Le strade divergenti verso l’Unione



Giuseppe Ladetto    18 Ottobre 2020       4

Qualche cosa sta cambiando nell'Unione Europea. Il Covid-19, ci dicono, ha spinto i vertici dell'Unione ad aprirsi alle esigenze dei Paesi che più hanno sofferto sul terreno economico a causa della pandemia. Il rigore è stato messo da parte e ha preso forza la solidarietà. Ma ci sono i Paesi frugali, da sempre critici dei Paesi mediterranei, che pongono continui ostacoli all'attuazione del Recovery fund, o mettono in atto manovre dilatorie. Credo tuttavia che occorra andare oltre la superficie per comprendere che cosa stia accadendo. E qui è importante sentire la voce di quanti si occupano di geopolitica.

Quest'estate quando si era manifestata l'ostilità dei cosiddetti “Paesi frugali“, e in particolare dell'Olanda, nei confronti dell'Italia ritenuta spendacciona, Dario Fabbri (analista di “Limes”), in un'intervista, ha detto che il bersaglio di detti Paesi è solo marginalmente l'Italia. Ciò che li ha indotti ad attivarsi è la preoccupazione per il nuovo corso della Germania. Questa nazione, gigante economico ma nano politico, sembra intenzionata a uscire dall'angolo in cui per anni si è confinata per diventare un attore protagonista nella costruzione europea. Un fatto reso evidente dalla volontà tedesca di farsi carico dei problemi di quanti si trovano con le ossa rotte a causa della pandemia. In Germania, si è compreso che senza assumere un forte ruolo politico (che necessariamente riguarda tutti gli ambiti) non si salvano nemmeno gli interessi economici. Un passo che spaventa molti. Di qui viene l'alt nei suoi confronti da parte dei Paesi “bottegai”, come l'Olanda, e dei Paesi scandinavi, dallo scarso sentimento europeo, per i quali (come era per il Regno Unito) l'Europa comunitaria è solo uno spazio economico in cui fare affari.

In un articolo su “Rinascita popolare” del maggio 2019, rilevavo che la Germania esitava a prendere le redini del processo unitario europeo perché ancora condizionata da un senso di colpa per il passato nazista, e quindi si rinchiudeva nella sola dimensione dell'economia, adottando politiche “egoistiche”, tese all'espansione del suo potenziale produttivo. Tuttavia, secondo attenti osservatori della vita politica tedesca, ad alimentare una tale politica, c'erano anche ragioni di prudenza. Infatti, l'eventuale scelta di farsi carico dei problemi dei Paesi in difficoltà sarebbe stata vista, da chi è ostile al processo unitario europeo (USA in primis), come un cambio di passo nella temuta direzione unitaria, che non sarebbe restato senza una pesante risposta da parte della potenza egemone.

Ma oggi a spingere la Germania a mutare atteggiamento, c'è anche la critica situazione della leadership americana. Ne deriva una debolezza di quest'ultima che può lasciar spazio a iniziative europee fino a ieri inimmaginabili. Gli Stati Uniti sono e restano una grande potenza, la sola in grado di esercitare un ruolo planetario, ma indubbiamente stanno perdendo colpi: l'economia non ha più il primato di un tempo, e soprattutto è in forte caduta quella capacità di attrazione rappresentata dal suo modello di vita, proposto come universale. Su questo aspetto, incide negativamente lo squallore in cui è venuta a cadere la sua classe politica. Ne dà una efficace rappresentazione il noto scrittore francese Alain Finkielkraut: ”Lo spettacolo offerto dagli Stati Uniti oggi è scoraggiante: si affrontano un Partito repubblicano rappresentato in modo caricaturale da Trump e una sinistra radicale che pratica una cancel culture di cui Joe Biden sembra prigioniero. L'uno rafforza l'altro. Siamo stretti in una morsa di due insipienze”.

Poi ci sono i Paesi di Visegrad che trovano a ridire sulle proposte della Commissione, e condizionano il loro sì a una diversa spartizione del Recovery fund, più generosa nei loro confronti. Polonia e Ungheria inoltre introducono a tal fine anche l'accantonamento della questione del mancato rispetto dello “Stato di diritto”. Sono nel complesso quei Paesi “sovranisti” che, mentre beneficiano dei finanziamenti europei, non vogliono la ripartizione dei migranti, e ci sottraggono manifatture offrendo agli imprenditori ponti d'oro per le delocalizzazioni. Anche in questo caso, tuttavia è bene andare un po' più a fondo.

Nei media di casa nostra, si è sentito poco parlare del Trimarium, un patto che raggruppa 12 Paesi, compresi tra il Mar Baltico, il Mar Nero e l'Adriatico: Polonia, Ungheria, Cechia, Slovacchia, Romania, Bulgaria, Slovenia, Croazia, Austria e i tre Stati baltici. Lo scopo dichiarato del patto sarebbe solo di natura economica, teso a costruire infrastrutture logistiche tra gli Stati partecipanti, e a consolidare e approfondire la reciproca cooperazione, in particolare nel settore energetico. Tuttavia, in specie per la Polonia (il Paese promotore del patto insieme alla Lituania), è evidente l'intenzione di andare ben oltre la dimensione economica per aprirsi a prospettive strategiche di ordine geopolitico. Alla base, c'è l'ostilità verso la Russia e verso la Germania, percepite come soggetti “prepotenti” o “prevaricatori”. Tenuto conto della complementarietà, non solo economica, fra le due potenze citate e di precedenti storici, c'è il timore di una possibile loro intesa e convergenza di interessi che penalizzi quelli dei Paesi del club Trimarium. Si tratta di un timore condiviso, e anzi alimentato, dagli Stati Uniti, che guardano a questa “Nuova Europa” (così definita da Bush figlio in contrapposizione alla “Vecchia Europa” non sempre attenta agli interessi americani) come al più fedele “alleato” europeo. Non a caso sono stati gli USA a forzare l'Unione ad allargarsi ai Paesi dell'Est, in realtà non “maturi” per un tale passo.

Ricordiamoci che i Paesi sottoscrittori del patto dei Tre Mari, per vari secoli, sono stati sotto la dominazione di vari imperi (asburgico, tedesco-prussiano, zarista), o del sultanato ottomano. Con la caduta di tali formazioni politiche plurinazionali, hanno ottenuto, fra le due guerre mondiali, una temporanea indipendenza, ma hanno visto pienamente realizzata la propria sovranità soltanto con il crollo dell'URSS che, nel secondo dopoguerra, li aveva posti sotto controllo. È quindi, per certi versi, comprensibile che vivano una tardiva stagione “nazionalistica”. La Polonia in particolare (che in passato era stata una rilevante potenza europea e che, sotto i sovrani della casa lituano-polacca degli Jagelloni, si era espansa fino ad occupare le terre ortodosse della Bielorussia e di larga parte dell'Ucraina) sembra oggi voler rivivere quel periodo glorioso e guarda con desiderio a queste aree cercando di estendere su di esse la sua influenza.

Ha scritto Germano Dottori (“Limes” n.12/ 2017) che i Paesi dell'Europa Centro-Orientale guardano all'Unione Europea solo come a una cornice entro cui perfezionare la costruzione della loro indipendenza nazionale, per cui è inevitabile che l'iniziativa dei Tre Mari sia percepita come l'indizio della volontà dei suoi promotori di costruire un contraltare destinato a riservare amare sorprese agli altri membri della UE, come quella, ad esempio, di favorire la politica dell'America di Trump contro la Germania, nel momento stesso in cui si invoca un maggiore impegno di Berlino per il rilancio del processo unitario europeo.

Il quadro dianzi disegnato ci obbliga a fare delle considerazioni dettate da realismo.

In questa situazione, l'Italia non ha altra opzione se non quella di cercare di favorire i passi intrapresi dalla Germania e dalla Francia, e ciò non certo al solo scopo di ottenere i finanziamenti promessi dalla Commissione. Per il nostro Paese, non ci sono spazi al di fuori di un forte collegamento in Europa con le sopraddette nazioni.

Nell'attuale scenario internazionale, è più che giustificato mettere in dubbio la realizzazione degli Stati Uniti d'Europa con gli attuali 27 Paesi aderenti all'UE. Gli ostacoli e i ritardi su questo cammino non possono essere imputati a questa o quella formazione politica sovranista, o a singoli leader politici autoritari che guardano al passato. Bisogna riconoscere che ci sono profonde ragioni geopolitiche e storiche che impediscono tale percorso. In particolare i Paesi dell'Europa centro-orientale vanno per un'altra strada, e la proseguiranno almeno fino a quanto saranno in ciò sostenuti dagli USA.

Prima o poi, per dare vita ad una Europa politica, si dovrà tornare a quel nucleo carolingio che ha dato origine al progetto europeo, allargandolo a Spagna, Portogallo e a quanti seriamente disponibili all'impresa. Il primo passo potrebbe consistere nel ricorso a procedure di cooperazione rafforzata fra i Paesi interessati al progetto. Quanti invece vedono nell'Unione solo uno spazio economico, se non intendono cambiare linea, è bene che facciano un passo indietro.

Da questo punto di vista, il Regno Unito, con la brexit, ha fatto una scelta coerente con tutta la sua storia e visione del mondo. I Paesi frugali – che nel loro complesso non sono confrontabili con il Regno Unito per rilevanza politica ed economica, e non hanno un peso demografico comparabile con quello dei Paesi di Visegrad – molto probabilmente, messi alle strette, dovranno riconsiderare, volenti o nolenti, la loro posizione attuale di scetticismo europeista. Invece, le nazioni dell'est europeo, al momento, non sono recuperabili.

Ovviamente le difficoltà saranno molte. Fra le principali, si deve mettere in conto una stagione di forti contrasti con gli Stati Uniti dagli esiti incerti. Poi la Germania dovrà risolvere la posizione equivoca che tiene nei confronti della Russia. Sta infatti giocando una partita su due tavoli: da un lato, ha necessità di mantenere importanti rapporti economici (e non solo) con Mosca: rifornimento di gas, consistenti investimenti nelle aziende colà impiantate, esportazioni in un Paese di 150 milioni di abitanti, opportunità offerte dalle rilevanti risorse del vasto territorio russo; dall'altro lato, strizzando l'occhio ai Paesi di Visegrad (in cui ha rilevanti interessi economici), promuove sanzioni contro Mosca, dopo aver preso parte, insieme ad altri attori occidentali, agli eventi che portarono al colpo di Stato in Ucraina contro il discutibile, ma comunque pienamente legittimo governo Janukovic. Una condotta contraddittoria che non potrà mantenere a lungo.

Infine c'è la necessità di ridefinire una politica verso l'Africa, dove la Francia ha interessi talora contrastanti con quelli di altri partecipanti al progetto europeo. Comunque per avviare un serio processo unitario, il momento è favorevole, e bisogna cogliere questa opportunità di cambiamento.


4 Commenti

  1. Quadro impeccabile, quello di Ladetto, al quale aggiungerei solo che in un’ottica mondiale se l'”Europa Carolingia” non riuscirà nella realizzazione di questo piano, visto il quadro mondiale di declino (a mio avviso anche di modello di civiltà) degli USA l’Europa potrebbe rischiare, anche per le complementarietà economiche tra Germania e Russia (che possono tranquillamente essere estese all’intera “Europa Carolingia allargata”, ma con l’esclusione, come osserva Giuseppe Ladetto, degli “affraristi” scandinavi e ai “trimarienses”), di trovare come unico alleato geopolitico (hanno ancora senso le alleanze ideologiche?) la Russia. Cosa probabilmente tollerabile per una forte “Europa Carolingia allargata” politica, oltre che economica, ma dagli esiti pericolosi in caso di un'”Europa Carolingia” che restasse, qual è, un “gigante economico ma nano politico” (i termini per mantenersi su questa strada sono ormai ampiamente scaduti e gli squilibri ecologici, a cui appartiene anche il Covid, che mettono in discussione molte cose in campo economico, senza un disegno di stato federale europeo nelle presenti difficoltà non potranno che portare in poco tempo al disfacimento di qualsiasi forma di solidarietà etichettata UE). Altre soluzioni realistiche, che impediscano che il declino USA (di civiltà, lo ribadisco con convinzione, oltre che economico-militare) si trasformi in un tracollo dell’intero agglomerato delle nazioni europee, e quest’ultima finisca col prendere il posto della Cina degli ultimi secoli come “grande malata del mondo”, non ne vedo.

  2. riflessione di politica economica davvero interessante su cui bisognerebbe fare serie valutazioni sopratutto da coloro che hanno il potere politico. Non credo che il livello culturale in materia da parte della classe politica europea ma soprattutto italiana sia all’altezza di questa importante lezione.

  3. Giuseppe Ladetto con grande chiarezza pone e contestualizza in termini geopolitici la questione fondamentale: dove sta andando l’Europa? Una domanda elusa anche di fronte all’emergenza sanitaria, ma alla quale è impossibile sottrarsi per uscire dalla inaudita crisi in cui ci troviamo. La sua conclusione, che è nel contempo una proposta, è quella di invocare una sorta di cooperazione rafforzata attorno al motore franco-tedesco capace di superare l’immobilismo dell’Ue a 27, alimentato anche dalla diversità di impegno nel progetto europeo dei Paesi dell’Est.
    Si tratta di una prospettiva senz’altro suggestiva ma, a mio modesto avviso, forse non altrettanto praticabile, per mancanza di alcuni presupposti. La prima condizione, infatti, dovrebbe esser quella di avere una Germania capace di fare sintesi degli interessi diversi e talora contrapposti tra Frugali e Mediterranei. Dopo la riunificazione tedesca, invece, si è visto anziché una Germania all’angolo, una Nazione che da subito ha preso le redini della casa comune europea, esercitando la sua guida nell’unico modo in cui appare capace di farlo: condividendo le regole del mercantilismo e dell’ordoliberimo, per lei favorevoli o addirittura vitali, a tutti gli altri Partners dell’Ue, con un impatto maggiore per quelli nell’Eurozona. Da questo sono nati gli squilibri strutturali che hanno reso più accidentato il sentiero europeo in questo secolo: l’aumento delle divergenze fra Stati, frutto di regole economiche e monetarie che hanno determinato un continuo trasferimento di ricchezza dalle aree più periferiche a quella centrale. Una dinamica che – dispiace molto doverlo riconoscere – non è cambiata neanche all’insorgere della crisi pandemica. Gli accordi europei del luglio scorso rappresentano sicuramente un passo in avanti sotto diversi punti di vista (e soprattutto per un futuribile esito finale legato alla restituzione dei debiti che non esclude l’opzione della loro condivisione a livello comunitario) ma non sfuggono ai limiti insiti della guida tedesca dell’Europa, che si è verificata nell’ultimo ventennio. Tali “aiuti europei” o sono sovvenzioni, e dunque partite di giro, soldi degli stati membri versati al bilancio dell’Unione, oppure sono debiti che andranno restituiti. E le risorse mobilitate attraverso il Next Generations Eu sono complessivamente nell’ordine di alcune centinaia di miliardi a fronte di necessità di qualche migliaia.
    Il fattore veramente nuovo ed efficace, credo invece che non vada ricercato nella disponibilità tedesca a farsi carico dei problemi, che si è vista poco, bensì nell’azione esercitata dalla Bce come prestatrice di ultima istanza, di fatto e nonostante i divieti e i limiti cui deve sottostare.
    L’attualità lo conferma. Il ricorso al Mes viene ormai respinto da tutti, compreso dal presidente Conte per l’Italia. È iniziata pure la fuga dal Recovery Fund, con Portogallo e Spagna che già intendono rinunciare alla parte a debito (70 miliardi per Madrid) di tale fondo, e con la Francia che sembra orientata a fare altrettanto. Nel contempo nel solo anno in corso la Bce ha comprato 210 miliardi di titoli italiani, con una previsione d’acquisto per l’anno prossimo di circa 150. E così Francoforte fa per tutti i Paesi. Questi sono i veri aiuti europei. E per questa via che si arriva all’unità europea, con la condivisione del debito.
    Ma la Germania lo vuole veramente oppure il suo disegno è un altro, magari in compagnia dei miliardari delle Big Tech e della Cina comunista? Se il governo di Berlino crede di più nella prospettiva di una Germania europea, anziché in quella di un’Europa tedesca, ha l’occasione di dimostrarlo in questa delicatissima fase, accettando che la Bce si comporti come tutte le altre banche centrali del pianeta. Se invece rispunteranno le sirene di Karlsruhe, vale a dire i paletti alla monetizzazione del debito, allora, ogni ulteriore passo in quella direzione comporterà rischi di tenuta sociale, economica e finanche democratica per i Paesi meridionali.
    È fuori discussione l’enorme influenza che avranno le vicende elettorali americane sui futuri sviluppi del percorso di integrazione europea. Ma il vero ostacolo all’unità europea mi pare rimanga la Germania, non gli Stati Uniti, i quali di fronte ad una concreta volontà di europeizzazione da parte tedesca non potrebbero che prenderne atto.

  4. commento interessante da parte di Davicino ma credo eccessivamente pessimista nei confronti della Germania. Per ben due volte la Corte di Karlsruhe si è adagiata sulle volontà del Governo Centrale che ha stemperato tutti i pericoli. Credo che sarà così anche per l’avvenire perché ai tedeschi, che hanno ormai assunto la guida di questa Europa, non conviene sfasciare il nocciolo “carolingio” di questa Unione.

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