Ucciso Rabin, pace lontana



Aldo Novellini    8 Novembre 2020       0

Il processo di pace tra israeliani e palestinesi, che da lungo tempo si trascina stancamente senza giungere ad alcunché di concreto, finì venticinque anni fa, nella notte in cui fu ucciso Yitzhak Rabin, l'unico in grado di dare un'accettabile soluzione al problema mediorientale. Proprio per questo fu ammazzato, la sera del 4 novembre 1995, da un sionista fanatico, Yigal Amir, al culmine di forsennata campagna di odio, da mesi orchestrata dalla destra israeliana, capitanata dall'allora leader del Likud, Benjamin Netanyahu.

Nel 1995, Rabin da tre anni era Primo ministro di Israele. Al potere vi era giunto nel giugno 1992, vincendo le elezioni alla testa della coalizione più spostata a sinistra che la storia israeliana ricordi, il cui principale, se non unico, obiettivo era di fare la pace con i palestinesi, nella logica di “due popoli, due Stati”. Rabin era l'uomo giusto per portare a compimento questa storica svolta. Non un politicante qualunque in vena di propaganda né un sognatore legato alle proprie utopie, ma un ruvido militare che aveva combattuto tutte le guerre che avevano opposto Israele ai Paesi arabi. Nel 1967 fu il condottiero vittorioso che riportava Gerusalemme sotto la Stella di Davide e anni dopo, il ministro della Difesa che voleva reprimere l'Intifada palestinese. Proprio questa lunga presenza sul campo lo aveva però indotto a riconoscere la legittimità della lotta nazionale palestinesi.

Poco dopo l'assunzione della guida del Paese iniziarono le trattative, con il preliminare riconoscimento dell'OLP – sino ad allora considerata una banda di terroristi – come rappresentante dei palestinesi con un primo abbozzo per il nuovo Stato e la restituzione di molte città della Cisgiordania (Gerico, Jenin, Ramallah ecc.).

Sullo sfondo rimanevano le trappole più insidiose: lo status di Gerusalemme e, soprattutto, il problema dei profughi. Un percorso a tappe pieno di insidie. Del resto, “la pace si fa con i nemici non con gli amici” ripeteva a chi gli rimproverava di aver stretto la mano (cosa che fece con estrema fatica) a Yasser Arafat sul prato della Casa Bianca. Certo, il cammino sarebbe stato lungo e faticoso e quello del ritorno dei profughi l'ostacolo forse insormontabile. Difficile infatti accogliere nel nuovo Stato palestinese quei milioni di arabi fuggiti da Israele nel 1948, a rischio, in un così ristretto spazio geografico, di mettere in discussione la tenuta stessa di Israele.

Eppure mai come in quel periodo un credibile assetto della regione parve davvero a portata di mano. Lo capirono benissimo i suoi avversari interni, bollandolo come traditore e innalzando cartelli dove compariva addirittura con la divisa nazista. Un'offesa ridicola, prima ancora che assurda, per chi aveva difeso la patria in tutti i conflitti contro il mondo arabo. Poi il 4 novembre, quegli spari al termine di un comizio nella principale piazza di Tel Aviv, posero fine a tutto.

Anche a una pace che pareva davvero a portata di mano.


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