Nella più parte dei media di casa nostra è stato tutto un peana indirizzato al nuovo Presidente statunitense che finalmente ci riporta l’America di sempre. Un’America che protegge l’Europa dai molti pericoli che la minacciano, fra i quali gli assalti dei regimi autocratici contro la democrazia, gli attacchi cibernetici contro imprese e strutture produttive, la disinformazione e le fake news che inquinano l’informazione politica. Ed è ancora questa America a poter garantire sicurezza agli europei a fronte delle molteplici criticità che incombono, come capita oggi con il Covid, grazie ai validi vaccini prodotti dalle sue industrie d’avanguardia.
Chiusa la parentesi dei turbolenti anni della presidenza Trump, si ritorna alla collaborazione tra Europa ed America anche in ambito economico, rimuovendo la guerra commerciale che ha danneggiato entrambe le parti. Con il rinsaldato legame transatlantico, si riafferma la capacità delle democrazie di uscire vincenti rispetto alle potenze autocratiche nelle sfide poste dalla nuova era verso cui siamo incamminati.
Tuttavia, dalla riunione del G7 in Cornovaglia (11-13 giugno) e dal summit NATO di Bruxelles del 14 giugno, emerge una realtà non certo collimante con l’idilliaco quadro dipinto dai militanti dell’atlantismo ideologico.
A ben vedere, Biden, nel viaggio in Europa, dietro al proclamato rinnovato impegno verso gli “alleati”, ha posto esplicitamente la richiesta di un riallineamento sulle posizioni di Washington ovunque e in ogni ambito, in cambio della sua protezione o semplicemente della sua benevolenza. Ha messo in chiaro che i nemici dell’America (cioè i suoi competitori o semplicemente quanti non ne accettano il ruolo egemonico) devono essere considerati tali anche dagli alleati. La Russia è doverosamente un nemico per tutti. Fra USA e Cina, non possono esserci spazi in cui possa inserirsi chi si dichiara amico dell’America e della democrazia. Quindi rottura con Russia e Cina, e rafforzamento della NATO.
In materia, scrive Lucio Caracciolo, queste pressioni del capocordata non possono essere ignorate, perché noi europei non siamo neutrali, ma parte del campo occidentale, ancorché questo sia incoerente, indebolito e diviso. Tuttavia, aggiunge, bisogna riconoscere che America is back non affascina più opinioni pubbliche e governi europei. Nessuno vuole farsi trascinare in uno scontro che potrebbe tralignare in guerra. Tutti i Paesi atlantici, sotto la pressione della nuova amministrazione americana, hanno assunto una postura più dura verso la Cina (protezione delle industrie strategiche e dei dati sensibili), ma non intendono partecipare alla guerra fredda (o peggio calda) contro Pechino. In particolare francesi e tedeschi non sono convinti che la Cina sia un loro avversario e, per quanto possibile, intendono continuare a commerciare ed avere relazioni economiche con il grande paese asiatico.
In Francia, è esplicito il rifiuto di accettare la richiesta di subalternità ai dettami di Washington. Solo alcuni mesi fa, Macron aveva detto che, pur essendo gli americani i nostri alleati storici, e pur noi avendo con loro alcuni importanti riferimenti comuni, ne abbiamo altri che ci differenziano. Guardiamo con altri occhi al Vicino e Medio Oriente, alla Russia, all'Africa, sicché la nostra politica di vicinato con tali realtà non è quella degli USA, e, pertanto, la nostra politica internazionale non può dipendere dalla loro e seguirne le orme perché abbiamo obiettivi solo parzialmente coincidenti. I tedeschi, più cauti in tema di dichiarazioni altisonanti, fanno comunque chiaramente intendere di non essere disposti a rivedere gli accordi economici già avviati con Cina e Russia. In pratica francesi e tedeschi vogliono diventare più autonomi anche correndo dei rischi.
Secondo Caracciolo, gli europei sono divisi in due gruppi: quelli che vogliono diventare più autonomi, e che in parte già lo sono (francesi e tedeschi), e quelli che (come certi giovani che vogliono permanere in uno stadio infantile e non emanciparsi dai genitori) intendono restare dipendenti senza assumere responsabilità ed impegni gravosi (molti Paesi est europei e i Paesi frugali o bottegai).
Dove si colloca l’Italia? Domanda inutile nel caso dei molti (politici, opinionisti, cittadini) che gioiscono per il ritorno di “mamma America”. Ma, dice Caracciolo, questo ritorno è un’illusione. Infatti il discorso sotteso che ci fa la nuova amministrazione è: “Sulle cose che contano noi decidiamo, voi applicate. Per il resto imparate a cavarvela da soli. Non facciamo chirurgia ordinaria, solo salvavita. In particolare Libia e Mediterraneo sono affari vostri e degli altri europei. Noi non ce ne immischiamo”.
Oggi, tuttavia, in Italia, c’è una novità che si chiama Mario Draghi. Il presidente del Consiglio si è dichiarato d’accordo con Macron nel volere un’Europa più forte, più unita e capace di assumere responsabilità in ogni ambito. Ed altrettanto con Merkel ha manifestato convergenza di opinioni sui grandi temi. Ma ha subito aggiunto che un’Europa più forte rende la NATO più forte, e quindi rinvigorisce il legame transatlantico. Una dichiarazione d’occasione, un modo diplomatico per compiacere gli interlocutori oppure una convinzione a cui ispirare la sua condotta? Al momento, non lo sappiamo.
Sulla compatibilità fra europeismo ed atlantismo, l’ambasciatore Sergio Romano è stato molto esplicito: “Questo rilancio dell’alleanza atlantica diventa un intralcio all’integrazione europea. Infatti, l’unicità insindacabile del potere USA nel mondo (affermata da Biden) va ovviamente a scapito dei Paesi europei, dal momento che una leadership globale significa sempre sottrazione di potere ad altri soggetti ai quali viene chiesto di tornare al ruolo di Stati clienti”.
E che dire della proclamata unità di un Occidente intenzionato ad imporre al mondo i suoi valori? Caracciolo è scettico. L’Occidente si dipinge come un insieme di nazioni caratterizzate dalla condivisione di valori universali e forse sarà così, ma, sul terreno geopolitico, non è una famiglia compatta.
Sergio Romano si dichiara perplesso sull’idea di Biden di lanciare la “lega delle democrazie”, commentando: “Non ne abbiamo bisogno. A che serve? Abbiamo interesse noi europei a dare lezioni di democrazia ai cinesi? No. Gli Stati Uniti hanno bisogno della Cina come avversario. Noi europei invece non ne abbiamo affatto necessità”. Quanto alla Russia, aggiunge, “è inutile brandire la vicenda Crimea in chiave anti-russa, dal momento che è ormai russa e tale resterà; una Crimea che Krusciov (ucraino) aveva regalato a Kiev come un ricco industriale dà le chiavi della sua Ferrari a un dipendente perché vi faccia un giretto”.
Bisogna tuttavia ammettere che qualche cosa di rilevante sta avvenendo nei rapporti internazionali, e che i due ultimi presidenti americani hanno fatto passi non sempre facili da comprendere. Per capire che cosa stia accadendo, bisogna partire da lontano.
Con l’intervento nella Prima guerra mondiale, gli Stati Uniti si sono rivelati al mondo come la potenza egemone dell’emisfero occidentale, una posizione rafforzata e resa più esplicita con la vittoria conseguita nella Seconda guerra mondiale. In seguito, crollata l’Unione Sovietica, dopo un lungo e duro confronto con Washington, davanti all’America si erano aperti spazi sconfinati sui quali affermare il suo dominio. Il mondo pareva destinato ad essere americano, modellato sui valori dominanti nel Paese.
Infatti l’America è la nazione che maggiormente possiede tutti gli strumenti (o le dimensioni del potere) a ciò necessari: la forza militare, la forza economica e finanziaria, la capacità di attrazione. Dispone inoltre (ci dice Dario Fabbri) di un’altra carta vincente: è geograficamente lontana dall’Europa e dall’Asia, separata dai due oceani. E ciò è un vantaggio per lei, perché tutti i Paesi che dispongono ancora di margini di sovranità, dovendo scegliere tra le potenze in contesa, si schierano a favore di quella più lontana, ritenuta meno pericolosa. È ciò che capita appunto in Europa ed Asia, mentre, per l’America latina, la potenza più pericolosa, in quanto più vicina, è incarnata dagli USA.
Perché le cose sono andate diversamente? Si potrebbe rispondere che il mondo è cambiato. Tuttavia, perché la capacità dell’America di indurre i Paesi del mondo ad agire sulla base delle sue aspettative e dei suoi interessi si andata indebolendo pur avendo essa ancora il primato nel possesso degli strumenti del potere?
Certo, sul piano militare gli USA sono sempre i primi per spesa, armamenti e posizionamenti strategici, ma anche le guerre sono cambiate: prima il Vietnam e poi l’Afghanistan ci hanno mostrato che le armi e la potenza militare non sempre bastano per vincere. L’economia americana è ancora la prima, ma la Cina è prossima a superare gli USA in tema di PIL, e i suoi prodotti invadono i mercati in tutto il mondo. L’attrattiva dell’american way of life è ancora forte, ma non più come in un passato ancora recente. A ridurla, hanno contribuito, in parte notevole, le sempre più forti e talora violente contrapposizioni che spaccano il Paese e la crisi identitaria che lo scuote. Dice Caracciolo che alcuni decisori europei non si fidano più dell’impero a stelle e strisce per le continue oscillazioni politiche, riflesso di tali fenomeni. Con la globalizzazione, inoltre, il mondo è diventato più piccolo, e si è ridotta la distanza geografica dell’America dai vari Paesi del mondo che cominciano ad avvertirne la presenza ingombrante.
Nel frattempo, in America, si è fatto più pesante l’impegno che le esigenze imperiali richiedono ai cittadini, e molti americani non lo ritengono più accettabile. Dario Fabbri ci ha detto che Trump è il prodotto della fatica imperiale vissuta dall’America. Questo discusso presidente ha voluto, in modo contraddittorio e pasticciato, un’America forte, dedita al profitto commerciale, ma non più gendarme mondiale. Però hanno vinto i fautori dell’impero, ovvero quell’insieme di poteri forti che include gli apparati, le principali Agenzie federali, il Pentagono, il complesso militare industriale, al quale è strettamente legato l’establishment politico, quello democratico in particolare. Per tutti costoro, gli USA devono continuare ad imporre la loro leadership e a dominare il pianeta.
Tuttavia, anch’essi si rendono conto della difficoltà dell’impresa in un mondo cambiato. Non sono più sufficienti le sole forze della grande potenza. Gli USA hanno bisogno del contributo degli “alleati”, a partire da quelli europei. Ma, a tal fine, non basta più offrire loro protezione in cambio della totale adesione ai propri voleri. Bisogna concedere altro: una qualche autonomia, e, in particolare, consentire che facciano passi verso quel matrimonio europeo che Washington ha sempre visto col fumo negli occhi. Il CAP (Center for American Progress), think tank democratico vicino all’amministrazione Biden, si spinge fino a dare via libera alla difesa comune della UE (da decenni negata nel timore che indebolisse la NATO o che trasformasse la UE in un rivale degli USA). Secondo il CAP, oggi, la condizione della difesa messa in campo dai vari Paesi europei aderenti alla NATO è troppo debole, mentre una comune difesa europea potrebbe irrobustire la difesa atlantica consentendo agli USA di spostare risorse militari su altri fronti.
Ma qui emergono le contraddizioni perché risulta ovvio che sia impossibile dare più autonomia agli “alleati” e nel contempo pretendere da essi l’allineamento sulle posizioni di Washington ovunque e in ogni ambito. Pertanto, i vertici americani, fra continui ripensamenti, contraddizioni e stop and go, esitano sul da farsi nel timore che l’Europa possa sfuggire loro.
Vedremo quale direzione prenderanno le cose, ma è evidente che si presentino grandi opportunità per quegli europei adulti che intendono riprendere nelle mani il proprio destino e dare vita ad un’Europa capace di prendere il posto che le spetta nel mondo. C’è da sperare che anche in Italia cittadini e politici siano in grado di uscire da una condizione di minorità.
Chiusa la parentesi dei turbolenti anni della presidenza Trump, si ritorna alla collaborazione tra Europa ed America anche in ambito economico, rimuovendo la guerra commerciale che ha danneggiato entrambe le parti. Con il rinsaldato legame transatlantico, si riafferma la capacità delle democrazie di uscire vincenti rispetto alle potenze autocratiche nelle sfide poste dalla nuova era verso cui siamo incamminati.
Tuttavia, dalla riunione del G7 in Cornovaglia (11-13 giugno) e dal summit NATO di Bruxelles del 14 giugno, emerge una realtà non certo collimante con l’idilliaco quadro dipinto dai militanti dell’atlantismo ideologico.
A ben vedere, Biden, nel viaggio in Europa, dietro al proclamato rinnovato impegno verso gli “alleati”, ha posto esplicitamente la richiesta di un riallineamento sulle posizioni di Washington ovunque e in ogni ambito, in cambio della sua protezione o semplicemente della sua benevolenza. Ha messo in chiaro che i nemici dell’America (cioè i suoi competitori o semplicemente quanti non ne accettano il ruolo egemonico) devono essere considerati tali anche dagli alleati. La Russia è doverosamente un nemico per tutti. Fra USA e Cina, non possono esserci spazi in cui possa inserirsi chi si dichiara amico dell’America e della democrazia. Quindi rottura con Russia e Cina, e rafforzamento della NATO.
In materia, scrive Lucio Caracciolo, queste pressioni del capocordata non possono essere ignorate, perché noi europei non siamo neutrali, ma parte del campo occidentale, ancorché questo sia incoerente, indebolito e diviso. Tuttavia, aggiunge, bisogna riconoscere che America is back non affascina più opinioni pubbliche e governi europei. Nessuno vuole farsi trascinare in uno scontro che potrebbe tralignare in guerra. Tutti i Paesi atlantici, sotto la pressione della nuova amministrazione americana, hanno assunto una postura più dura verso la Cina (protezione delle industrie strategiche e dei dati sensibili), ma non intendono partecipare alla guerra fredda (o peggio calda) contro Pechino. In particolare francesi e tedeschi non sono convinti che la Cina sia un loro avversario e, per quanto possibile, intendono continuare a commerciare ed avere relazioni economiche con il grande paese asiatico.
In Francia, è esplicito il rifiuto di accettare la richiesta di subalternità ai dettami di Washington. Solo alcuni mesi fa, Macron aveva detto che, pur essendo gli americani i nostri alleati storici, e pur noi avendo con loro alcuni importanti riferimenti comuni, ne abbiamo altri che ci differenziano. Guardiamo con altri occhi al Vicino e Medio Oriente, alla Russia, all'Africa, sicché la nostra politica di vicinato con tali realtà non è quella degli USA, e, pertanto, la nostra politica internazionale non può dipendere dalla loro e seguirne le orme perché abbiamo obiettivi solo parzialmente coincidenti. I tedeschi, più cauti in tema di dichiarazioni altisonanti, fanno comunque chiaramente intendere di non essere disposti a rivedere gli accordi economici già avviati con Cina e Russia. In pratica francesi e tedeschi vogliono diventare più autonomi anche correndo dei rischi.
Secondo Caracciolo, gli europei sono divisi in due gruppi: quelli che vogliono diventare più autonomi, e che in parte già lo sono (francesi e tedeschi), e quelli che (come certi giovani che vogliono permanere in uno stadio infantile e non emanciparsi dai genitori) intendono restare dipendenti senza assumere responsabilità ed impegni gravosi (molti Paesi est europei e i Paesi frugali o bottegai).
Dove si colloca l’Italia? Domanda inutile nel caso dei molti (politici, opinionisti, cittadini) che gioiscono per il ritorno di “mamma America”. Ma, dice Caracciolo, questo ritorno è un’illusione. Infatti il discorso sotteso che ci fa la nuova amministrazione è: “Sulle cose che contano noi decidiamo, voi applicate. Per il resto imparate a cavarvela da soli. Non facciamo chirurgia ordinaria, solo salvavita. In particolare Libia e Mediterraneo sono affari vostri e degli altri europei. Noi non ce ne immischiamo”.
Oggi, tuttavia, in Italia, c’è una novità che si chiama Mario Draghi. Il presidente del Consiglio si è dichiarato d’accordo con Macron nel volere un’Europa più forte, più unita e capace di assumere responsabilità in ogni ambito. Ed altrettanto con Merkel ha manifestato convergenza di opinioni sui grandi temi. Ma ha subito aggiunto che un’Europa più forte rende la NATO più forte, e quindi rinvigorisce il legame transatlantico. Una dichiarazione d’occasione, un modo diplomatico per compiacere gli interlocutori oppure una convinzione a cui ispirare la sua condotta? Al momento, non lo sappiamo.
Sulla compatibilità fra europeismo ed atlantismo, l’ambasciatore Sergio Romano è stato molto esplicito: “Questo rilancio dell’alleanza atlantica diventa un intralcio all’integrazione europea. Infatti, l’unicità insindacabile del potere USA nel mondo (affermata da Biden) va ovviamente a scapito dei Paesi europei, dal momento che una leadership globale significa sempre sottrazione di potere ad altri soggetti ai quali viene chiesto di tornare al ruolo di Stati clienti”.
E che dire della proclamata unità di un Occidente intenzionato ad imporre al mondo i suoi valori? Caracciolo è scettico. L’Occidente si dipinge come un insieme di nazioni caratterizzate dalla condivisione di valori universali e forse sarà così, ma, sul terreno geopolitico, non è una famiglia compatta.
Sergio Romano si dichiara perplesso sull’idea di Biden di lanciare la “lega delle democrazie”, commentando: “Non ne abbiamo bisogno. A che serve? Abbiamo interesse noi europei a dare lezioni di democrazia ai cinesi? No. Gli Stati Uniti hanno bisogno della Cina come avversario. Noi europei invece non ne abbiamo affatto necessità”. Quanto alla Russia, aggiunge, “è inutile brandire la vicenda Crimea in chiave anti-russa, dal momento che è ormai russa e tale resterà; una Crimea che Krusciov (ucraino) aveva regalato a Kiev come un ricco industriale dà le chiavi della sua Ferrari a un dipendente perché vi faccia un giretto”.
Bisogna tuttavia ammettere che qualche cosa di rilevante sta avvenendo nei rapporti internazionali, e che i due ultimi presidenti americani hanno fatto passi non sempre facili da comprendere. Per capire che cosa stia accadendo, bisogna partire da lontano.
Con l’intervento nella Prima guerra mondiale, gli Stati Uniti si sono rivelati al mondo come la potenza egemone dell’emisfero occidentale, una posizione rafforzata e resa più esplicita con la vittoria conseguita nella Seconda guerra mondiale. In seguito, crollata l’Unione Sovietica, dopo un lungo e duro confronto con Washington, davanti all’America si erano aperti spazi sconfinati sui quali affermare il suo dominio. Il mondo pareva destinato ad essere americano, modellato sui valori dominanti nel Paese.
Infatti l’America è la nazione che maggiormente possiede tutti gli strumenti (o le dimensioni del potere) a ciò necessari: la forza militare, la forza economica e finanziaria, la capacità di attrazione. Dispone inoltre (ci dice Dario Fabbri) di un’altra carta vincente: è geograficamente lontana dall’Europa e dall’Asia, separata dai due oceani. E ciò è un vantaggio per lei, perché tutti i Paesi che dispongono ancora di margini di sovranità, dovendo scegliere tra le potenze in contesa, si schierano a favore di quella più lontana, ritenuta meno pericolosa. È ciò che capita appunto in Europa ed Asia, mentre, per l’America latina, la potenza più pericolosa, in quanto più vicina, è incarnata dagli USA.
Perché le cose sono andate diversamente? Si potrebbe rispondere che il mondo è cambiato. Tuttavia, perché la capacità dell’America di indurre i Paesi del mondo ad agire sulla base delle sue aspettative e dei suoi interessi si andata indebolendo pur avendo essa ancora il primato nel possesso degli strumenti del potere?
Certo, sul piano militare gli USA sono sempre i primi per spesa, armamenti e posizionamenti strategici, ma anche le guerre sono cambiate: prima il Vietnam e poi l’Afghanistan ci hanno mostrato che le armi e la potenza militare non sempre bastano per vincere. L’economia americana è ancora la prima, ma la Cina è prossima a superare gli USA in tema di PIL, e i suoi prodotti invadono i mercati in tutto il mondo. L’attrattiva dell’american way of life è ancora forte, ma non più come in un passato ancora recente. A ridurla, hanno contribuito, in parte notevole, le sempre più forti e talora violente contrapposizioni che spaccano il Paese e la crisi identitaria che lo scuote. Dice Caracciolo che alcuni decisori europei non si fidano più dell’impero a stelle e strisce per le continue oscillazioni politiche, riflesso di tali fenomeni. Con la globalizzazione, inoltre, il mondo è diventato più piccolo, e si è ridotta la distanza geografica dell’America dai vari Paesi del mondo che cominciano ad avvertirne la presenza ingombrante.
Nel frattempo, in America, si è fatto più pesante l’impegno che le esigenze imperiali richiedono ai cittadini, e molti americani non lo ritengono più accettabile. Dario Fabbri ci ha detto che Trump è il prodotto della fatica imperiale vissuta dall’America. Questo discusso presidente ha voluto, in modo contraddittorio e pasticciato, un’America forte, dedita al profitto commerciale, ma non più gendarme mondiale. Però hanno vinto i fautori dell’impero, ovvero quell’insieme di poteri forti che include gli apparati, le principali Agenzie federali, il Pentagono, il complesso militare industriale, al quale è strettamente legato l’establishment politico, quello democratico in particolare. Per tutti costoro, gli USA devono continuare ad imporre la loro leadership e a dominare il pianeta.
Tuttavia, anch’essi si rendono conto della difficoltà dell’impresa in un mondo cambiato. Non sono più sufficienti le sole forze della grande potenza. Gli USA hanno bisogno del contributo degli “alleati”, a partire da quelli europei. Ma, a tal fine, non basta più offrire loro protezione in cambio della totale adesione ai propri voleri. Bisogna concedere altro: una qualche autonomia, e, in particolare, consentire che facciano passi verso quel matrimonio europeo che Washington ha sempre visto col fumo negli occhi. Il CAP (Center for American Progress), think tank democratico vicino all’amministrazione Biden, si spinge fino a dare via libera alla difesa comune della UE (da decenni negata nel timore che indebolisse la NATO o che trasformasse la UE in un rivale degli USA). Secondo il CAP, oggi, la condizione della difesa messa in campo dai vari Paesi europei aderenti alla NATO è troppo debole, mentre una comune difesa europea potrebbe irrobustire la difesa atlantica consentendo agli USA di spostare risorse militari su altri fronti.
Ma qui emergono le contraddizioni perché risulta ovvio che sia impossibile dare più autonomia agli “alleati” e nel contempo pretendere da essi l’allineamento sulle posizioni di Washington ovunque e in ogni ambito. Pertanto, i vertici americani, fra continui ripensamenti, contraddizioni e stop and go, esitano sul da farsi nel timore che l’Europa possa sfuggire loro.
Vedremo quale direzione prenderanno le cose, ma è evidente che si presentino grandi opportunità per quegli europei adulti che intendono riprendere nelle mani il proprio destino e dare vita ad un’Europa capace di prendere il posto che le spetta nel mondo. C’è da sperare che anche in Italia cittadini e politici siano in grado di uscire da una condizione di minorità.
Negli anni ’80 a un referendum sul gradimento di un Federazione europea gli Italiani, inconsapevoli delle responsabilità connesse risposero si all’80%, primi in Europa. Negli anni 2000 il gradimento era sceso abbondantemente sotto il 50%. Il vaccino anticovid ha reso un po’ più adulti gli Italiani sicchè facciano analisi costi/benefici del processo di integrazione europea e quindi dicano si a condizione di aver prima creato una classe dirigente a livello europeo che sappia negoziare duramente, ma efficacemente con Salvatori, Big, Neo e Austeri?