Il coronavirus prima ha investito la Cina, poi si è via via diffuso oltre confine, creando una pericolosa pandemia. Di fonte ad essa, la più parte dei Paesi è ricorsa alla fermata o alla limitazione dei movimenti delle persone per arrestare la diffusione del contagio. Le conseguenze sul sistema produttivo e sull'economia si sono ben presto dimostrate devastanti. Ora, ci si chiede come e quando sarà possibile uscirne e se mai potremo ritornare a vivere come prima, in quella società aperta al mondo, priva di rigidi confini.
Subito i fautori della globalizzazione sono scesi in campo. Le pandemie (ci hanno detto) esistono da quando possediamo una memoria storica degli eventi. In passato c'era poco da fare per combattere questi flagelli e limitarne la diffusione. Oggi, invece, grazie ai progressi della medicina, alla collaborazione nella ricerca dei mezzi di difesa e agli interventi coordinati delle autorità sanitarie mondiali, sappiamo circoscrivere e controllare le pandemie, e curare chi ne è colpito. Secondo Guido Alfani (“La Stampa” 13/2/2020), la globalizzazione non è responsabile delle pandemie, ma anzi ne è l'antidoto.
Se tuttavia consideriamo, unitamente alle epidemie riguardanti gli esseri umani, anche le malattie esotiche degli animali in allevamento e le patologie di importazione delle piante coltivate, possiamo constatare che complessivamente questi fenomeni negativi si fanno sempre più frequenti, si diffondono rapidamente e colpiscono aree geografiche più estese rispetto al passato.
Secondo Mario Tozzi (“La Stampa” 4/3/2020), nella diffusione e gravità delle patologie infettive, come quella in corso, incidono e incideranno sempre più i comportamenti del moderno Homo sapiens. Infatti, l'aumento della popolazione sulla Terra, la densità delle moderne aree urbane e la mobilità delle persone, favoriscono i salti di specie degli agenti patogeni e/o la loro diffusione; l'inquinamento, in particolare dell'aria urbana, predispone i soggetti deboli infettati a maggiori rischi; il riscaldamento climatico porta con sé la diffusione in zone temperate di insetti tropicali vettori di patologie, come dengue e febbre gialla.
Al centro del dibattito si pone, pertanto, l'interrogativo sull'effetto che questo evento negativo ha, o potrà avere, sulla globalizzazione.
Di fronte alla pandemia in corso, un po' tutti abbiamo avvertito che il complesso edificio dell'economia globalizzata si è dimostrato molto fragile: infatti il suo funzionamento può essere inceppato da eventi imprevedibili (che probabilmente saranno sempre più frequenti) con ripercussioni che riguardano il mondo intero e conseguenze molto pesanti in termini umani ed economici.
Oggi, in un mondo sempre più globalizzato, il Covid-19 ha indotto in pochi mesi una crisi tipo 2008-2009, o peggio simile a quella del Ventinove, con conseguenze estese all'intero pianeta per la maggiore interdipendenza dei sistemi produttivi e per il ruolo centrale della Cina nella fornitura di componenti impiegati in vari processi manifatturieri. E a mettere in crisi Paesi diventati completamente interdipendenti, possono sopravvenire molteplici eventi negativi delle tipologie più varie. Ci sono quelli riconducibili a fatti naturali, come appunto le epidemie riguardanti l'uomo causate da nuovi virus o da microrganismi mutati, o come l'ingresso nel paese di agenti patogeni esotici di animali domestici e di piante coltivate che provocano gravi danni all'agricoltura. Ci sono poi situazioni riconducibili alle azioni umane che possono incidere sulla vita di nazioni, o di estese aree geografiche, o del mondo intero: crisi economiche, guerre, guerriglie, atti terroristici di tipo tradizionale o a mezzo di strumenti informatici, rivolgimenti politici accompagnati da sommosse, sanzioni che penalizzano direttamente i Paesi colpiti e quelli che hanno relazioni economiche con essi, ecc.
Alcuni settori sono particolarmente sensibili a eventi di tale natura. Su di essi, le ripercussioni sono immediate e di ampia portata. Il più evidente è quello del turismo. Lo vediamo oggi, ma già qualche anno fa la Tunisia, a seguito di alcuni attentati (fatto di portata limitata se confrontato con la situazione odierna), ha visto crollare a zero il settore turistico, che rappresentava un punto di forza nell’economia del Paese e la principale fonte di valuta estera. Le crisi, inoltre, sempre incidono maggiormente sulle produzioni di beni e servizi non essenziali riguardanti la moda, i beni di lusso, vini e prodotti alimentari pregiati. L'Italia fa molto affidamento sul turismo e su tali settori, esponendosi a rischi elevati.
Guardando al prossimo futuro, dobbiamo anche prendere in considerazione l'incidenza che, su un'economia fortemente interconnessa, potranno avere le necessarie trasformazioni imposte dalla lotta al cambiamento climatico. Ad esempio, il mezzo aereo è fonte di rilevanti emissioni di CO2: un aereo, in un percorso di lunghezza media, produce per passeggero una quantità di CO2 pari a quanto emesso per riscaldare e/o climatizzare un alloggio per un intero anno. Il suo uso per i viaggi delle persone e il trasporto di prodotti diventa giustificabile solo in casi di assoluto rilievo. Fra questi, non sembrano rientrare i viaggi turistici, la movimentazione di prodotti alimentari (anche di pregio), e il trasporto di manufatti industriali e dei relativi componenti se non di valore aggiunto molto elevato. Tutto ciò rende ancora più difficili le prospettive di quei settori sopra citati, già maggiormente esposti alle conseguenze di imprevisti eventi negativi.
Andrea Malaguti (“La Stampa” 5/3/2020) ha scritto che “il Covid-19 ci obbliga a rallentare, costringendoci a chiederci se il prezzo che abbiamo pagato alla globalizzazione e alle divinità dei mercati non sia stato inutilmente alto”.
Forse è venuto il momento di ripensare il modello di economia globalizzata vigente.
A doverci preoccupare, non è solo la totale dipendenza dalla Cina per il materiale sanitario e molteplici altri beni, come scrivono molti commentatori. C'è altro che dovrebbe preoccuparci ancor più. L'Italia (e con lei vari Paesi europei) è in grado di coprire con i propri raccolti poco più della metà del fabbisogno nazionale di cerali e meno della metà del fabbisogno di semi oleosi, derrate da cui (direttamente o indirettamente) dipende la produzione di quanto mettiamo nel piatto in tavola (pane, pasta, riso, carne, latte, uova e derivati). Di contro, ci dicono che la Terra sarà in grado di sfamare 10 miliardi di esseri umani, e quindi non ci sono, né ci saranno, da temere crisi alimentari. Attenzione perché fare previsioni “a freddo”, riferite a un mondo immaginato stabile, è un conto; altra cosa è quanto potrebbe accadere con il sovrapporsi di più emergenze critiche. Essere autonomi almeno per quanto è vitale sarebbe più che ragionevole, così come lo è smettere di cementificare il suolo e i terreni agricoli in particolare. Dovremmo, inoltre, preoccuparci anche della nostra dipendenza energetica dalle fonti fossili, in gran parte importate, quando è necessario rendercene autonomi puntando tutto sulle energie rinnovabili.
Gli Stati Uniti (che hanno una chiara consapevolezza di quanto serve al Paese nei periodi difficili, come potrebbe essere una guerra) si garantiscono la piena autosufficienza nei settori vitali. Da sempre, sostengono e proteggono la propria agricoltura ritenendo strategica la produzione di alimenti. Altrettanto si sono resi indipendenti dalle importazioni di petrolio e gas, anche con ricorso al shale-oil e al shale-gas, peraltro di negativo impatto ambientale.
Nel corso di questa pandemia, abbiamo visto che cosa comporti aver rinunciato a produrre in patria mascherine, caschi, altri dispositivi di protezione sanitaria e farmaci (perfino la tachipirina è prodotta in Cina). Evitiamo che ciò possa accadere domani per altri beni indispensabili e in particolare per gli alimenti e l'energia.
Dipendere dalla Cina è pericoloso (viene detto), ma lo è altrettanto la dipendenza dagli altri Paesi (compresi quelli occidentali). Le situazioni di emergenza portano inevitabilmente a corse all'accaparramento, a divieti di esportazione dei beni e delle risorse di cui si verificano o si temono carenze. Lo abbiamo constatato in questi giorni in cui sono stati perfino commessi veri atti di pirateria per impadronirsi di mascherine e respiratori anche da parte di paesi “amici”.
Mario Deaglio, alcuni anni fa (2003), evidenziando i limiti, non previsti, ma già evidenti, della globalizzazione (guasti ambientali, aumento dei divari tra aree geografiche e all'interno dei singoli Paesi, aumento della povertà in Europa e USA) aveva prospettato la necessità di dare vita a un differente modello di relazioni economiche, a un “arcipelago” caratterizzato dall'integrazione commerciale tra Paesi geograficamente prossimi e legati da vincoli storico-culturali, lasciando a livello globale i mercati delle materie prime, una parte della finanza, nonché le reti (trasporti, comunicazioni, internet). Ho sentito dire da esperti di economia che ormai la globalizzazione ha fatto, da allora, grandi passi in avanti, e quel modello auspicato da Deaglio è diventato improponibile. Ma gli esperti in materia non hanno previsto quanto sta accadendo in questi giorni, e probabilmente sottovalutano i possibili nuovi cigni neri di natura non economica, o finanziaria, che possono comparire all'orizzonte in un mondo in cui crescono criticità di varia natura.
Credo che la presente crisi ci debba ammaestrare. Nei momenti di difficoltà, c'è la necessità di rafforzare il tessuto sociale e democratico, una esigenza che dovrebbe spingerci a spostare il baricentro dell'attività economica verso la dimensione locale. Gli enti territoriali, vicini alle gente, e le comunità costruite intorno ad essi sono i luoghi più idonei per generare una rete di relazioni solidali. Una tale rete è indispensabile per fare fronte alla minore disponibilità di risorse che ci attende e ai guasti di sempre possibili eventi imprevedibili.
Non si tratta di un ritorno a chiusure autarchiche, quanto piuttosto di mettere in pratica la sussidiarietà, non solo in ambito politico-amministrativo, ma anche in campo economico-produttivo e direi nell'organizzare la vita di ogni comunità.
Subito i fautori della globalizzazione sono scesi in campo. Le pandemie (ci hanno detto) esistono da quando possediamo una memoria storica degli eventi. In passato c'era poco da fare per combattere questi flagelli e limitarne la diffusione. Oggi, invece, grazie ai progressi della medicina, alla collaborazione nella ricerca dei mezzi di difesa e agli interventi coordinati delle autorità sanitarie mondiali, sappiamo circoscrivere e controllare le pandemie, e curare chi ne è colpito. Secondo Guido Alfani (“La Stampa” 13/2/2020), la globalizzazione non è responsabile delle pandemie, ma anzi ne è l'antidoto.
Se tuttavia consideriamo, unitamente alle epidemie riguardanti gli esseri umani, anche le malattie esotiche degli animali in allevamento e le patologie di importazione delle piante coltivate, possiamo constatare che complessivamente questi fenomeni negativi si fanno sempre più frequenti, si diffondono rapidamente e colpiscono aree geografiche più estese rispetto al passato.
Secondo Mario Tozzi (“La Stampa” 4/3/2020), nella diffusione e gravità delle patologie infettive, come quella in corso, incidono e incideranno sempre più i comportamenti del moderno Homo sapiens. Infatti, l'aumento della popolazione sulla Terra, la densità delle moderne aree urbane e la mobilità delle persone, favoriscono i salti di specie degli agenti patogeni e/o la loro diffusione; l'inquinamento, in particolare dell'aria urbana, predispone i soggetti deboli infettati a maggiori rischi; il riscaldamento climatico porta con sé la diffusione in zone temperate di insetti tropicali vettori di patologie, come dengue e febbre gialla.
Al centro del dibattito si pone, pertanto, l'interrogativo sull'effetto che questo evento negativo ha, o potrà avere, sulla globalizzazione.
Di fronte alla pandemia in corso, un po' tutti abbiamo avvertito che il complesso edificio dell'economia globalizzata si è dimostrato molto fragile: infatti il suo funzionamento può essere inceppato da eventi imprevedibili (che probabilmente saranno sempre più frequenti) con ripercussioni che riguardano il mondo intero e conseguenze molto pesanti in termini umani ed economici.
Oggi, in un mondo sempre più globalizzato, il Covid-19 ha indotto in pochi mesi una crisi tipo 2008-2009, o peggio simile a quella del Ventinove, con conseguenze estese all'intero pianeta per la maggiore interdipendenza dei sistemi produttivi e per il ruolo centrale della Cina nella fornitura di componenti impiegati in vari processi manifatturieri. E a mettere in crisi Paesi diventati completamente interdipendenti, possono sopravvenire molteplici eventi negativi delle tipologie più varie. Ci sono quelli riconducibili a fatti naturali, come appunto le epidemie riguardanti l'uomo causate da nuovi virus o da microrganismi mutati, o come l'ingresso nel paese di agenti patogeni esotici di animali domestici e di piante coltivate che provocano gravi danni all'agricoltura. Ci sono poi situazioni riconducibili alle azioni umane che possono incidere sulla vita di nazioni, o di estese aree geografiche, o del mondo intero: crisi economiche, guerre, guerriglie, atti terroristici di tipo tradizionale o a mezzo di strumenti informatici, rivolgimenti politici accompagnati da sommosse, sanzioni che penalizzano direttamente i Paesi colpiti e quelli che hanno relazioni economiche con essi, ecc.
Alcuni settori sono particolarmente sensibili a eventi di tale natura. Su di essi, le ripercussioni sono immediate e di ampia portata. Il più evidente è quello del turismo. Lo vediamo oggi, ma già qualche anno fa la Tunisia, a seguito di alcuni attentati (fatto di portata limitata se confrontato con la situazione odierna), ha visto crollare a zero il settore turistico, che rappresentava un punto di forza nell’economia del Paese e la principale fonte di valuta estera. Le crisi, inoltre, sempre incidono maggiormente sulle produzioni di beni e servizi non essenziali riguardanti la moda, i beni di lusso, vini e prodotti alimentari pregiati. L'Italia fa molto affidamento sul turismo e su tali settori, esponendosi a rischi elevati.
Guardando al prossimo futuro, dobbiamo anche prendere in considerazione l'incidenza che, su un'economia fortemente interconnessa, potranno avere le necessarie trasformazioni imposte dalla lotta al cambiamento climatico. Ad esempio, il mezzo aereo è fonte di rilevanti emissioni di CO2: un aereo, in un percorso di lunghezza media, produce per passeggero una quantità di CO2 pari a quanto emesso per riscaldare e/o climatizzare un alloggio per un intero anno. Il suo uso per i viaggi delle persone e il trasporto di prodotti diventa giustificabile solo in casi di assoluto rilievo. Fra questi, non sembrano rientrare i viaggi turistici, la movimentazione di prodotti alimentari (anche di pregio), e il trasporto di manufatti industriali e dei relativi componenti se non di valore aggiunto molto elevato. Tutto ciò rende ancora più difficili le prospettive di quei settori sopra citati, già maggiormente esposti alle conseguenze di imprevisti eventi negativi.
Andrea Malaguti (“La Stampa” 5/3/2020) ha scritto che “il Covid-19 ci obbliga a rallentare, costringendoci a chiederci se il prezzo che abbiamo pagato alla globalizzazione e alle divinità dei mercati non sia stato inutilmente alto”.
Forse è venuto il momento di ripensare il modello di economia globalizzata vigente.
A doverci preoccupare, non è solo la totale dipendenza dalla Cina per il materiale sanitario e molteplici altri beni, come scrivono molti commentatori. C'è altro che dovrebbe preoccuparci ancor più. L'Italia (e con lei vari Paesi europei) è in grado di coprire con i propri raccolti poco più della metà del fabbisogno nazionale di cerali e meno della metà del fabbisogno di semi oleosi, derrate da cui (direttamente o indirettamente) dipende la produzione di quanto mettiamo nel piatto in tavola (pane, pasta, riso, carne, latte, uova e derivati). Di contro, ci dicono che la Terra sarà in grado di sfamare 10 miliardi di esseri umani, e quindi non ci sono, né ci saranno, da temere crisi alimentari. Attenzione perché fare previsioni “a freddo”, riferite a un mondo immaginato stabile, è un conto; altra cosa è quanto potrebbe accadere con il sovrapporsi di più emergenze critiche. Essere autonomi almeno per quanto è vitale sarebbe più che ragionevole, così come lo è smettere di cementificare il suolo e i terreni agricoli in particolare. Dovremmo, inoltre, preoccuparci anche della nostra dipendenza energetica dalle fonti fossili, in gran parte importate, quando è necessario rendercene autonomi puntando tutto sulle energie rinnovabili.
Gli Stati Uniti (che hanno una chiara consapevolezza di quanto serve al Paese nei periodi difficili, come potrebbe essere una guerra) si garantiscono la piena autosufficienza nei settori vitali. Da sempre, sostengono e proteggono la propria agricoltura ritenendo strategica la produzione di alimenti. Altrettanto si sono resi indipendenti dalle importazioni di petrolio e gas, anche con ricorso al shale-oil e al shale-gas, peraltro di negativo impatto ambientale.
Nel corso di questa pandemia, abbiamo visto che cosa comporti aver rinunciato a produrre in patria mascherine, caschi, altri dispositivi di protezione sanitaria e farmaci (perfino la tachipirina è prodotta in Cina). Evitiamo che ciò possa accadere domani per altri beni indispensabili e in particolare per gli alimenti e l'energia.
Dipendere dalla Cina è pericoloso (viene detto), ma lo è altrettanto la dipendenza dagli altri Paesi (compresi quelli occidentali). Le situazioni di emergenza portano inevitabilmente a corse all'accaparramento, a divieti di esportazione dei beni e delle risorse di cui si verificano o si temono carenze. Lo abbiamo constatato in questi giorni in cui sono stati perfino commessi veri atti di pirateria per impadronirsi di mascherine e respiratori anche da parte di paesi “amici”.
Mario Deaglio, alcuni anni fa (2003), evidenziando i limiti, non previsti, ma già evidenti, della globalizzazione (guasti ambientali, aumento dei divari tra aree geografiche e all'interno dei singoli Paesi, aumento della povertà in Europa e USA) aveva prospettato la necessità di dare vita a un differente modello di relazioni economiche, a un “arcipelago” caratterizzato dall'integrazione commerciale tra Paesi geograficamente prossimi e legati da vincoli storico-culturali, lasciando a livello globale i mercati delle materie prime, una parte della finanza, nonché le reti (trasporti, comunicazioni, internet). Ho sentito dire da esperti di economia che ormai la globalizzazione ha fatto, da allora, grandi passi in avanti, e quel modello auspicato da Deaglio è diventato improponibile. Ma gli esperti in materia non hanno previsto quanto sta accadendo in questi giorni, e probabilmente sottovalutano i possibili nuovi cigni neri di natura non economica, o finanziaria, che possono comparire all'orizzonte in un mondo in cui crescono criticità di varia natura.
Credo che la presente crisi ci debba ammaestrare. Nei momenti di difficoltà, c'è la necessità di rafforzare il tessuto sociale e democratico, una esigenza che dovrebbe spingerci a spostare il baricentro dell'attività economica verso la dimensione locale. Gli enti territoriali, vicini alle gente, e le comunità costruite intorno ad essi sono i luoghi più idonei per generare una rete di relazioni solidali. Una tale rete è indispensabile per fare fronte alla minore disponibilità di risorse che ci attende e ai guasti di sempre possibili eventi imprevedibili.
Non si tratta di un ritorno a chiusure autarchiche, quanto piuttosto di mettere in pratica la sussidiarietà, non solo in ambito politico-amministrativo, ma anche in campo economico-produttivo e direi nell'organizzare la vita di ogni comunità.
Negli ultimi tempi si è andato espandendo il pensiero che la sussidiarietà sia il rimedio al mal funzionamento di (quasi tutti) i fenomeni economici e sociali.
Come in gran parte delle situazioni, bisogna però andare cauti: la sussidiarietà dev’essere inserita in uno schema organizzativo che impedisca che essa diventi l’ostacolo all’operatività della solidarietà.
L’Unione Europea ha sposato apertamente il principio della sussidiarietà nei campi dell’istruzione, delle politiche sociali, delle politiche fiscali, delle politiche industriali in senso lato… e quindi si è dotata di un bilancio comunitario striminzito (perché così hanno chiesto i singoli stati): la dimensione di quest’ultimo è circa il 3 per cento del complesso dei bilanci dei 27 stati membri (mentre il bilancio federale degli Stati Uniti ha una dimensione di circa il 50 per cento dei bilanci dei 50 stati membri).
Ma quale politica di solidarietà fra i paesi membri si potrà attuare, in modo ordinario e, ancor più, in situazioni straordinarie quali l’attuale? Quale capacità d’indebitamento (per esempio, con emissione dei cosiddetti “recovery bond”) potrà mai avere l’UE che ha un bilancio così ridotto, quando il fenomeno che si deve affrontare è di natura globale, è di dimensioni ampie e si vuole (?) evitare che i singoli stati vadano in modo sparso, in un contesto in cui le possibilità d’indebitamento dei singoli stati sono così tanto differenti, per di più da essere minori là ove il bisogno d’intervento è maggiore?
Sussidiarietà e solidarietà sono riferimenti in qualche misura correlati negativamente: al crescere dell’uno si riduce l’altro e viceversa. E’ un fatto comune a molti altri valori: ad esempio libertà e sicurezza, ed ancora libertà ed eguaglianza, oppure libertà e fratellanza. Se li vogliamo tenere insieme occorre definire un punto di equilibrio fra di essi.
Venendo alla relazione tra sussidiarietà e solidarietà, bisognerebbe riconoscere che in essa è insito un elemento che pone dei limiti alla dimensione sostenibile della solidarietà. In materia, Giacomo Leopardi ha scritto che ”quanto più l’amor di corpo guadagna in estensione, tanto perde in intensità ed efficacia”.
Secondo Zygmunt Bauman, nelle comunità, l’aiuto reciproco è un dovere, così come è un diritto ricevere l’aiuto richiesto. Oggi, delle comunità del passato resta poco, ma i legami ed i doveri di cui parla il sociologo caratterizzano ancora le famiglie, anche al di là di quella nucleare, e in qualche misura gruppi e comunità (sempre di limitata dimensione) tenuti insieme da un forte sentimento religioso, o da forti legami culturali, e talora da semplice amicizia o da esperienze di vita condivise.
E’ inevitabile che il livello di impegno solidale sia massimo nei confronti di chi fa parte della propria comunità (in particolare familiare), e sia ancora elevato in realtà tenute insieme da una lingua, una cultura e modi vita comuni, mentre vada riducendosi man mano che si proceda verso una dimensione più ampia, più lontana e meno definita.
Ha ragione l’amico Daniele Ciravegna riguardo all’Europa. Ma qui debbo ribadire quanto ho già detto più volte. Se l’Europa vuole diventare la nostra casa comune, deve esprimere una coscienza di sé, ritrovare la consapevolezza di possedere una cultura condivisa e dotarsi di legami non solo utilitaristici o di natura giuridica. Non può esserci alcun sentimento di appartenenza a qualche cosa di indefinito come l’attuale Ue, e senza questo sentimento non può sussistere una vera solidarietà.
D’accordo, ma se sussidiarietà e solidarietà sono correlate in modo negativo, quale delle due deve prevalere?
D’altra parte, la bontà della scelta politica si evidenzia quando due o tre obiettivi sono correlati negativamente; altrimenti sarebbe troppo facile governare…
Personalmente penso che la solidarietà debba prevalere sulla sussidiarietà: se obiettivo finale della politica è la realizzazione della dignità delle persone, la prima ha prevalenza sulla seconda e la seconda deve operare all’interno di una comunità in cui viva in modo rilevante la solidarietà.
Come già scritto nel mio precedente commento, una federazione che dedichi al bilancio federale (nel quale si hanno risorse per azioni di tipo solidale) il 3 per cento delle risorse pubbliche aggregate degli stati federati può organizzarsi sì in modo da lasciare spazio alla sussidiarietà, ma non sarà in grado di mettere in atto azioni di solidarietà! E questo è il caso dell’UE attuale.