L’ipoteca di Trump sugli USA di Biden



Giuseppe Sacco    9 Novembre 2020       2

Un referendum pro o contro Trump, una manifestazione di odio inestinguibile contrapposto a un indomabile consenso, più che uno scontro tra due candidati e due proposte politiche, le elezioni americane del 3 novembre sono destinate a lasciare una traccia che non scomparirà tanto presto nella storia dell’Occidente.

Vanificatasi nel nulla l’ipotizzata “ondata azzurra” che avrebbe dovuto spazzare via il presidente tanto inviso alla sinistra radical chic, a quella americana come ai suoi patetici scimmiottatori di casa nostra, il presidente uscente è stato ininterrottamente al centro della scena, e – pur nella sconfitta finale – la ha ininterrottamente dominata.

L’avversario è stato sempre inesistente, tanto da ricordare lo “hollow man”, lo “stuffed man” di T.S. Eliot. E la sua elezione alla testa di una potenza il cui carattere nazionale è ancora fortemente marcato – anche se spesso in maniera capovolta – dal puritanesimo dei suoi originari fondatori, non lascia un vero segno se non per il fatto che un cattolico è stato eletto alla Casa Bianca senza quasi che la cosa si notasse: un’importantissima novità se si pensa alle grida e al furore che accompagnarono, nel 1960, l’elezione del primo e sino a ieri unico presidente “papista” degli Stati Uniti, John Fitzgerald Kennedy. Un segno indubbio di come, in sessant’anni, siano culturalmente mutati l’America e, con la sola eccezione dell’Europa, il mondo intero.

Ma ancor più denso di significati è il fatto che il Presidente eletto quasi a sorpresa quattro anni fa, abbia oggi portato a casa circa 5 milioni di voti in più rispetto al 2016, e che la sua scarsa disponibilità ad accettare il risultato come politicamente valido sia condivisa da mezza America, in qualche caso disposta anche a scendere in piazza impugnando qualcuna dei 200 milioni di armi da fuoco oggi in possesso dei civili americani. Perché personalmente Trump finirà pure per essere considerato come una meteora passeggera, ma come fenomeno politico la sua presidenza sarà chiaramente considerata, dagli storici futuri, come l’espressione della profonda trasformazione del tessuto sociale degli Stati Uniti, e di una sua forte disgregazione.

Lo si è ben visto nel fatto – che tanto ha sorpreso i molti improvvisati osservatori politici che popolano questo lato dell’Atlantico – che un’orda di poveri, di disoccupati e di disperati, nonché di esponenti della “middle class”, abbia votato per il partito repubblicano, il quale tradizionalmente ha sempre costituito la scelta elettorale di chi vive di rendita, degli imbroglioni di Wall Street, dei fanatici religiosi, e delle strutture dello “Stato profondo”.

Ma è stato il candidato, e non il partito, a determinare la loro scelta, il 3 novembre, così come determinante è stata la sua denuncia del fatto che il trasferimento massiccio dell’attività manifatturiera verso la Cina ha gettato sul lastrico parecchi milioni di famiglie americane, mettendole letteralmente “in mezzo alla strada”, come conseguenza della “repossession”, del recupero delle loro case da parte delle banche.

Dopo quarant’anni di globalizzazione, la struttura sociale delle società occidentali, e di quella americana in primo luogo, infatti appare sconvolta rispetto allo schema classico creato dai capitalismi nazionali. Finita la dura contrapposizione di interessi tra i datori di lavoro e le loro – ormai estinte, fuori dalla Cina – controparti operaie; finita la fertile e produttiva dialettica tra Conservatives e Liberals, (o tra liberisti e socialisti, come dicevamo noi in Europa)!

Oggi il quadro delle società occidentali è caratterizzato dalla presenza di pochi ricchissimi sempre più ingordi di potere e di danaro, e di una plebe pseudo impiegatizia, la cui vita è sempre più invasa da numerosi e sofisticati sistemi di pseudo informazione, di comunicazione, e di effettivo controllo. Si è creata di fatto una plebe televisivo-mediatica i cui comportamenti, usi e consumi non possono che aggravare la situazione economica e ambientale in cui i suoi componenti sono ormai condannati a vivere. Questi ceti invocano la protezione, il prolungamento e la sopravvivenza di meccanismi economici obsoleti, che sono poi quelli responsabili della loro presente scarsa possibilità di inserimento nell’economia di un’America ormai de-industrializzata. E Trump si è fatto portatore delle richieste impossibili di questa categoria sociale, che corrisponde poi alla generazione cui il presidente Lyndon Johnson aveva promesso la “grande società”, e che ha finito invece per diventare una “generazione perduta”, che sprofonda nell’alcol e della droga senza lasciare nessun retaggio positivo alle generazioni che seguiranno.

La sua voce, prima e dopo le elezioni del 2016, ha indubbiamente suscitato in questo anomalo gruppo sociale un’eco assai profonda. E un consenso elettorale di massa anche tra coloro che, ancora in bilico, temono di sprofondare nell’abisso.

Ma la linea di politica economica seguita – che ha cercato di rispondere alle richieste di questa nuova categoria di poverissimi e di famiglie in difficoltà col vecchio metodo di gonfiare la ricchezza dei super ricchi, e di sperare che il “trickle down” facesse il resto – non poteva che avere risultati transeunti, e rivelarsi fallimentare, almeno a medio termine. La pandemia, e la distruzione di ricchezza che ne è conseguita, hanno accelerato i tempi, portando alla delusione elettorale del 3 novembre.

Trump, anche a causa di una francamente strana percentuale “bulgara” a favore di Biden nel voto postale, esce oggi di scena. Ma lascia dietro di sé una lezione che non sarebbe male cercare di apprendere. Lascia dietro di sé la prova provata che i vecchi schemi interpretativi della società capitalistica non sono più utilizzabili e vanno rinnovati. Non solo gli schemi tradizionalmente utilizzati dalla sinistra, ma anche quelli proposti dalla destra neoliberale.

Al suo posto, alla Casa Bianca, subentra Biden, vincitore. Ma vincitore – nonostante il massiccio e unanime impegno a suo favore di tutti gli establishments d’America – soltanto per un soffio; un soffio che rischia forte di non essere sufficiente per mettere su una via positiva, sulla sponda occidentale l’Atlantico, una società in cui le crepe razziali appaiono più profonde che mai, e ancor meno per consentirle di esercitare, sulla sponda orientale di quello stesso oceano, l’influenza che sarebbe necessaria per controllare i rinascenti, pericolosi egemonismi del passato.

(Tratto da www.politicainsieme.com)


2 Commenti

  1. Gli USA sono una Nazione quasi del tutto autosufficiente e come tale ha la possibilità di autoisolarsi quasi del tutto dal resto del mondo. Questa favorevole posizione ha consentito a Trump di pretendere ed ottenere condizioni di Mercato molto più favorevoli nella commercializzazione dei beni e servizi prodotti negli USA. Quelli non indispensabili sono stati, quindi, sottoposti a dazi e divieti di importazione, livellandone artificialmente i costi di produzione.
    Conseguentemente la percentuale di occupazione delle forze lavorative indigene, è aumentata fino ad arrivare al limite della massima e totale occupazione.
    Le merci ed i servizi non necessari sono stati, quindi, sottoposti a dazi per livellarne i costi a quelli interni. Questa politica vincente ed autarchica ha trovato grande successo tra i cittadini lavoratori degli USA.
    La politica, invece, privatistica sulla sanità e l’istruzione e la pessima gestione del Covid, credo sia stata l’arma letale per la sconfitta di Trump.

  2. Forse per capire quello che sta capitando agli USA, è necessario fare riferimento al mito delirante (anarcocapitalistico) dell’impero globale americano mediante il dominio dell’economia mondiale.
    Tale forma, quasi mistica, di imperialismo ha trovato nell’illusione della “fine della storia” dopo la caduta del muro di Berlino la sua parvenza di realizzazione e si è fatta strada negli USA in sintonia con le radici culturali e politiche più profonde di questi ultimi.
    In passato, in una forma altrettanto superficiale, anche se del tutto priva di sublimi orpelli escatologico-ideologici (tutto sommato rischiosi per leggere senza lenti deformanti il mondo)che invece fanno da quadro alla nazione statunitense, abbiamo assistito nel post-Rinascimento al crollo delle gloriose Repubbliche Marinare, anch’esse basate sul primato dell’economia sulla politica.
    Ormai la trappola che ha portato gli USA, e con lei tutto l’occidente, su questa strada è scattata da trent’anni e i sovranismi, cartina di tornasole “di pancia” delle contraddizioni insite in un piano di dominio impostato contro ogni esperienza storica e, aggiungerei, elementare conoscenza antropologica, non sono nati nè in un giorno nè per caso. Auguriamoci che, a questo punto, ci sia ancora una via d’uscita dalla difficile situazione attuale non troppo penosa per gli USA e per noi europei, loro alleati.

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