Populismo e sovranismo sono il nuovo fascismo?



Giuseppe Ladetto    31 Agosto 2020       1

Sono frequenti gli interventi di politici, giornalisti e personalità varie che denunciano il pericolo di un riemergere del fascismo. Viviamo in un'epoca di cambiamenti o meglio in un periodo di transizione verso qualche cosa di non ancora definito. In tale situazione, è comprensibile che ci sia preoccupazione per il futuro della democrazia o quanto meno del quadro istituzionale che ha caratterizzato il Paese dal dopoguerra ad oggi. Tuttavia sappiamo che la storia non si ripete mai nelle stesse forme perché le situazioni cambiano e nascono nuovi problemi che richiedono diverse soluzioni rispetto al passato.

Così, come ritengo insensato usare il termine “dittatura” per ogni sistema istituzionale che non sia liberaldemocratico (da parte di taluni perfino con riferimento a epoche di un lontano passato), altrettanto non credo sia giustificato storicamente, né utile politicamente, considerare il fascismo un fenomeno atemporale che può emergere ovunque e in qualunque momento storico, e neppure definire “fascista” ogni eventuale deriva autoritaria che da esso sia comunque assai differente per tipologia, obiettivi e strumenti impiegati. Il contesto attuale sembra avere poco in comune con quello in cui si è sviluppato e affermato il fascismo. Bisogna considerare quali siano stati gli elementi caratterizzanti la sua nascita e affermazione, e fra questi, a mio parere, oggi ne mancano tre rivelatisi determinanti: il diffuso culto delle avanguardie rivoluzionarie motrici della storia, la guerra e le sue conseguenze, e il sostegno del grande capitale e degli agrari.

All’inizio del XX secolo, in un mondo in trasformazione, erano sorti in Europa movimenti politici e culturali antiparlamentari (e talora esplicitamente antidemocratici) che auspicavano una rottura con il passato per attuare una rivoluzione tesa a creare un “uomo nuovo”, una rivoluzione di cui dovevano essere protagoniste le avanguardie, ovvero delle minoranze attive con voglia di cambiamento. Sul terreno politico, si proponevano come interpreti di questa linea di rottura con il passato (identificato nell’italietta giolittiana, nel socialismo riformista, nella cultura positivista), quanti, sia a destra (nazionalisti, futuristi), sia a sinistra (sindacalisti rivoluzionari, soreliani, ecc.), confidavano nell’azione diretta condotta da illuminati gruppi minoritari, i soli che avevano compreso i tempi nuovi e, pertanto, avevano il compito di trascinare le masse sul cammino tracciato dalla storia.

Nel 1914, con lo scoppio della Grande Guerra, in Italia, tutti gli interpreti (politici, sindacali e culturali) di queste correnti di pensiero si ritrovarono accomunati nell’interventismo. Gli interventisti erano una minima parte del popolo italiano che intendeva, con la forza nelle piazze e con la propaganda sui giornali, far prevalere la propria volontà. Fra questi, una certa tradizione storica include anche una componente democratica, il cosiddetto “interventismo democratico”. Francamente non riesco a intravedere un valore democratico nel voler imporre al Paese e alle masse operaie e contadine una guerra della quale queste ultime avrebbero portato il peso maggiore. Che cosa c’è di democratico nelle parole di coloro che invocavano una guerra da cui sarebbe nata, nel sangue, una Italia rinnovata e migliore? In ogni caso, la presunta finalità “democratica” annunciata non giustificava la messa in atto di una prassi totalmente antidemocratica. E gli interventisti riuscirono, con le intimidazioni, il sostegno di una stampa sensibile agli interessi dell'industria degli armamenti e la complicità del re, a trascinare il Parlamento (la cui maggioranza era contraria) a deliberare l’entrata in guerra.

È qui, nell’atteggiamento elitario di chi vuole imporre la propria linea alla maggioranza dei cittadini e nella violenza impiegata a tal fine, che troviamo una prima radice del fascismo.

Ha scritto Agnes Heller che i totalitarismi (fascismo, bolscevismo e nazismo) sono stati i frutti tossici del Novecento, e ha aggiunto che è stata la Prima guerra mondiale a preparare loro il terreno e agli altri orrori succedutisi. La Grande Guerra è stata una palestra di violenza per molti giovani; li ha avvezzati allo sprezzo del pericolo (vedi gli arditi) e alla scarsa considerazione per la vita umana (di chi indossava altra divisa e non solo). È stata causa di sofferenza per chi vi ha partecipato lasciando dietro di sé una forte ostilità verso gli “imboscati”, fra i quali erano inclusi tutti coloro che per qualunque ragione avevano evitato di prendere le armi o ne erano stati esonerati (ad esempio gli operai della grande industria). Questa consuetudine con l'aggressività, la disumanità e lo spargimento di sangue ha contribuito alla nascita di un clima in cui, ancora nel primo dopoguerra, le azioni violente hanno trovato fertile terreno e delle quali è stato un importante protagonista lo squadrismo fascista.

Soprattutto. nell'avvento del fascismo, non può essere sottovalutata la dimensione del conflitto di classe in cui si è inserito il fenomeno politico. Nel periodo post bellico, a seguito della rivoluzione di ottobre, l’intero Occidente percepiva il bolscevismo come un’incombente minaccia. Nei Paesi sconfitti (Germania, Austria e Ungheria) e in quelli che, come l’Italia, pur vincitori, non si sentivano ricompensati del duro prezzo pagato per la partecipazione allo sforzo bellico, montavano le agitazioni e le rivendicazioni delle masse popolari.

La piccola e media borghesia, già duramente colpita dall'inflazione, si sentiva schiacciata fra l'alta borghesia (che aveva beneficiato delle spese belliche) e la classe operaia organizzata, ma avvertiva il comunismo come il principale pericolo. Per combattere quest'ultimo (come ha scritto Angelo Tasca), con il sostegno pieno ed attivo dei ceti medi, prese vita il movimento fascista che trasse dal pur avversato bolscevismo modi organizzativi e metodi di azione. Tuttavia, tale movimento non avendo con il sostegno della sola piccola e media borghesia la forza necessaria per imporsi sulla classe operaia organizzata, dovette allearsi col grande capitale e con gli agrari diventandone il braccio armato e operativo. Anche in Germania, Hitler non avrebbe mai conquistato il potere senza il fondamentale sostegno della grande industria e il via libera degli apparati burocratici e militari dello Stato tedesco, tutti mossi dalla paura del comunismo.

Oggi, nei movimenti populisti e sovranisti non c’è nulla che si richiami al culto delle avanguardie, per loro natura sempre minoritarie ancorché determinate a conquistare il potere. Non c’è, inoltre, nei populisti (e neppure nei sovranisti) l’apologia della guerra catalizzatrice di spinte rivoluzionarie. Soprattutto, nei movimenti populisti e nei sovranisti, non troviamo alcun filo conduttore che li porti al grande capitale, oggi ormai internazionale e senza legami con gli Stati nazionali. Anzi il grande capitale è a favore della globalizzazione e sostiene, finanziariamente e soprattutto con i media che controlla quasi totalmente, le forze di impronta liberale o moderata. E altrettanto schierati con queste ultime sono gli apparati burocratici e militari degli Stati occidentali.

Ritengo, pertanto, assai discutibile e impropria l’accusa ai sopraddetti movimenti di essere espressione di una nuova versione del fascismo. Lo scrive anche lo storico Emilio Gentile, rilevando che i populisti attuali (sovranisti inclusi) riconoscono il principio della sovranità popolare e si legittimano con il voto popolare, mentre tutti i fascismi negavano tale principio e escludevano che il popolo potesse autogovernarsi in qualsiasi forma. È pertanto su altri terreni che si possono fare consistenti e giustificate critiche a detti movimenti senza caricarli di addebiti inappropriati (che, per la evidente forzatura, finiscono per rendere poco attendibili anche i giusti rilievi).

Certamente, se le liberaldemocrazie continueranno a mostrarsi incapaci di decisioni a fronte delle molte criticità che caratterizzano il presente (dalle modificazioni climatiche, al crescente divario economico tra vincenti e perdenti nel mercato globale, ai fenomeni migratori fuori controllo, e ultimamente alla pandemia), è possibile che si determinino svolte in senso autoritario, ma il riferimento non sarà il fascismo. Si guarderà piuttosto con interesse ai modelli asiatici sperimentati da Singapore, da Taiwan e dalla Corea del Sud. Inoltre, gli interpreti di una tale possibile svolta non saranno i populisti e i sovranisti, ma piuttosto quelle élite sempre pronte ad adattarsi alle nuove situazioni purché nella sostanza nulla cambi in termini di potere.

In materia, è ancora attuale quanto scritto da Ralf Dahrendorf negli anni Novanta (Quadrare il cerchio, Laterza). Diventa sempre più difficile (scrive il sociologo) far convivere, nel mercato globale, sviluppo, libertà individuale, democrazia e coesione sociale. Ci troviamo pertanto di fronte a delle scelte drammatiche. Per restare competitivi, i governi devono prendere misure destinate a danneggiare la coesione della società civile. Se non prendono tali misure, devono restringere le libertà civili e la partecipazione politica assumendo caratteri autoritari. Se cercano di mantenere welfare, coesione sociale e libertà politica, i Paesi sono destinati al declino.

Gli Stati Uniti (e la costellazione anglosassone) hanno scelto di privilegiare lo sviluppo economico e la libertà individuale rispetto alla coesione sociale. I Paesi sviluppati dell'Asia orientale e sud orientale, in diversa misura, hanno dato vita a governi forti, autoritari ma non totalitari, che riducono i margini della libertà civica senza interferire nelle attività economica e privata dei cittadini. Così si dimostrano in grado di competere nei mercati mondiali senza rinunciare alla coesione sociale e ai propri valori culturali e identitari.

L’Europa continentale (sempre secondo Dahrendorf) cerca invece di realizzare la quadratura del cerchio e quindi rimane ferma, non fa scelte. Per questo, i Paesi europei pagano il pegno di un’economia poco dinamica e di una scarsa crescita, mentre le rigidità strutturali comportano immobilità e una competitività in rapido declino. Se pertanto l'Europa vorrà uscire dall'immobilismo dovrà scegliere a che cosa rinunciare.

Ora se consideriamo il peso assegnato dagli europei alla coesione sociale e la centralità assunta dal welfare in ogni progetto politico, è possibile che qualche aspetto del modello asiatico (dimostratosi vincente anche nell'affrontare la pandemia) possa essere preso in considerazione, quanto meno da parte di un ceto dirigente tecnocratico, a fronte delle sempre più marcate criticità che da tempo investono il nostro continente.

Tuttavia, se, a causa del Covid-19, la globalizzazione entrerà in crisi, ne scaturiranno prospettive completamente diverse.


1 Commento

  1. lezione di storia impeccabile che spiega la svolta ideologica che stanno maturando molti cittadini in presenza di un modello sociale ipergarantista che rischia di essere considerato un male oscuro che attenta la nostra democrazia ed il nostro vivere comune.

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