Monsignor Giovanni Barbareschi, deceduto nel 2018 a 96 anni, medaglia d'argento della Resistenza, medaglia d'Oro del premio Isimbardi, salvò centinaia di polacchi facendo loro passare il confine svizzero. Partigiano nelle Brigate Verdi fu fatto prigioniero dai nazifascisti ma non tradì i suoi compagni, convinto che “il primo atto di fede che dobbiamo compiere non è in Dio ma nell'uomo". Una toccante testimonianza del contributo dato dai religiosi alla lotta di Liberazione.
In un recente saggio il professor Agostino Giovagnoli considera il contributo che Chiesa e clero offrirono fattivamente alla lotta di Liberazione dal nazifascismo, citando uomini, contesti e azioni che per lungo tempo sono stati ascritti dalla storiografia a quella “zona grigia” dell’attendismo, come l’aveva definita Renzo De Felice, quando invece larga parte del mondo cattolico esprimeva una accesa ribellione morale, un’opposizione alla violenza fascista e nazista “fondate sulla fede e sulla sensibilità cristiana, prima ancora che su ragioni ideologiche e politiche”.
Ho avuto modo di interessarmi a quel periodo della nostra Storia, raccogliendo la testimonianza di un sacerdote che partecipò attivamente alla lotta partigiana: mi riferisco a Don Giovanni Barbareschi (scomparso a Milano il 4 ottobre 2018), Giusto fra le Nazioni, medaglia d’argento della Resistenza e medaglia d’oro del Premio Isimbardi, in tempi di pace Giudice del Tribunale Ecclesiastico regionale, insegnante nelle scuole superiori, amico intimo di don Gnocchi, il prete dei mutilatini e del cardinal Martini.
L’incontro con don Barbareschi mi consentì di conoscere un personaggio davvero straordinario e di realizzare con lui una lunga intervista pubblicata tra l’altro dalla rivista “Patria” dell’ANPI che fu successivamente oggetto di ulteriori approfondimenti con il presidente nazionale Raimondo Ricci. La testimonianza di don Barbareschi conserva una sorprendente attualità: “Educato in una famiglia antifascista era logico che io mi mettessi dalla parte della Resistenza e mi schierassi al fianco di coloro che si opponevano a una mentalità, a un modo di fare, alla Repubblica di Salò, al regime fascista. In tanti abbiamo detto di no e il nostro no era convinto. Vorrei però mettere in evidenza che la forza più grande della Resistenza non è stata quella armata, bensì quella di tutte le persone che si opponevano con un gesto, con una mentalità, con un rifiuto: la vera Resistenza fu una resistenza morale e ad essa noi preti abbiamo dato una testimonianza autentica”.
Da Madesimo, giovane diacono, poi membro dell’Opera soccorso cattolico, si adoperò per mettere in salvo in Svizzera oltre 2000 prigionieri alleati, antifascisti ed ebrei (mi mostrò il diploma che da Israele gli avevano donato in segno di gratitudine). Catturato dalle SS fu incarcerato a San Vittore e sottoposto a un durissimo interrogatorio dal quale uscì con un braccio spezzato: ma senza proferir parola che tradisse gli amici. E ci ha lasciato tanti pensieri su quell'esperienza che merita rileggere senza altre aggiunte.
“La cosa più bella della Resistenza fu la nostra solidarietà: gli uni con gli altri. Non importava se eri comunista, prete, socialista o liberale: eravamo persone che resistevano e questo ci rendeva uniti. È esattamente ciò che manca all’uomo di oggi: mancano idee forti che ci uniscano, idee fondamentali, essenziali. Che senso ha oggi la parola onore, che senso ha la lealtà, la fedeltà, l’espressione 'io sto con te'. Tutto è comprabile, tutto è vendibile, tutto è cedibile. E si trovano sempre le motivazioni per giustificare quelli che una volta chiamavamo tradimenti”.
“Il primo atto di fede che l’uomo deve compiere – e ve lo dice un prete – non è in Dio: il primo atto di fede che l’uomo deve compiere è nella sua libertà, nella sua capacità di essere e di diventare sempre di più una persona libera. Perché la fede e la libertà dell’uomo non si dimostrano: si credono, come un mistero. Ma è capace ancora l’uomo di oggi di giocare la vita su un mistero? Penso di no, penso che l’uomo di oggi non cerchi più la verità ma l’evidenza, che non sarà mai la verità ma una ‘piccola’ verità. E quando parlo di verità come mistero intendo quella di un’amicizia, di un amore, di una fedeltà, di una meta raggiunta”.
“Certamente l’immagine che traggo dalla Resistenza è assolutamente positiva per la generosità, il rischio di allora: oggi non si rischia più niente, tutto è pesato, quantificato, previsto, programmato.
Manca il senso di gratuità e generosità di un gesto, di un’idea, di un’azione. Quando un uomo non rischia non è uomo: due sono le condizioni che qualificano un uomo, la capacità di ‘rischio’ e la capacità di ‘sogno’. Oggi non si rischia più e non si sogna più. Ti fanno vedere il risultato che ottieni e ti muovi davanti alla certezza di quel risultato. Ma un uomo che non sogna non è un uomo: sognare e rischiare sono ciò che lo rendono tale”.
“Vorrei parlare ai giovani: vi parla un prete. Non meravigliatevi se vi dico che non mi interessa molto diventare un santo, mi interessa diventare un uomo libero. Se le due parole coincidono allora mi va bene ma la parola 'santo' la trovo troppo ecclesiasticamente qualificata. Preferisco la parola umana: voglio diventare un uomo libero. Libero davanti alla tradizione, davanti all’educazione che ho avuto, davanti all’abitudine di un agire comune, davanti a una mentalità.
“Perché il pericolo che torni il fascismo c’è sempre: fascismo non è solo una camicia nera o un’adunata, fascismo è una mentalità: il superiore ha sempre ragione, tu non rifletti con la tua testa ma segui lui, ti immedesimi in lui. Vorrei allora dire ai giovani: cercate sempre di essere persone libere, interrogatevi sugli atti d’amore con gli altri. Se non c’è amore ogni atto è condizionato: dall’interesse, dal guadagno, dall’utilità, dall’abitudine.
Ecco perché l’esame di coscienza alla sera non va fatto sui peccati. Quell’esame di coscienza deve interrogarti sugli atti di libertà e di amore che hai realizzato”.
In un recente saggio il professor Agostino Giovagnoli considera il contributo che Chiesa e clero offrirono fattivamente alla lotta di Liberazione dal nazifascismo, citando uomini, contesti e azioni che per lungo tempo sono stati ascritti dalla storiografia a quella “zona grigia” dell’attendismo, come l’aveva definita Renzo De Felice, quando invece larga parte del mondo cattolico esprimeva una accesa ribellione morale, un’opposizione alla violenza fascista e nazista “fondate sulla fede e sulla sensibilità cristiana, prima ancora che su ragioni ideologiche e politiche”.
Ho avuto modo di interessarmi a quel periodo della nostra Storia, raccogliendo la testimonianza di un sacerdote che partecipò attivamente alla lotta partigiana: mi riferisco a Don Giovanni Barbareschi (scomparso a Milano il 4 ottobre 2018), Giusto fra le Nazioni, medaglia d’argento della Resistenza e medaglia d’oro del Premio Isimbardi, in tempi di pace Giudice del Tribunale Ecclesiastico regionale, insegnante nelle scuole superiori, amico intimo di don Gnocchi, il prete dei mutilatini e del cardinal Martini.
L’incontro con don Barbareschi mi consentì di conoscere un personaggio davvero straordinario e di realizzare con lui una lunga intervista pubblicata tra l’altro dalla rivista “Patria” dell’ANPI che fu successivamente oggetto di ulteriori approfondimenti con il presidente nazionale Raimondo Ricci. La testimonianza di don Barbareschi conserva una sorprendente attualità: “Educato in una famiglia antifascista era logico che io mi mettessi dalla parte della Resistenza e mi schierassi al fianco di coloro che si opponevano a una mentalità, a un modo di fare, alla Repubblica di Salò, al regime fascista. In tanti abbiamo detto di no e il nostro no era convinto. Vorrei però mettere in evidenza che la forza più grande della Resistenza non è stata quella armata, bensì quella di tutte le persone che si opponevano con un gesto, con una mentalità, con un rifiuto: la vera Resistenza fu una resistenza morale e ad essa noi preti abbiamo dato una testimonianza autentica”.
Da Madesimo, giovane diacono, poi membro dell’Opera soccorso cattolico, si adoperò per mettere in salvo in Svizzera oltre 2000 prigionieri alleati, antifascisti ed ebrei (mi mostrò il diploma che da Israele gli avevano donato in segno di gratitudine). Catturato dalle SS fu incarcerato a San Vittore e sottoposto a un durissimo interrogatorio dal quale uscì con un braccio spezzato: ma senza proferir parola che tradisse gli amici. E ci ha lasciato tanti pensieri su quell'esperienza che merita rileggere senza altre aggiunte.
“La cosa più bella della Resistenza fu la nostra solidarietà: gli uni con gli altri. Non importava se eri comunista, prete, socialista o liberale: eravamo persone che resistevano e questo ci rendeva uniti. È esattamente ciò che manca all’uomo di oggi: mancano idee forti che ci uniscano, idee fondamentali, essenziali. Che senso ha oggi la parola onore, che senso ha la lealtà, la fedeltà, l’espressione 'io sto con te'. Tutto è comprabile, tutto è vendibile, tutto è cedibile. E si trovano sempre le motivazioni per giustificare quelli che una volta chiamavamo tradimenti”.
“Il primo atto di fede che l’uomo deve compiere – e ve lo dice un prete – non è in Dio: il primo atto di fede che l’uomo deve compiere è nella sua libertà, nella sua capacità di essere e di diventare sempre di più una persona libera. Perché la fede e la libertà dell’uomo non si dimostrano: si credono, come un mistero. Ma è capace ancora l’uomo di oggi di giocare la vita su un mistero? Penso di no, penso che l’uomo di oggi non cerchi più la verità ma l’evidenza, che non sarà mai la verità ma una ‘piccola’ verità. E quando parlo di verità come mistero intendo quella di un’amicizia, di un amore, di una fedeltà, di una meta raggiunta”.
“Certamente l’immagine che traggo dalla Resistenza è assolutamente positiva per la generosità, il rischio di allora: oggi non si rischia più niente, tutto è pesato, quantificato, previsto, programmato.
Manca il senso di gratuità e generosità di un gesto, di un’idea, di un’azione. Quando un uomo non rischia non è uomo: due sono le condizioni che qualificano un uomo, la capacità di ‘rischio’ e la capacità di ‘sogno’. Oggi non si rischia più e non si sogna più. Ti fanno vedere il risultato che ottieni e ti muovi davanti alla certezza di quel risultato. Ma un uomo che non sogna non è un uomo: sognare e rischiare sono ciò che lo rendono tale”.
“Vorrei parlare ai giovani: vi parla un prete. Non meravigliatevi se vi dico che non mi interessa molto diventare un santo, mi interessa diventare un uomo libero. Se le due parole coincidono allora mi va bene ma la parola 'santo' la trovo troppo ecclesiasticamente qualificata. Preferisco la parola umana: voglio diventare un uomo libero. Libero davanti alla tradizione, davanti all’educazione che ho avuto, davanti all’abitudine di un agire comune, davanti a una mentalità.
“Perché il pericolo che torni il fascismo c’è sempre: fascismo non è solo una camicia nera o un’adunata, fascismo è una mentalità: il superiore ha sempre ragione, tu non rifletti con la tua testa ma segui lui, ti immedesimi in lui. Vorrei allora dire ai giovani: cercate sempre di essere persone libere, interrogatevi sugli atti d’amore con gli altri. Se non c’è amore ogni atto è condizionato: dall’interesse, dal guadagno, dall’utilità, dall’abitudine.
Ecco perché l’esame di coscienza alla sera non va fatto sui peccati. Quell’esame di coscienza deve interrogarti sugli atti di libertà e di amore che hai realizzato”.
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