PD costretto, poi, a gettare la spugna e a lasciare campo libero a Mario Draghi.
Il modo in cui giunge la candidatura di Letta nella città del Palio sta plasticamente a raccontare lo smarrimento di una prospettiva e del significato del progetto di dare vita, con il PD, ad un partito dalla vocazione maggioritaria. In realtà, siamo di fronte a un mero tentativo di conservare l’unica cosa che conta per il Partito Democratico e che, ancora, gli dà una forza residua: l’apparato di potere, con una presenza radicata nelle istituzioni e nel sistema della comunicazione, che prova a sopravvivere a se stesso? Da anni lo fa attaccandosi esclusivamente all’esistente. Soprattutto, finché è durato il governo di tante Regioni conquistate. Ultimamente assottigliatesi fino a restare praticamente ridotte ai due “fortilizi” storici della sinistra socialcomunista, Emilia Romagna e Toscana. Più Campania e Puglia, dove però il partito, che oggi è di Letta, deve accettare di buon grado le politiche personalissime imposte da personaggi come Vincenzo De Luca e Michele Emiliano. I due si comportano da veri e propri moderni “satrapi”, in grado di condizionare la dirigenza nazionale come mai sarebbe stato pensabile nel vecchio PCI e nella Democrazia cristiana.
Il PD sta pagando amaramente il vizio dell’autoreferenzialità, il non voler avviare una profonda riflessione sul proprio essere e sul proprio ruolo nella politica italiana, il distacco crescente con quelle realtà sociali e culturali che tanto, a suo tempo, avevano giustificato la presenza dei comunisti e i padri di quei democristiani che hanno poi deciso di entrare a far parte del Partito Democratico. Ci sarebbe da approfondire se sia lo smarrimento della via la causa di un declino o se, al contrario, il calo di tensione sociale e politica è accettato come male minore, mancando la sostanza culturale e programmatica per rispondere ad esso. L’importante è salvare l’assetto di potere di cui, comunque, si gode e che, se ben utilizzato, consente di poter sfruttare un’ampia “utilità marginale” in grado di condizionare la vita politica complessiva, alcune regioni, grosse parti dell’apparato istituzionale, il mondo della comunicazione e, per quota parte, persino la magistratura (stando almeno ai racconti di Luca Palamara e all’esperienza precedente).
Enrico Letta aveva lasciato sdegnato la politica dopo che il suo partito gli aveva preferito lo “stai sereno” di Matteo Renzi ed era quindi uscito dal Parlamento per rifugiarsi, alla Cincinnato, non proprio vicino Roma, ma in quella Parigi con cui egli ha sempre avuto forti rapporti. È del tutto evidente che prima o poi avrebbe potuto provare a tornare in Parlamento perché non ci sono mai stati casi di un leader di partito fuori da una delle due Camere. Qualcuno ricorderà Beppe Grillo. Ma, a parte che la sua figura e il suo ruolo sono diversi da quelli di un ordinario segretario di partito, verrebbe proprio da dire: e si vede! visto il caos in cui sono finiti i 5 Stelle.
In ogni caso, invece di scegliere il seggio suppletivo di Roma, dove si voterà in contemporanea, Letta il giovane – per distinguerlo dal Gianni suo zio, da sempre fidato consigliere di Silvio Berlusconi – il prossimo ottobre corre a Siena. A differenza di quello che fanno i colorati fantini delle dieci contrade senesi nel Palio della Madonna di Provenzano del 2 luglio e in quello del 16 agosto, nel giorno dell’Assunta, egli non mostrerà alcun drappo, ma solamente il suo nome. Sulla scheda, infatti, chi vorrà votarlo dovrà mettere la croce sulla dicitura Con Enrico Letta “in colore bianco sullo sfondo di un tondo rosso fegato”, come ci dice il giornale fiancheggiatore “La Repubblica”.
C’è da chiedersi se quella sfumatura “rosso fegato” non voglia rappresentare adeguatamente il territorio senese. Nel senso che ben esprime le preoccupazioni dell’intera città per le sorti di quello che a lungo è stato un autentico gioiello da esibire a fronte di tutti e cinque i continenti: il Monte dei Paschi di Siena, la prima banca a nascere al mondo. Per anni e anni autentica produttrice di risorse e di posti di lavoro che oggi sono a rischio e ciò fa… ingrossare il fegato ai senesi. Cosa della quale la sinistra si deve fare ovviamente carico per prima, visto che ha dominato, città e Monte, in maniera ferrea; secondo qualche critico anche in maniera “mafiosa”, ovviamente come possono essere mafiosi i toscani, maestri sì dello scontro, ma altrettanto abili e capaci nel consociativismo.
Non è sicuramente un caso se il pisano/romano/parigino Letta va a Siena dove ha appena lasciato vacante il seggio parlamentare il professor Carlo Padoan finito a fare il Presidente del Consiglio di amministrazione di Unicredit, uno dei due colossi bancari made in Italy che, si spera, tiri fuori i senesi dalla disperazione e dalla paura di veder definitivamente finire a rotoli il loro caro Monte. C’è una città intera da salvare e, allora, a fronte di un candidato non proprio irresistibile presentato dalla destra, Letta ha buon gioco a non indossare i panni di nessuno, neppure quelli del PD.
Ma così facendo, entra anche lui in quella logica del partito del leader, malattia che in realtà ha già gravemente afflitto il PD con Matteo Renzi. Apre più che mai la questione del futuro dei democratici. Sarà in grado il “fantino” Letta senza insegne, non dico di vincere, ma almeno d’avviare la sfida che vale ben più di un Palio cittadino?
(Tratto da www.politicainsieme.com)
La scelta di Letta mi pare questa:
lui é il candidato del governo Draghi
l’altro candidato é il candidato della Meloni
una terza ipotesi (Insieme di Stefano Zamagni? Oppure candidato della Federazione di centro destra?) non é data…
Bell’articolo, scritto bene e molto scorrevole( il che non guasta visto l’argomento). Fotografa in modo nitido la realtà. La domanda è: non dico i vertici ma gli elettori del PD quando prenderanno atto delle assurdità che il PD continua a propinarci? Se solo 15 anni fa qualcuno avesse detto che un leader di partito correva alle elezioni senza il simbolo del suo partito lo avrebbero preso per matto.
questo signore sembra che si vergogni del simbolo del partito di cui è segretario. Una cosa che sa dell’incredibile! Poi, insieme a Salvini e Meloni non fa che creare problemi al governo di Draghi per motivi di bottega, appoggiando normative in Parlamento che potrebbero essere rimandate a tempi più tranquilli. Questa pericolosa giostra spero che finisca presto per il bene dei cittadini che prevalentemente si sforzano di essere responsabili partecipi al bene dell’Italia