Elezioni 20 giugno 1976: nessun sorpasso



Aldo Novellini    25 Giugno 2021       3

Di "sorpasso", alla fine, rimase solo quello di Vittorio Gassman nel famoso film di Dino Risi. Temuto dagli uni, sognato dagli altri, il sorpasso politico, quello del Pci sulla Dc, venne invece rimandato ad altra data. Stiamo parlando, ma certo lo si è capito, delle elezioni del 20 giugno 1976, giusto 45 anni fa che, ancora una volta - esattamente come nella tornata del 18 aprile 1948 – sancirono il predominio democristiano attribuendo, come sempre, ai comunisti la seconda piazza. Eppure in quell'estate del 1976 il Pci arrivò realmente vicino a essere la prima forza politica del Paese, relegando, dopo trent'anni, la Dc all'opposizione. L'anno precedente nel giugno 1975, alle elezioni amministrative, un'onda di sinistra aveva travolto la diga democristiana e in molte città erano nate delle “giunte rosse”, social-comuniste. Sembrava l'inizio di un'inarrestabile marcia progressista verso un'Italia dominata dalla sinistra, ma poi anche questa lunga onda cominciò a ritrarsi.

Un conto era amministrare qualche regione o qualche importante città, dando magari anche prova di una certa efficienza, cosa diversa invece, anche considerando la situazione est-ovest, consegnare al Pci il governo del Paese. A questo la maggioranza degli elettori, e non solo quelli moderati, non era affatto disposta e così, alle elezioni del 1976, la Dc fece il pieno di voti. Ad agevolare la riscossa dello scudo crociato si aggiunse anche Indro Montanelli che cogliendo il senso della contesa in atto ed abile nel captare gli umori del Paese coniò il celebre slogan “turatevi il naso e votate Dc”. A dire il vero non propriamente un complimento quello rivolto alla classe politica democristiana, ma sufficientemente chiaro per convincere fasce di elettori liberali, repubblicani e non pochi conservatori ad affidarsi per l'ennesima volta ai democristiani pur di evitare l'incognita di un sorpasso comunista.

Intanto nei mesi precedenti il voto – e si trattava di erano elezioni anticipate legate alla sostanziale fine del vecchio centro-sinistra - la Dc aveva cambiato segretario e alla sua guida era salito Benigno Zaccagnini esponente dell'ala sinistra del partito e fautore di un rinnovamento che si richiamava, finalmente, alle radici cattoliche e popolari. Non più dunque una Dc soltanto bastione anticomunista ma una forza riformista, pronta a sfidare il Pci e la sinistra sul suo stesso terreno. Era la visione di Aldo Moro con una strategia che guardava lontano, per guidare l'evoluzione politica e sociale italiana evitando, per quanto possibile, strappi e fughe in avanti.

Il 20 giugno la Dc toccò il 38 per cento e il Pci il 34, conseguendo il suo miglior risultato nella storia repubblicana. Il Psi scese sotto il 10 per cento e i partiti laici (Pli, Psdi e Pri) sopravvissero a stento. Ridotta, a destra, anche la rappresentanza del Msi. In pratica due italiani su tre optarono per i due grandi partiti di massa. Nessuno dei due però poteva realmente governare senza l'altro. Nacque così il governo guidato da Giulio Andreotti, un monocolore Dc tenuto in vita dalla cosiddetta “non sfiducia”. Ingegnosa formula con cui si ricevevano i voti comunisti per sorreggere l'esecutivo senza doverli attribuire ad un'effettiva maggioranza parlamentare.

Aveva inizio una delle più travagliate legislature repubblicane. Alla fine del 1977 gli equilibri della non sfiducia cominciarono ad incrinarsi sotto il peso dell'emergenza economica e dell'incalzare del terrorismo. Ci voleva una maggioranza più coesa e il solo modo di conseguirla era la diretta partecipazione di altre forze politiche al governo. Il monocolore Dc, sostenuto dall'esterno, non poteva reggere oltremodo.

Nelle prime settimane del 1978 si iniziò a discutere di un formale ingresso nella maggioranza del Pci, in vista, se le cose fossero evolute, di una vera e propria partecipazione comunista al governo. Nel dicembre di quello stesso anno, scaduto il settennato di Giovanni Leone, si dava quasi per certa l'elezione al Quirinale di Aldo Moro. Una presidenza che avrebbe potuto dare - questo almeno era l'auspicio - una prospettiva alla complessa stagione politica che si stava delineando. Questo si pensava. Invece, il 16 marzo, l'eccidio di via Fani, e il successivo assassinio di Moro, distrussero tutto. E lì, per molti versi, crollarono anche le possibilità di un autentico rinnovamento della politica italiana. Ma questa è un'altra storia.


3 Commenti

  1. La metà degli anni ’70 è stato un periodo della vita politica italiana in cui fu persa un’occasione unica, capace di dare una svolta storica all’assetto politico e alla storia futura della nazione.
    Il PCI, anche nel caso di un ipotetico sorpasso elettorale, non avrebbe potuto, in ogni caso, assumere la guida dello Stato.
    L’assetto mondiale di allora, con la divisione netta tra blocco occidentale ed orientale, non avrebbe consentito un macroscopico turbamento dell’equilibrio esistente, sia da parte degli USA e sia da parte della stessa URSS.
    Il PCI non seppe cogliere l’occasione per attuare, sebbene in ritardo, la sua Bad Godesberg che avrebbe potuto cambiare, presumo in meglio, le future sorti della nazione.
    Il colpo definitivo a questa occasione unica fu inferto dall’assassinio di Aldo Moro che, con lucidità, aveva intravisto e intrapreso un percorso che, sebbene arduo e pieno di ostacoli, forse avrebbe portato ad un nuovo assetto politico, con una connotazione europea e post ideologica.

  2. Il risultato elettorale non solo fu positivo grazie al “turarsi il naso” montanelliano, ma per il “rinnovamento impresso alla DC dalla Segreteria Zaccagnini, dalla politica del confronto, e dal coinvolgimento di giovani e lavoratori che il nuovo corso aveva avviato. La DC in sostanza fu salvata, dopo il Referendum sul divorzio, il Governo di Centro-destra con i liberali, lo scioglimento del Movimento Giovanile da parte di Fanfani, dalle sinistre del partito che finalmente insieme per un progetto innovativo e fortemente sociale indicavano prospettive nuove e sganciavano la DC dalle pastoie della moderazione e dal semplice anticomunismo. E anche le soluzioni governative (pur se fantasiose, come non poche volte si adottarono negli anni ’50 3 ’60) di quegli anni portarono ad adottare riforme storiche, che dovremmo esaltare e vantare come si fece per la riforma agraria, il piano casa, la riforma urbanistica e della scuola media in anni precedenti. E anche oggi, pur con i distinguo e il confronto fermo e deciso, si dovrebbe avere quell’atteggiamento (la linea Zaccagnini/Moro) nel guardare alla nuova fase politica e costruire (o rinnovare) contenitori politici ed alleanze coerenti, senza isolarsi e senza dare illusioni ai moderati. La storia del cattolicesimo democratico non può che essere nel campo del riformismo vero e delle tutele sociali

  3. Quel risultato fu, per la DC, l’effetto positivo della Segreteria Zaccagnini, della politica di Moro del confronto e della terza fase (mai avviata a seguito della sua morte) immaginata e prefigurata attraverso gli ultimi articoli. La DC di Zaccagnini pose fine a scelte che penalizzarono il partito (referendum sul divorzio, poca attenzione ai giovani – Fanfani aveva sciolto il Movimento giovanile -, Governo di centro-destra coi liberali, scarsa attenzione al tema scuola e a quello del lavoro). Sono state le scelte delle sinistre del Partito, finalmente unite, a dare una svolta positiva. Come sempre è il cattolicesimo democratico, il cristianesimo sociale, il “guardare a sinistra” pur coprendo il centro e rassicurandone gli elettori, a dare indicazioni ed esempi di politica innovativa a utile al bene comune. Quando ci si limita a incarnare posizioni moderate o di centro equidistante oppure a fare alleanze che non allargano il campo riformatore si danneggia il Paese e la propria parte politica.

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