Politici, giornalisti e pensatori nostrani attaccano i Paesi Bassi e la Germania perché non accettano di finanziare i coronabond, ma chiamano questi due Paesi “Europa” e gli italiani si confondono. L’Unione europea “sporca brutta e cattiva” è il capro espiatorio perfetto in questa emergenza del coronavirus dove i bollettini giornalieri, l’inflazione di notizie e l’incerto rapporto tra causa ed effetto fanno dimenticare in fretta i provvedimenti presi. Eppure a guardar bene i due aiuti più concreti per l’Italia sono arrivati dalle istituzioni europee. Prima la Commissione UE ha sospeso il Patto di Stabilità, poi la Banca centrale europea ha approvato il Pandemic Emergency Purchase Programme (PEPP), un piano di acquisto di titoli di Stato da 750 miliardi di euro, (e infine il SURE da 100 miliardi contro la disoccupazione, ndR). A ben guardare il vero stallo è dovuto alle scelte dei partiti di governo di alcuni stati nazionali e non dall’istituzione europea in sé. A ricordarlo è un documento prodotto dall’eurocommissione che si fa i complimenti da sola, visto che nell’agone vengono rinfacciate le mancanze, che ci sono, senza però ricordare i meriti. Lo stesso ha fatto il portavoce del Parlamento europeo, lo spagnolo Jaume Duch con un video in italiano.
Dall’inizio dell’epidemia, il meccanismo di protezione civile dell’UE ha cofinanziato per il 75% i 25 voli di rimpatrio che hanno portato 4.020 cittadini dell’Unione europea a casa. Il 30% dei passeggeri rimpatriati erano dei cittadini che avevano una nazionalità diversa dal Paese che ha organizzato il ritorno a casa. Tradotto: la solidarietà tra Paesi c’è stata grazie al coordinamento europeo. Non hanno fatto tanto notizia i 47,5 milioni di euro che la Commissione europea ha aiutato a raccogliere tra finanziamenti pubblici e privati per sostenere 17 progetti di ricerca sui vaccini anti coronavirus, svolti da 136 gruppi di ricerca in tutta Europa. A cui si aggiungono i 90 milioni di euro per l’iniziativa di innovazione medica (Imi) con l’industria farmaceutica. Non solo, l’Unione europea ha messo a disposizione 164 milioni di euro per Start-Up e imprese tecnologiche per realizzare progetti innovativi in risposta alla pandemia.
La Commissione ha offerto anche un prestito di 80 milioni di euro a CureVac, la società biofarmaceutica tedesca con sede a Tubinga che sviluppa terapie basate sull’RNA messaggero. Un’azione rilevante visto che l’amministrazione Trump aveva offerto all’azienda di trasferire la ricerca del vaccino anti coronavirus negli Stati Uniti per far avere agli americani l’accesso esclusivo agli eventuali risultati. Un atto di sovranismo europeo.
Non tutti sanno che gli Stati decidono in autonomia sulla sanità perché in questi decenni hanno scelto di non cedere sovranità all’Unione su questo fronte. I trattati europei permettono poco a Bruxelles, al massimo di sostenere, coordinare o completare l’azione dei Paesi membri. Ed è quello che sta facendo la commissaria Ue per la Salute Stella Kyriakides che ogni giorno in videoconferenza, fa il punto della situazione coi 27 ministri nazionali della Salute e degli Interni. Non sono banali chiacchierate, ma importanti incontri per decidere gli appalti congiunti per le forniture urgenti, per esempio. Come ha ricordato la commissaria in un’intervista a Repubblica le «decisioni di un governo impattano sui partner».
I limiti del coordinamento non hanno impedito all’Agenzia europea per la prevenzione e il controllo delle malattie (ECDC) con sede a Stoccolma, di fornire alle autorità nazionali linee guida, dati, analisi del rischio e raccomandazioni riguardo all’emergenza coronavirus. Fin da gennaio i dipendenti dell’agenzia hanno collaborato con le autorità italiane elaborando delle linee guida essenziali per gli ospedali italiani. La Commissione UE ha formato una task force di esperti composto da epidemiologi e virologi provenienti da diversi Stati membri, tra cui anche l’Italia per tracciare linee guida per tutti i 27 Paesi dell’UE e delineare misure di gestione del rischio basate su dati scientifici. Di questa squadra fa parte Maria Rosaria Capobianchi, direttrice del Laboratorio di Virologia dell’Istituto nazionale malattie infettive Lazzaro Spallanzani di Roma.
Un lavoro decisivo è stato quello del team del commissario europeo al mercato unico Thierry Breton che fin dal primo giorno ha lavorato per individuare le capacità di produzione in relazione ai bisogni di ciascuno dei 27 Paesi. Facile a dirsi, Faticosissimo a farsi. Una volta compreso che la produzione interna di materiale non sarebbe bastata, la Commissione ha preso contatti con la Cina per l’invio di materiale in Europa e creato una rete di contatti con industrie tessili e imprese del settore del Continente per creare una filiera europea per la produzione di mascherine e ventilatori. Non un’impresa semplice visto che i macchinari, le materie prime e il personale con il know how per creare il materiale sanitario non si trovano nello stesso Paese.
Non prenderà le prime pagine dei giornali ma si è rivelato prezioso il lavoro del commissario Breton per far circolare i prodotti sanitari che non seguono gli standard europei ma che proteggono in modo equivalente il personale sanitario e i comuni cittadini dall’infezione senza metterne a rischio la salute. Superando la burocrazia, la Commissione non ne ha impedito l’acquisto e da due settimane ha adottato delle linee guida per i 27 Stati su come mettere in pratica questo principio base.
Poi c’è stato il lavoro più pesante: togliere i divieti di esportazione del materiale sanitario imposti dai vari Stati nazionali. Se Francia e Germania a metà marzo hanno sbloccato le esportazioni di mascherine verso l’Italia, nel momento più critico, è stato grazie alla pressione continua del commissario Breton che ha lavorato di concerto con il ministero dello Sviluppo economico italiano. La Francia voleva combattere la speculazione e riservare le mascherine al suo personale medico, ai ricercatori nei laboratori e ai malati. La Germania, invece, pur non vietando l’esportazione non aveva impedito ai propri cittadini di comprarle per costituire delle riserve. Grazie all’intervento della Commissione i due Paesi non hanno impedito l’export. A ruota, grazie a Bruxelles, anche Repubblica ceca, Slovacchia e Bulgaria hanno eliminato i divieti verso l’Italia. L’unica rimane la Polonia che forse insiste per ragioni elettorali.
Non saranno i duemila miliardi approvati dal Congresso USA, ma il Parlamento europeo ha approvato un piano da oltre 37 miliardi di euro per finanziare i sistemi sanitari, le piccole e medie imprese e le parti più vulnerabili delle economie europee colpite dal coronavirus. A questi si aggiungono i 40 miliardi di euro che la Banca europea degli investimenti mobiliterà per le piccole e medie imprese tra prestiti ponte e sospensione di rimborsi di credito.
Si è parlato poco di “rescEU”, una piattaforma creata dalla Commissione Ue nel 2019 che da inizio aprile si occuperà di creare la prima riserva comune europea di attrezzature mediche di emergenza destinate alla terapia intensiva. Bruxelles ha stanziato 50 milioni per l’acquisto di ventilatori, dispositivi di protezione individuale come le mascherine riutilizzabili, eventuali vaccini e sostanze terapeutiche. Ma c’è un problema. La Commissione finanzierà il 100% della scorta, che sarà immagazzinata in uno o più Stati membri. Ma saranno gli Stati ospitanti gli unici responsabili dell’acquisto delle attrezzature e il rischio è che le tensioni nazionali e le rivalità su chi debba occuparsene portino a uno stallo e una mancanza di solidarietà.
Sarà facile a quel punto incolpare la Commissione che ci metterà solo, si fa per dire, i finanziamenti e con il Centro di coordinamento della risposta alle emergenze gestirà la distribuzione delle attrezzature per garantire che siano inviate rapidamente dove sono più necessarie. Il 27 marzo la Commissione ha proposto di destinare altri 30 milioni di euro alla prima scorta rescEU. Il bilancio totale salirebbe a 80 milioni di euro, ma bisognerà velocizzare le operazioni perché neanche i primi 40 milioni sono stati ancora mobilitati. Lì sì che bisognerà criticare Bruxelles se la risposta non sarà veloce. In attesa di sapere cosa faranno gli Stati nazionali con i coronabond.
(Tratto da www.linkiesta.it)
Dall’inizio dell’epidemia, il meccanismo di protezione civile dell’UE ha cofinanziato per il 75% i 25 voli di rimpatrio che hanno portato 4.020 cittadini dell’Unione europea a casa. Il 30% dei passeggeri rimpatriati erano dei cittadini che avevano una nazionalità diversa dal Paese che ha organizzato il ritorno a casa. Tradotto: la solidarietà tra Paesi c’è stata grazie al coordinamento europeo. Non hanno fatto tanto notizia i 47,5 milioni di euro che la Commissione europea ha aiutato a raccogliere tra finanziamenti pubblici e privati per sostenere 17 progetti di ricerca sui vaccini anti coronavirus, svolti da 136 gruppi di ricerca in tutta Europa. A cui si aggiungono i 90 milioni di euro per l’iniziativa di innovazione medica (Imi) con l’industria farmaceutica. Non solo, l’Unione europea ha messo a disposizione 164 milioni di euro per Start-Up e imprese tecnologiche per realizzare progetti innovativi in risposta alla pandemia.
La Commissione ha offerto anche un prestito di 80 milioni di euro a CureVac, la società biofarmaceutica tedesca con sede a Tubinga che sviluppa terapie basate sull’RNA messaggero. Un’azione rilevante visto che l’amministrazione Trump aveva offerto all’azienda di trasferire la ricerca del vaccino anti coronavirus negli Stati Uniti per far avere agli americani l’accesso esclusivo agli eventuali risultati. Un atto di sovranismo europeo.
Non tutti sanno che gli Stati decidono in autonomia sulla sanità perché in questi decenni hanno scelto di non cedere sovranità all’Unione su questo fronte. I trattati europei permettono poco a Bruxelles, al massimo di sostenere, coordinare o completare l’azione dei Paesi membri. Ed è quello che sta facendo la commissaria Ue per la Salute Stella Kyriakides che ogni giorno in videoconferenza, fa il punto della situazione coi 27 ministri nazionali della Salute e degli Interni. Non sono banali chiacchierate, ma importanti incontri per decidere gli appalti congiunti per le forniture urgenti, per esempio. Come ha ricordato la commissaria in un’intervista a Repubblica le «decisioni di un governo impattano sui partner».
I limiti del coordinamento non hanno impedito all’Agenzia europea per la prevenzione e il controllo delle malattie (ECDC) con sede a Stoccolma, di fornire alle autorità nazionali linee guida, dati, analisi del rischio e raccomandazioni riguardo all’emergenza coronavirus. Fin da gennaio i dipendenti dell’agenzia hanno collaborato con le autorità italiane elaborando delle linee guida essenziali per gli ospedali italiani. La Commissione UE ha formato una task force di esperti composto da epidemiologi e virologi provenienti da diversi Stati membri, tra cui anche l’Italia per tracciare linee guida per tutti i 27 Paesi dell’UE e delineare misure di gestione del rischio basate su dati scientifici. Di questa squadra fa parte Maria Rosaria Capobianchi, direttrice del Laboratorio di Virologia dell’Istituto nazionale malattie infettive Lazzaro Spallanzani di Roma.
Un lavoro decisivo è stato quello del team del commissario europeo al mercato unico Thierry Breton che fin dal primo giorno ha lavorato per individuare le capacità di produzione in relazione ai bisogni di ciascuno dei 27 Paesi. Facile a dirsi, Faticosissimo a farsi. Una volta compreso che la produzione interna di materiale non sarebbe bastata, la Commissione ha preso contatti con la Cina per l’invio di materiale in Europa e creato una rete di contatti con industrie tessili e imprese del settore del Continente per creare una filiera europea per la produzione di mascherine e ventilatori. Non un’impresa semplice visto che i macchinari, le materie prime e il personale con il know how per creare il materiale sanitario non si trovano nello stesso Paese.
Non prenderà le prime pagine dei giornali ma si è rivelato prezioso il lavoro del commissario Breton per far circolare i prodotti sanitari che non seguono gli standard europei ma che proteggono in modo equivalente il personale sanitario e i comuni cittadini dall’infezione senza metterne a rischio la salute. Superando la burocrazia, la Commissione non ne ha impedito l’acquisto e da due settimane ha adottato delle linee guida per i 27 Stati su come mettere in pratica questo principio base.
Poi c’è stato il lavoro più pesante: togliere i divieti di esportazione del materiale sanitario imposti dai vari Stati nazionali. Se Francia e Germania a metà marzo hanno sbloccato le esportazioni di mascherine verso l’Italia, nel momento più critico, è stato grazie alla pressione continua del commissario Breton che ha lavorato di concerto con il ministero dello Sviluppo economico italiano. La Francia voleva combattere la speculazione e riservare le mascherine al suo personale medico, ai ricercatori nei laboratori e ai malati. La Germania, invece, pur non vietando l’esportazione non aveva impedito ai propri cittadini di comprarle per costituire delle riserve. Grazie all’intervento della Commissione i due Paesi non hanno impedito l’export. A ruota, grazie a Bruxelles, anche Repubblica ceca, Slovacchia e Bulgaria hanno eliminato i divieti verso l’Italia. L’unica rimane la Polonia che forse insiste per ragioni elettorali.
Non saranno i duemila miliardi approvati dal Congresso USA, ma il Parlamento europeo ha approvato un piano da oltre 37 miliardi di euro per finanziare i sistemi sanitari, le piccole e medie imprese e le parti più vulnerabili delle economie europee colpite dal coronavirus. A questi si aggiungono i 40 miliardi di euro che la Banca europea degli investimenti mobiliterà per le piccole e medie imprese tra prestiti ponte e sospensione di rimborsi di credito.
Si è parlato poco di “rescEU”, una piattaforma creata dalla Commissione Ue nel 2019 che da inizio aprile si occuperà di creare la prima riserva comune europea di attrezzature mediche di emergenza destinate alla terapia intensiva. Bruxelles ha stanziato 50 milioni per l’acquisto di ventilatori, dispositivi di protezione individuale come le mascherine riutilizzabili, eventuali vaccini e sostanze terapeutiche. Ma c’è un problema. La Commissione finanzierà il 100% della scorta, che sarà immagazzinata in uno o più Stati membri. Ma saranno gli Stati ospitanti gli unici responsabili dell’acquisto delle attrezzature e il rischio è che le tensioni nazionali e le rivalità su chi debba occuparsene portino a uno stallo e una mancanza di solidarietà.
Sarà facile a quel punto incolpare la Commissione che ci metterà solo, si fa per dire, i finanziamenti e con il Centro di coordinamento della risposta alle emergenze gestirà la distribuzione delle attrezzature per garantire che siano inviate rapidamente dove sono più necessarie. Il 27 marzo la Commissione ha proposto di destinare altri 30 milioni di euro alla prima scorta rescEU. Il bilancio totale salirebbe a 80 milioni di euro, ma bisognerà velocizzare le operazioni perché neanche i primi 40 milioni sono stati ancora mobilitati. Lì sì che bisognerà criticare Bruxelles se la risposta non sarà veloce. In attesa di sapere cosa faranno gli Stati nazionali con i coronabond.
(Tratto da www.linkiesta.it)
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