La partita europea tra ideologia e geopolitica



Enrico Seta    1 Aprile 2020       7

L’Unione europea, sorta originariamente come area commerciale comune, è oggi un edificio sostanzialmente diplomatico con alcune leve finanziarie e una unione monetaria mal concepita. Ciò non toglie che sia proprio in questa arena che si giocano oggi – nel pieno dell’epidemia – i destini del nostro Paese: del benessere di milioni di famiglie, dell’Italia produttiva, forse della nostra democrazia.

Non è difficile identificare e denunciare i difetti dell’UE: esiste ormai una letteratura specialistica ampiamente consolidata (fra i tanti, Mundell e Stiglitz) sulle asimmetrie e gli squilibri dell’Unione e soprattutto dell’Eurozona.

Ad esempio, vi è una evidente fragilità dell’area economica euro di fronte a situazioni di crisi economico-finanziaria, già ampiamente dimostrata a seguito degli eventi del 2007-2009. Ne segnalo uno che – dal nostro osservatorio nazionale – è particolarmente nevralgico: il debito pubblico rispetto al PIL dei singoli Paesi è molto differenziato. Probabilmente andava equiparato prima di dare avvio all’unione monetaria. Si pensò invece di introdurre solo un “obiettivo di convergenza del parametro debito-PIL” (60%) nell’aspettativa che la complessiva convergenza fra le economie – auspicata e attesa fiduciosamente come conseguenza dell’introduzione dell’euro – spingesse verso la convergenza anche dei vari debiti pubblici.

Ma non è andata così. I divari fra le economie non sono andati riducendosi, ma al contrario: i Paesi con debito pubblico maggiore devono ricorrere a politiche sempre più restrittive, sotto la minaccia di manovre speculative ai loro danni (innalzamento dello spread). E nonostante questo non riescono a ridurre il loro debito perché l’economia è depressa. Ma questa difficoltà è accentuata dal fatto che il diverso costo del denaro nei vari Paesi membri accresce ancora di più le divergenze fra le economie reali poiché danneggia le imprese dei Paesi a più alto debito rendendole meno competitive: è un ciclo economico-finanziario ben noto agli economisti come ciclo di Frenkel. Il suo effetto prociclico in caso di crisi di liquidità, come quella innestata nel 2007, è micidiale. Noi ne siamo usciti a pezzi, e non per nostri demeriti.

È ovvio che – dal nostro punto di vista di Paese indebitato – le cose non potranno che peggiorare con tutto quello che si profila e non hanno tutti i torti coloro che dicono che questo trend (unito ai vincoli del patto di stabilità) rende il percorso di risanamento del debito italiano ormai per noi impossibile.

Ma – a monte – c’è una più grande fragilità della costruzione europea: una moneta unica senza strumenti efficaci di politica fiscale comune. Cioè, non c’è nessuno strumento per correggere queste distorsioni. Perché? Lo vedremo fra poco.

Prima però soffermiamoci sulla divaricazione che – con questi assetti – si sta producendo in area euro fra i livelli di benessere. Consiglio, in proposito, di prendere visione di uno studio abbastanza significativo della Banca d’Italia che ha analizzato i dati considerando l’area euro e la UE a 27 come se fossero uno stato unitario composto da differenti regioni: The distribution of European well-being among Europeans (di A. Brandolini e A. Rosolia, aprile 2019).

Da questo studio (ma suppongo ce ne siano molti altri) risulta evidente come sia l’introduzione dell’euro (2002), sia la crisi finanziaria del 2007-2009 abbiano avuto come effetto un innalzamento delle diseguaglianze fra aree geografiche[1]. Oggi il divario è enorme e non solo perché noi siamo stati spendaccioni, ma anche perché questa Europa conviene (e molto) alla Germania che oggi può pensare anche di superare brillantemente la crisi del coronavirus, grazie ai surplus accumulati e di varare un piano poderoso di stimolo fiscale, senza avere nessun bisogno dell’Europa e senza chiedere alcun permesso a nessuno.

Veniamo poi a un altro punto nevralgico della costruzione europea: la sua governance. Questa è sostanzialmente intergovernativa e non comunitaria. Per di più con regole che impongono spesso l’unanimità. Grande è quindi è il potere di veto dei singoli Stati.

In questo momento lo Stato con maggiore forza economica è la Germania: Berlino è poi riuscita a creare una rete di alleanze basata su affinità – non solo economiche – con i Paesi nordici. È a questo soggetto (e non ai “burocrati di Bruxelles”, come dice certa facile propaganda) che vanno riferite tutte le resistenze a procedere verso la costruzione della UE che vorremmo, più efficiente, più credibile, più equa, più solidale.

Ideologia o geopolitica?

Oggi è il governo tedesco che esercita la maggiore resistenza rispetto alle modifiche istituzionali che sarebbero necessarie all’UE per rafforzarla (anche) come area economica.

Perché Berlino ha paura di un diverso assetto?

- non si fida (antropologicamente) dei partner dell’area mediterranea;

- l’attuale assetto le garantisce un’assoluta egemonia economico-produttiva, prima dell’euro impensabile rispetto a concorrenti come l’Italia.

Quindi il conflitto non è fra europeisti e sovranisti. Perché le decisioni importanti non le prende il Parlamento europeo, l’unico organo comunitario nel quale si contrappongono partiti politici (e quindi ideologie) transnazionali (appunto “sovranisti” e europeisti”) e dove – fra l’altro – sono in larga maggioranza gli “europeisti”. Quest’aspetto ideologico è solo fuorviante. In Italia, poi, ha assunto – come vedremo – la fisionomia di uno scontro fra sovranismo e “dottrina del vincolo esterno”. Da mettere al più presto – come vedremo – entrambi in soffitta.

La faglia è invece fra governi, cioè fra Stati (o coalizioni di Stati) e quindi fra economie, mentalità, stili di vita, opinioni pubbliche, storie e memorie. Si tratta quindi di un conflitto geopolitico e non ideologico.

Continuare a invocare (attaccando rabbiosamente o esaltando) il sovranismo[2] alimenta equivoci su questo punto: alimenta un conflitto ideologico (anche interno) di cui hanno bisogno solo politici di mezza tacca (cioè propagandisti) e nasconde, invece, quello vero: quello geopolitico. Un’opinione pubblica informata non può cadere in questo genere di equivoci.

Se il tema è geopolitico, esso va trattato come tale.

C’è un bellissimo articolo – nel numero in edicola di “Limes” – di George Friedman, un analista internazionale (a mio parere) fra i più raffinati oggi: Geopolitica profonda che consiglio vivamente. Esso spiega in poche pagine – meglio di interi volumi – cos’è un approccio geopolitico ai temi internazionali – la sua complessità, la sua vischiosità – e quanto alto il rischio di banalizzazioni (“occorre convincere la Germania”, ecc. ecc.). Le realtà geopolitiche non si “convincono”. E neanche si lasciano vincere dalla pietà per un’epidemia.

Nel confronto fra Europa nordica (sostanzialmente area germanica) e Europa mediterranea entrano in gioco fattori profondi che occorrerebbe conoscere e considerare attentamente per comprendere e misurare le difficoltà della partita europea.

Perché si parla di eurobond da oltre dieci anni – quando furono lanciati da Giulio Tremonti[3] – senza che se ne faccia nulla? Non siamo stati abbastanza bravi a “convincere la Germania”? Non credo.

Il motivo è che gli eurobond – al contrario del MES che è semplicemente una polizza assicurativa (molto salata, ma niente di più)[4] – possono rappresentare il primo pezzo (dipende dalla loro consistenza, dalle garanzie, dalle finalità ecc.) di una politica fiscale comune (cioè indipendente dagli Stati). Questo (e non il MES) è un grande tema geopolitico che muterebbe l’attuale equilibrio. Perché, se fatto sul serio, legherebbe i destini di chi stipula il patto e richiederebbe mutamenti istituzionali.

I Paesi nordici non sono disposti a fare questo passo, quindi preferiscono lasciare la costruzione europea sospesa per i due motivi detti sopra (fra l’altro, alcuni come i Paesi Bassi operano come veri e propri “paradisi fiscali” non fuori ma all’interno dell’UE).

Personalmente (e voglio essere ottimista), ritengo che il motivo principale di questa resistenza sia il primo di quei due motivi indicati sopra: non si fidano (antropologicamente) dei partner mediterranei.

Allora, la vera partita europea non sono né il MES, né l’allentamento del patto di stabilità, né il Quantitative Easing.

Reggeranno questa UE e questo euro al coronavirus?

Sappiamo che i casi sono due. O non se ne farà niente e allora l’Italia sarà abbandonata al proprio destino (con conseguenze rischiosissime per tutto l’edificio; ma non per la Germania) o si riuscirà almeno a innescare questo processo della politica fiscale comune.

La partita sulla politica fiscale comune è tutta geopolitica e quindi è inutile parlarne fra economisti. Infatti, poiché il salto quantico verso una nuova unità politica (un’Europa dotata di uno strumento comune di politica fiscale) è di natura geopolitica, esso richiede un previo chiarimento in merito alle élite di comando. Non c’è comunità politica senza élite di comando.

La Germania oggi avanza sotterraneamente (con qualche fondatezza ma anche con insufficiente realismo) la pretesa di fornire lei – da sola – questa élite. È la condizione che – sottotraccia viene pretesa. Insomma, la Germania non vuole certo rinunciare ai suoi surplus (che le consentiranno oggi di fronteggiare la crisi) in cambio di nulla!

Finché non si scioglieranno questi nodi l’Italia non avrà nulla dalla cosiddetta “Europa”. Nulla di ciò che oggi – con sempre maggiore urgenza – le servirebbe: uno strumento concreto che le consenta di fare anche lei una politica di stimolo e salvarsi dallo spettro della depressione. Il MES non è ciò che ci serve, ma l’esatto contrario.

Ma il tema non riguarda solo noi. Noi insieme a Francia e Spagna dovremmo essere in grado di fare della questione eurobond il tavolo in cui l’Europa mediterranea stringe un nuovo patto con l’Europa nordica per la definizione delle comuni nuove regole del gioco (regole che dovranno riflettere la distribuzione dei pesi delle rispettive rappresentanze nell’élite di comando). Nell’interesse di tutti. Dovremmo essere così bravi da far valere tutto il nostro peso economico, demografico, geografico, culturale e militare (Francia) e – allo stesso tempo – rassicurare la Germania, riconoscere la forza economica e la legittimità di una sua aspirazione a fornire una parte significativa della élite di comando. Dovremmo, in altri termini, ridefinire radicalmente i termini di quell’intesa che garantisce il funzionamento effettivo della costruzione europea dal 1992, quando si puntò sull’unificazione monetaria, lasciando da parte quella militare, diplomatica e fiscale. Ci vogliono statisti (e non economisti) per fare cose del genere. Se Macron ci provasse, chi risponderebbe a Madrid e Roma?

Ce la faremo?

È una partita difficilissima. Se non ce la faremo non vedo altro – per l’Italia – che la troika, cioè il ricorso al MES (magari ammantato di chiacchiere) e quindi la fine greca. Sarebbe l’esasperazione di quei meccanismi restrittivi che hanno impoverito l’Italia dal 2002 ad oggi, facendone un Paese socialmente ed economicamente prostrato.

Credo che questa volta non basterà la patrimoniale né i tagli massicci a stipendi e pensioni, perché gli investitori ci terranno comunque sotto ricatto con lo spread.

Personalmente, non ho molta fiducia che i Paesi nordici accettino oggi di percorrere la strada della trattativa seria. Non credo che la forza della solidarietà possa prevalere sulla combinazione di interessi immediati e deficit di immaginazione politica (che caratterizza tutte le élite politiche in questa fase).

Ma sono certo che, se vogliamo almeno tentare di salvare l’Unione europea, evitando una frattura definitiva tra Stati latini e Stati germanici, l’Italia deve giocare fino in fondo la propria parte.

Ciò significa – in primo luogo – liberarci, nel nostro Paese, dell’accettazione acritica delle tesi di Berlino: su un piano più generale, possiamo affermare che la dottrina del “vincolo esterno”, che è stata la sola ideologia di riferimento delle classi dirigenti italiane della Seconda Repubblica, soprattutto del centrosinistra, si è rivelata del tutto fallimentare, oltre che falsa. Essa non pone con chiarezza il tema e confonde fra responsabilità nostre (e solo nostre) nel non aver fatto le necessarie riforme con le vere cause del blocco del processo di costruzione europea. Infatti:

- anche se avessimo fatto tutte le riforme immaginabili i Paesi nordici avrebbero avuto l’identico interesse a mantenere lo status quo;

- il nostro debito pubblico sta aumentando (senza controllo) non solo perché non siamo abbastanza virtuosi ma anche perché ormai siamo intrappolati in un meccanismo diabolico;

- la geopolitica è realismo e, se non si può pretendere che la Germania smetta di essere la Germania (Benedetto Croce), non si può neanche gettare la croce addosso all’Italia perché continua ad essere l’Italia. Occorre trovare un punto d’incontro.

Non diventiamo più europeisti sposando le tesi di Berlino (facciamo solo autogol), ma definendo e coltivando un nuovo europeismo responsabile, che faccia tesoro degli errori del passato, partendo dalla consapevolezza che fra le altre cose – come ci ricordano (questa volta giustamente) i Paesi nordici, – vada allestita una seria strategia per le riforme e per la diminuzione del debito ma che tale strategia – oggi – non può che avere il medio termine come riferimento.

Per farcela dovremmo in Italia una leadership molto più forte dell’attuale e in Italia, Spagna e Francia uomini all’altezza del compito. Non dirò De Gasperi, Adenauer e Schumann, ma neanche uomini della generazione dell’“uno vale uno”.

Messi così, non credo andremo molto lontano.

 

[1] Si legge a pag. 27 del Report: “the economic turmoil around 2010 pushed inequality up, mainly because of the divergence between the core and the periphery of the EA (Euro Area) […] the EA income inequality has tended to grow as integration has deepened and in particular since the adoption of the common currency”.

[2] Se per “sovranismo” si intende lo slogan “usciamo dall’UE o dall’euro” o il più recente “faremo da soli” (Conte ieri a Bruxelles), beh, queste sono parole a uso tattico alle quali non possono seguire – per ora – fatti concreti (che avrebbero esiti molto peggiori per noi). Il sovranismo, invece, come asse di alleanza internazionale è – per sua natura – impossibile poiché i vari sovranismi si annullano vicendevolmente: una barzelletta.

[3] Vedi questo articolo de “La Voce” (2008) che riporta uno dei primi commenti alla proposta tremontiana degli Eurobond https://www.lavoce.info/archives/24903/lagenda-europeista-del-nuovo-governo/

[4] Come ogni polizza assicurativa è molto importante conoscerne e comprenderne attentamente tutte le clausole.

(Tratto da www.politicainsieme.com)


7 Commenti

  1. Purtroppo temo che quanto dice Enrico Seta non sia minimamente contestabile.
    Le dure leggi della geopolitica e della storia non ci sovvengono affatto per cui sembra che il declino dell’egemonia statunitense ci impone solo di capire chi sarà il nuovo padrone dell’Europa.

  2. Se il nuovo padrone dell’Europa (temporaneo) sarà una nazione europea, non me ne dolgo. E’ la strada che hanno seguito tutte le nazioni nei percorsi di formazione dello stato unitario. Per un certo tempo, il paese protagonista del processo unitario ha assunto un ruolo egemonico lasciando poi spazio a un assetto più partecipato ed ugualitario. In Italia il ruolo egemone del Piemonte sabaudo è durato molto poco.

    • La Germania, a differenza del Regno di Sardegna, non punta all’unità. Ancora in questi giorni Berlino ribadisce la più assoluta contrarietà ad ogni forma di trasferimento fiscale nell’Eurozona e di condivisione del rischio. Più chiaro di così. Il piano tedesco non è cambiato. Temo, purtroppo, abbia ragione Paolo Savona. La Germania, attraverso l’Euro – il modo errato, disfunzionale e asimmetrico con cui è stato costruito – non fa che proseguire, e attuare con i mezzi dell’economia, ciò che il regime nazista non riuscì a fare con la guerra. È la continuazione del Piano Funk, del 1936, del ministro dell’economia, che vedeva la Germania come potenza industriale guida e gli altri Paesi prevalentemente come serbatoio di lavoro, economia agricola e turismo, e prevedeva che le monete europee gravitassero attorno al Marco. Ecco perché su queste basi la Germania non potrà mai essere la potenza unificatrice, bensì quella che l’Europa la disfa. Se questo è vero, i Paesi latini sono le vittime designate. Non devono più commettere l’errore di assecondare la Germania nella sua fobia del debito, con cui sarà impossibile uscire dalla crisi provocata dal coronavirus. L’Italia deve piuttosto attivare subito immissione di liquidità con Banca d’Italia e BCE, almeno entro il programma Pepp, acquisto di titoli straordinario per la pandemia, già varato dall’Istituto centrale di Francoforte. La Germania va messa di fronte al fatto compito della creazione di ingenti quantità di moneta non a debito per fronteggiare questa emergenza. Se si adeguerà, avremo nei fatti l’Europa unita, perché la condivisione del debito unisce, genera solidarietà.
      L’errore più grosso che si potrebbe compiere in questa delicata fase è invece quello di credere nella capacità di guida della Germania. Se le proposte anticrisi sinora in discussione a Bruxelles fossero adottate (tutti prestiti, nessuno stimolo monetario per l’economia reale), esse ci porterebbero nel giro di qualche mese alla stagflazione, recessione e inflazione insieme, uno scenario nero da cui possono nascere rivolte e guerre.

      Del resto la storia è piena di lezioni. Coloro che si sono fidati dei tedeschi sono sempre finiti male. Emblematica è la lezione storica degli ebrei polacchi del ghetto di Łódź. Questi, avendo una grande produttività in settori strategici per la Wehrmacht, pensarono di potersi salvare, collaborando con la Germania. Ogni anno, sotto il comando del presidente del locale consiglio ebraico Rumkowski, davano ai nazisti una lista di persone inidonee al lavoro, da mandare nel campo di sterminio di Chełmno per essere gasati in camere a gas mobili, in modo da salvare gli altri. Questo durò fino al 1944 quando all’approssimarsi dei russi, i tedeschi non mostrarono alcuna riconoscenza: tutti gli abitanti del ghetto di Łódź furono deportati e gasati.

      Così oggi, svenarsi per rispettare i vincoli economici eurotedeschi (lo abbiamo fatto dal 1992 e in misura più intensa nello scorso decennio, apportando dei tagli sanguinosi alla sanità, alla scuola, alle pensioni, precarizzando il lavoro, disinvestendo da piani di sviluppo e di ricerca, di prevenzione delle calamità naturali, ecc.) non ci preserverà dalla richiesta tedesca di far fallire nostro Paese o di metterlo sotto amministrativa controllata, a partire dall’accettazione delle prossime misure europee “anticrisi”. Abbiamo sacrificato loro il meglio delle nostre partecipazioni statali, delle nostre aziende, un decennio di mancato sviluppo per seguire le loro folli politiche deflattive. Tutti questi sacrifici non basteranno a salvarci. Se non agiamo risolutamente come Paese, facendo ciò che è necessario per salvare l’Italia, non ciò che ci comanda l’Ue-Germania, l’Italia intera sarà il nuovo ghetto di Łódz, prima o poi ci gaseranno, economicamente, tutti, scaraventando il Paese nel caos, nell’ingovernabilità e nelle rivolte.

  3. Le posizioni di una parte della classe dirigente tedesca ai problemi economici, in realtà geopolitici, suscitati dalla pandemia, stanno sollevando reazioni italiane spesso inutilmente “aggressive”, in realtà non realiste, da complesso di inferiorità. Come ben osserva Ladetto la formazione di Stati nazionali ha sempre visto un Paese egemone che ha imposto, trascinato o proposto agli altri l’Unione. Come proporre un dialogo geopoliticamente responsabile che punti ad una strategia “comunitaria”? A mio avviso vi sono due possibilità: o allearsi con un’altra potenza egemone, che abbia bisogno di noi (la Francia) e con lei trattare a livello di Stati Maggiori. O creare una alleanza dei paesi deboli, ma strategicamente determinanti, come la Spagna, il Portogallo, la Grecia ed altri interessati a trasformare la supremazia economica in egemonia federale. Ci provarono credo Andreotti o Craxi negli anni ’70, ma il progetto fallì e l’Italia restò fuori da una visione geopolitica che le consentisse di svolgere un ruolo da comprimario in Europa. Prima di partire per Bruxelles, dove avrei fatto uno stage alla Commissione, Spinelli mi diede un saggio consiglio: Se dovrai firmare un documento non firmare per primo: l’Italia non è credibile come primo proponente; firmalo per ultimo, così sarai il segretario della riunione e conterai nella decisione.

  4. Ribadisco quanto ho già detto in altra occasione. Se si ritiene che la Germania sia marchiata da una tara genetica “nazista”, inestirpabile, destinata a riemergere sempre, allora che senso ha parlare ancora di Unità europea visto che la Germania sta al centro del continente per collocazione e dimensione geografica, per peso demografico, economico e tecnologico? E’ possibile costruire un’Europa senza la Germania? Si può pensare che allo scopo sia necessario fare tabula rasa di tutto quanto ha rappresentato la Germania nei secoli con la sua cultura, visto che sarebbe inscindibile dal nazismo? C’è chi lo ha pensato e lo pensa ancora oggi. In realtà (come ha scritto Gian Enrico Rusconi) la Germania, malgrado la sua forza economica e tecnologica, che le offre l’opportunità di porsi alla guida del continente, appare incerta perché non si sente ancora capace di farsene carico per non superati sensi di colpa. Anche per questo motivo, riversa tutte le sue energie nel solo ambito economico.
    Quando dico che non mi rammarico del fatto che il nuovo padrone dell’Europa possa essere una nazione europea, intendo due cose: 1) è difficile realizzare l’Europa senza che un suo Paese, avendone i mezzi, assuma un ruolo propulsore dell’impresa; 2) finché dura il dominio americano non ci sarà mai l’unità del continente. Come ha scritto Barbara Spinelli, sintetizzando la posizione statunitense in materia: “Questo matrimonio europeo non s’ha da fare né domani né mai”.

    • Certo che no, il problema non è la parentesi nazista della Germania. Il problema è la geopolitica che gioca da sempre contro l’unità europea. Solo un supplemento di politica, dunque di solidarietà, di condivisione del rischio, di trasferimenti fiscali all’interno dell’Eurozona può sopperire all’insanabile divergenza di interessi che divide il centroeuropa dal mediterraneo.
      E la crisi attuale è l’occasione giusta per dimostrarlo, vincendo gli egoismi nazionali. Se non lo si farà, come purtroppo tutto lascia presagire, se la BCE non si trasformerà alla svelta in prestatore di ultima istanza, tutti noi vivremo ciò che seguirà come un cataclisma ma sarà semplicemente la storia che si rimette sui suoi binari “naturali”.
      Il dopoguerra ci ha insegnato che l’integrazione europea si fa finché non vi è una grande potenza mitteleuropea (la Germania era divisa in due). Quando l’Impero centrale riemerge (la C.E. che diventa U.E., Maastricht), tutto si blocca. E non credo abbia ragione Rusconi: la Germania non ha affatto rinunciato al suo ruolo guida politico. Lo ha fatto come poteva, da Paese ancora, e per fortuna, presidiato militarmente dagli Alleati, che non può avere una propria compagnia petrolifera e che tuttavia mira a sostituire la Francia come membro permanente del Consiglio di Sicurezza dell’ONU, a creare una armata europea sotto il suo comando, il cd. ” esercito europeo”, ma soprattutto lo ha fatto codificando nei nuovi trattati europei ordoliberismo e mercantilismo, le linee guida del proprio interesse nazionale, anziché mediare alla ricerca dell’interesse comune.
      Dunque, se nell’ora della crisi estrema non scatta in tutti il senso di solidarietà, per l’Italia rimangono solo due strade. O assoggettarsi all’Europa tedesca, come cercò già di fare Mussolini: ma allora come oggi questa via significa la rovina dell’Italia. Accettando il MES o suoi surrogati generatori di debito aggiuntivo, senza creare via banca centrale la liquidità necessaria – che non va restituita – ad affrontare le conseguenze del coronavirus, si porterà presto il Paese nel caos e nell’ingovernabilità. La Germania con la sua insensata rigidità davanti a questa crisi, sta trascinando l’intera Europa verso una nuova tragedia che rischia di avere risvolti molto cruenti e di natura bellica.
      L’altra via è prendere atto, con estremo rammarico, ma con realismo geopolitico, che con una Germania debordante l’Italia muore, mentre guardando ancora una volta agli Stati Uniti, possiamo ripartire. Perché dobbiamo la nostra unità nazionale agli inglesi e la nostra liberazione dalla prima dominazione tedesca agli americani. Non sono gli USA che cercano di dividere l’Europa, siamo noi ad aver bisogno di loro. Agli Stati Uniti interessa solo che la Germania la smetta di fare il vandalo globale, scassando gli equilibri economici planetari col suo mercantilismo sporco, ottenuto indebolendo i propri concorrenti europei e con la riedizione dell’Asse con la potenza egemonica dell’Asia, la Cina in sostituzione del Giappone.
      Siamo ancora in tempo a salvarci. Ma devono essere le prossime settimane tempi di scelte storiche. Dopo il 25 luglio del blocco dell’economia a causa del virus, serve un nuovo 8 settembre monetario: abiurare le politiche tedesche e adottare quelle americane, come ha consigliato Mario Draghi, riattivando la Banca d’Italia come prestatrice di ultima istanza, imponendo il controllo dei capitali. Facendo in sostanza il primo passo verso l’uscita dall’euro, prima che esso collassi malamente, e ponendo la Germania di fronte al fatto compiuto: o le politiche espansive si fanno insieme, con la BCE, e si arriva a occhi chiusi alla vera unità europea, oppure ognuno per la sua strada, non per scelta ma per necessità vitale.

  5. Temo che la risposta di Davicino a Ladetto sia la chiave di volta che rende improbabile l’unificazione europea.
    La complessa psicologia del popolo tedesco (anche se oggi nella cultura occidentale iperindividualista si tende a negarlo, spacciando la cosa come stereotipo o puro e semplice pregiudizio, esiste sociologicamente, al di là del modo di pensare degli uomini uti singuli, un modo dominante di pensare, uti cives, o anche semplicemente “uti socii”, che cerca di imporsi per garantire l’unità tra i componenti dei vari gruppi umani, qualsiasi essi siano e qualsiasi siano le loro finalità, politiche, se generali per organizzare in toto, sovranisticamente, una popolazione su di un territorio, o di natura speciale legata ad interessi particolari del genere più disparato che rappresentano l’animus del gruppo), rigida quanto coscienziosa, mi pare che tenda oggi a pendolare tra il senso di colpa per la passata aggressività e il senso di un, per molti aspetti anche giustificato, senso di superiorità.
    Qui fermo il mio ragionamento e mi limito a raccontare un aneddoto riferitomi da un’amico che negli anni 80 occupava un posto rilevante all’IVECO e che, per la carica che ricopriva, si trovava a visitare le varie sedi estere della multinazionale de qua, notoriamente di maggioranza azionaria FIAT.
    Il suddetto funzionario era scandalizzato dall’atteggiamento del personale della filiale germanica dell’IVECO che nei confronti del collega italiano ospite (teoricamente portavoce de “la voce del padrone” italiano) teneva un comportamento che sembrava dire “guarda che qui chi comanda siamo noi”, atteggiamento di superiorità andato aggravandosi vieppiù allorché si delineò all’orizzonte la riunificazione delle Due Germanie. Un po’ lo stesso atteggiamento, consentitemi il paragone, che si riscontra da parte della mafia in certe regioni italiane dove essa incontrastata.
    Stranamente anche in Alto Adige (che conosco molto da vicino) spesso la popolazione tedesca tiene nei confronti dell’interlocutore italiano sconosciuto (un’altra cosa sono i rapporti personali) gli stessi atteggiamenti dei germanici dell’IVECO.
    Chi ha esperienza di vita tende a valutare le cose per quello che sono. La cultura ha la sua importanza nel mutare gli atteggiamenti umani e nel consentire così il formarsi di nuove collettività sulle ceneri delle preesistenti basate su un nuovo “animus collettivo” che ne consenta la gestione, ma fino ad un certo punto.
    Il mio pessimismo nasce dal fatto che di dottrine “umanistiche” che forgino nuove coscenze e nuovi modi di vedersi tra europei, oggi ubriacati, come tutti gli occidentali, di cultura tecnoeconomicistica (che va da sè che disprezza tutto ciò che riguarda il “forgiamento degli spiriti”, se non è funzionale a generare profitto) all’orizzonte non se ne vedono. Pertanto i precedenti modi “nazionali” di vedersi tra loro degli europei difficilmente possono cambiare, per cui un “animus” europeo che possa assicurare governabilità e unitarietà di obiettivi politici non mi sembra realisticamente costruibile.
    Ecco perché è plausibile l’affermazione di Davicino secondo cui “La Germania, a differenza del Regno di Sardegna, non punta all’unità”. La Germania, come tutta l’Europa del resto, dopo la conquista dell’egemonia nei suoi confronti da parte degli USA, si è convertita dal militarismo (non solo nazifascista, per la verità) sconfitto ad un orientamento economicistico che sostituisce i “liberi mercati” ai campi di battaglia, vendendo la schumpeteriana “distruzione creatrice” del capitalismo come l’attuarsi del paradiso in terra. In realtà essa, analogamente al pensiero di von Klausewitz, prosegue con altri mezzi (ipocriti) l’istinto di potenza e di dominio che fu propria del (brutale) militarismo della prima parte del XX Secolo, sostanzialmente rifiutato in quanto, con la potenza delle nuove armi sperimentate nelle due guerre mondiali, troppo rovinoso nei suoi effetti.

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