Prendo spunto dal graffiante paragone che Aldo Novellini (che ho conosciuto come valente collaboratore del mai abbastanza rimpianto “Il Nostro Tempo”) ha fatto fra statisti di ieri e “statisti” di oggi. Vittima dei suoi strali, Matteo Renzi, e la sua cifra di “statista” direi casareccia. Ovviamente il povero Renzi è schiacciato dai paragoni con De Gasperi e Moro. Quest’ultimo più valente, a mio modesto parere, come statista che come governante. Mentre De Gasperi, oltre che un grande statista, è stato anche un grande primo ministro, non solo politico ma anche amministratore.
A mio parere, il problema dell’Italia di oggi è che c’è una classe di governanti improvvisata, rapidamente obsoleta : penso ad esempio ai Veltroni o Rutelli. Manca quindi una trasmissione di saperi , mancano maestri (e non solo in politica) alla cui sequela crescano allievi un giorno magari in grado di superarli.
Credo quindi che il “povero” Renzi sia soprattutto una “vittima” (non solo di se stesso): quali maestri ha potuto avere? Bersani? D’Alema? Franceschini? È come quelle promesse del calcio che sembrano sempre sul punto di sbocciare in una squadra di provincia, ma poi deludono in un grande club. Il problema è che non c’è attualmente un grande club politico in Italia che coltivi e valorizzi campioni.
Non sono un laudator temporis acti, gli ultimi dieci anni della Prima Repubblica sono stati una china discendente, a parte alcune eccezioni: Bodrato, lo stesso De Mita, Craxi (ma con la colpa di una squadra di spregiudicati “Yuppies” a sostegno) Berlinguer (ma che alla fine non seppe rinnegare del tutto una ideologia fallace, morta e sepolta).
L’ideale sarebbe che queste promesse, dotate di talenti, fossero consigliate e assistite non da “cerchi magici”, ma da chi può dare di più. Un rimprovero quindi anche, oltre che a loro stessi illusi e accecati talvolta dalla presunzione, a chi potrebbe fare da maestro disinteressato e non lo fa.
Ma lo spunto mi porta (con la mia solita noiosa concretezza) a un esempio pratico e marchiano della insufficienza di una classe politica e amministrativa (e non solo): quella della città di Torino che è ancora, tutto sommato, uno dei più importanti poli economici del Paese. L’ultima vicenda che cito è quella della trattativa per la vendita dell’IVECO (che è gran parte di CNH Industrial) a un gruppo cinese (China Faw Group Co). Un grosso affare per gli azionisti, Elkann in testa. Non mi scandalizzo per questo. Sono in fondo un liberista. Mi scandalizzo che mentre potrebbero addensarsi nubi incerte su un altro gioiello dell’industria torinese, sull’ennesimo centro direzionale importante della città che prende il volo, su posti di lavoro a rischio, si parli di quisquilie. “La Stampa” ( ma forse lei è più capibile) sposa la politica del panem et circenses della sindaca e della giunta comunale e dedica due pagine di apertura della cronaca cittadina al fatto che in città arriveranno, udite udite, i quarti di finale della Coppa Davis. Iveco è un gioiello della galassia Exor (di cui John Elkann è il presidente), il suo quartier generale è a Torino, ma nelle stanze dei bottoni cittadini si parla d’altro (e l’opposizione che fa? Il PD è l’alleato di domani e gli altri sono al governo insieme…)
A rompere il silenzio solo un articolo dell’ex top manager FIAT Giorgio Garuzzo sulle pagine torinesi del “Corriere della Sera” dal titolo Perché Iveco deve restare a guida italiana. Garuzzo ricorda come IVECO fu una delle idee di strategia industriale fra le più importanti dell’Italia degli anni ’80, di cui “L’azionista FIAT poté andarne giustamente orgoglioso (…) si era costruito il gruppo industriale più internazionale di cui il nostro Paese disponesse, l’unico di tali dimensioni a godere di una quota di mercato da numero uno in Europa. Tutto sotto il controllo di management italiano. Nell’eventuale passaggio di IVECO in mano cinese di cui oggi si parla si potrebbe vedere quasi uno storico sberleffo”.
Una critica è giunta da Oltreoceano. Bloomberg, dando notizia delle trattative il 29 marzo, sottolineava che “la vendita di uno dei produttori di autocarri più iconici d'Europa potrebbe scuotere il settore e potenzialmente attirare le critiche interne alla famiglia Agnelli per aver venduto uno dei suoi beni storici a un acquirente straniero. John Elkann, il 44enne leader del clan miliardario che ha fondato la FIAT, è stato impegnato negli ultimi anni a fare affari mentre riduceva la dipendenza della famiglia dagli investimenti automobilistici e si è trasferito in nuove aree come i beni di lusso e i servizi finanziari”.
E faceva notare come “la FIAT Chrysler Automobiles di Agnelli ha accettato nel 2018 di vendere la sua attività di ricambi auto Magneti Marelli alla giapponese Calsonic Kansei Corp. All'inizio di quest'anno, FIAT Chrysler ha completato una combinazione con il produttore Peugeot PSA Group per formare Stellantis, il quarto più grande produttore di automobili al mondo. L'accordo ha visto diminuire l'influenza della famiglia Agnelli, sebbene la sua holding Exor rimanga il principale azionista unico della società combinata”.
Tornando a Torino (metafora del declino di una classe dirigente) la vicenda ha alcuni aspetti preoccupanti e molte conferme: non solo per il continuo depauperamento del patrimonio ex FIAT e per il disimpegno dalla città di quella che possiamo continuare a chiamare la famiglia Agnelli. Certo, possono cambiare le strategie industriali ed economiche della famiglia, ma Exor avrebbe la possibilità di compensare le perdite con altri investimenti importanti sul territorio torinese, che producano sviluppo, che portino centri direzionali, sedi, almeno italiane, di multinazionali. Perché non fare avere a Torino qualche ricaduta positiva dagli investimenti in “beni di lusso e servizi finanziari”? Ma se Jonh Elkann non ci pensa, nessuno nemmeno glielo chiede.
Per Torino la conferma di una pericolosa china, iniziata oltre vent’anni fa, quando si abbaiava alla luna di un nuovo modello di sviluppo per la più grande area industriale europea e intanto si perdevano banche e assicurazioni, scomparivano o non decollavano grandi appuntanti fieristici, si chiudevano industrie nella impotenza di una classe dirigente sempre meno influente a livello nazionale e povera di idee che non fossero pure chimere. Ma intanto si sviluppano piste ciclabili e si punta sui monopattini, mentre sulla TAV, grazie al Governo Conte e alla ministra Demicheli condizionati dai 5 Stelle, si è accumulato un ritardo di due anni sui progetti da inviare in Europa e sulla nomina del Commissario.
Un ultimo preoccupante sussurro gira per la città: che fine ha fatto la sede italiana dell‘Istituto per l’intelligenza artificiale che doveva essere collocata a Torino, dopo che la sindaca aveva rinunciato a competere con la onnivora Milano per la sede del TUB, il tribunale europeo dei brevetti?
Assicurava, a ottobre 2020, a “Il Sole 24ore” l'assessore comunale Pironti: a gennaio il dossier per la sede e le 600 assunzioni di scienziati. Vuole qualcuno chiedere a Pironti spiegazioni? È vero che le sedi saranno 8? Perché a Napoli si fanno progetti e si preparano sedi? Perché tutti tacciono?
A mio parere, il problema dell’Italia di oggi è che c’è una classe di governanti improvvisata, rapidamente obsoleta : penso ad esempio ai Veltroni o Rutelli. Manca quindi una trasmissione di saperi , mancano maestri (e non solo in politica) alla cui sequela crescano allievi un giorno magari in grado di superarli.
Credo quindi che il “povero” Renzi sia soprattutto una “vittima” (non solo di se stesso): quali maestri ha potuto avere? Bersani? D’Alema? Franceschini? È come quelle promesse del calcio che sembrano sempre sul punto di sbocciare in una squadra di provincia, ma poi deludono in un grande club. Il problema è che non c’è attualmente un grande club politico in Italia che coltivi e valorizzi campioni.
Non sono un laudator temporis acti, gli ultimi dieci anni della Prima Repubblica sono stati una china discendente, a parte alcune eccezioni: Bodrato, lo stesso De Mita, Craxi (ma con la colpa di una squadra di spregiudicati “Yuppies” a sostegno) Berlinguer (ma che alla fine non seppe rinnegare del tutto una ideologia fallace, morta e sepolta).
L’ideale sarebbe che queste promesse, dotate di talenti, fossero consigliate e assistite non da “cerchi magici”, ma da chi può dare di più. Un rimprovero quindi anche, oltre che a loro stessi illusi e accecati talvolta dalla presunzione, a chi potrebbe fare da maestro disinteressato e non lo fa.
Ma lo spunto mi porta (con la mia solita noiosa concretezza) a un esempio pratico e marchiano della insufficienza di una classe politica e amministrativa (e non solo): quella della città di Torino che è ancora, tutto sommato, uno dei più importanti poli economici del Paese. L’ultima vicenda che cito è quella della trattativa per la vendita dell’IVECO (che è gran parte di CNH Industrial) a un gruppo cinese (China Faw Group Co). Un grosso affare per gli azionisti, Elkann in testa. Non mi scandalizzo per questo. Sono in fondo un liberista. Mi scandalizzo che mentre potrebbero addensarsi nubi incerte su un altro gioiello dell’industria torinese, sull’ennesimo centro direzionale importante della città che prende il volo, su posti di lavoro a rischio, si parli di quisquilie. “La Stampa” ( ma forse lei è più capibile) sposa la politica del panem et circenses della sindaca e della giunta comunale e dedica due pagine di apertura della cronaca cittadina al fatto che in città arriveranno, udite udite, i quarti di finale della Coppa Davis. Iveco è un gioiello della galassia Exor (di cui John Elkann è il presidente), il suo quartier generale è a Torino, ma nelle stanze dei bottoni cittadini si parla d’altro (e l’opposizione che fa? Il PD è l’alleato di domani e gli altri sono al governo insieme…)
A rompere il silenzio solo un articolo dell’ex top manager FIAT Giorgio Garuzzo sulle pagine torinesi del “Corriere della Sera” dal titolo Perché Iveco deve restare a guida italiana. Garuzzo ricorda come IVECO fu una delle idee di strategia industriale fra le più importanti dell’Italia degli anni ’80, di cui “L’azionista FIAT poté andarne giustamente orgoglioso (…) si era costruito il gruppo industriale più internazionale di cui il nostro Paese disponesse, l’unico di tali dimensioni a godere di una quota di mercato da numero uno in Europa. Tutto sotto il controllo di management italiano. Nell’eventuale passaggio di IVECO in mano cinese di cui oggi si parla si potrebbe vedere quasi uno storico sberleffo”.
Una critica è giunta da Oltreoceano. Bloomberg, dando notizia delle trattative il 29 marzo, sottolineava che “la vendita di uno dei produttori di autocarri più iconici d'Europa potrebbe scuotere il settore e potenzialmente attirare le critiche interne alla famiglia Agnelli per aver venduto uno dei suoi beni storici a un acquirente straniero. John Elkann, il 44enne leader del clan miliardario che ha fondato la FIAT, è stato impegnato negli ultimi anni a fare affari mentre riduceva la dipendenza della famiglia dagli investimenti automobilistici e si è trasferito in nuove aree come i beni di lusso e i servizi finanziari”.
E faceva notare come “la FIAT Chrysler Automobiles di Agnelli ha accettato nel 2018 di vendere la sua attività di ricambi auto Magneti Marelli alla giapponese Calsonic Kansei Corp. All'inizio di quest'anno, FIAT Chrysler ha completato una combinazione con il produttore Peugeot PSA Group per formare Stellantis, il quarto più grande produttore di automobili al mondo. L'accordo ha visto diminuire l'influenza della famiglia Agnelli, sebbene la sua holding Exor rimanga il principale azionista unico della società combinata”.
Tornando a Torino (metafora del declino di una classe dirigente) la vicenda ha alcuni aspetti preoccupanti e molte conferme: non solo per il continuo depauperamento del patrimonio ex FIAT e per il disimpegno dalla città di quella che possiamo continuare a chiamare la famiglia Agnelli. Certo, possono cambiare le strategie industriali ed economiche della famiglia, ma Exor avrebbe la possibilità di compensare le perdite con altri investimenti importanti sul territorio torinese, che producano sviluppo, che portino centri direzionali, sedi, almeno italiane, di multinazionali. Perché non fare avere a Torino qualche ricaduta positiva dagli investimenti in “beni di lusso e servizi finanziari”? Ma se Jonh Elkann non ci pensa, nessuno nemmeno glielo chiede.
Per Torino la conferma di una pericolosa china, iniziata oltre vent’anni fa, quando si abbaiava alla luna di un nuovo modello di sviluppo per la più grande area industriale europea e intanto si perdevano banche e assicurazioni, scomparivano o non decollavano grandi appuntanti fieristici, si chiudevano industrie nella impotenza di una classe dirigente sempre meno influente a livello nazionale e povera di idee che non fossero pure chimere. Ma intanto si sviluppano piste ciclabili e si punta sui monopattini, mentre sulla TAV, grazie al Governo Conte e alla ministra Demicheli condizionati dai 5 Stelle, si è accumulato un ritardo di due anni sui progetti da inviare in Europa e sulla nomina del Commissario.
Un ultimo preoccupante sussurro gira per la città: che fine ha fatto la sede italiana dell‘Istituto per l’intelligenza artificiale che doveva essere collocata a Torino, dopo che la sindaca aveva rinunciato a competere con la onnivora Milano per la sede del TUB, il tribunale europeo dei brevetti?
Assicurava, a ottobre 2020, a “Il Sole 24ore” l'assessore comunale Pironti: a gennaio il dossier per la sede e le 600 assunzioni di scienziati. Vuole qualcuno chiedere a Pironti spiegazioni? È vero che le sedi saranno 8? Perché a Napoli si fanno progetti e si preparano sedi? Perché tutti tacciono?
Qualsiasi persona con un minimo di cervello e che ami Torino, leggendo questo articolo dovrebbe provare nell’ordine: stupore, sgomento, rabbia e poi si spera una grande incazzatura che lo porti a far sentire in qualche modo la propria voce. Magari alle prossime elezioni per il sindaco, votando in modo difforme dai desiderata dei partiti… specie quello più grande.
Il problema di Torino, io genovese l’ho già vissuto in una città dove il declino industriale è avvenuto nel totale disimpegno di una classe politica occupata a ridistribuirsi il potere, nel continuo variare delle percentuali elettorali: esattamente quello che vedo a Torino, dove nei partiti mi pare si discuta solo del come organizzarsi alleanze e sostegni in vista delle elezioni comunali, mentre avviene lo stesso trapasso da città capofila nel settore industriale a damigella di un’economia finanziarizzata, ben controllata altrove.
Oltre la battaglia per avere un sindaco adeguato (invitando i partiti a non dilapidare tempo e relazioni solo per la scelta di qualche candidato) chi si occupa (come, quando!) di ricollocare Torino in un ruolo di soggetto consapevole di responsabilità (culturali, politiche, economiche) che devono essere almeno europee, se non mondiale?
Già ai tempi di Marchionne il fatto di avere assorbito quella straordinaria fucina di competenze ingegneristiche che era il Centro ricerche Fiat nell’Engineering di FCA (ex Direzione tecnica) peraltro depauperato di investimenti significativi su nuovi progetti innovativi e sostenibili fu un segnale infausto. L’Isvor centro di formazione di eccellenza fu praticamente cancellato e distrutto anche fisicamente: sorgeva in corso Dante dove aveva avuto sede la prima officina Fiat. L’Avvocato non avrebbe permesso di smantellarne un solo mattone, gli Elkann distrussero tutto e vi costruirono un condominio di lusso. Una nota: non prendiamocela con le piste ciclabili! La ciclabilità in fondo è un modo per avvicinare Torino alle grandi smart cities del Nord Europa come Amsterdam e Copenhaghen