Emendare il MES? Va cambiata l’Europa



Giuseppe Davicino    11 Dicembre 2019       1

Al netto di una grande dose di strumentalizzazione politica ed elettorale da parte delle forze sovraniste del centrodestra, la questione del fondo europeo salva-Stati, e salva-banche, è di quelle che rivelano la vera direzione di marcia dell’“Europa” attuale, ovvero di quella zona economica tornata, dopo circa mezzo secolo dalla fine della seconda guerra mondiale, sotto l’influenza tedesca, e con ciò pregiudicando seriamente il traguardo di una Europa finalmente unita. Una direzione che, se non corretta con urgenza, espone l’intera Europa a rischi enormi di natura economica e sociale, e le istituzioni europee al rischio di implosione. Solo riconoscendo che lo strumento del Meccanismo Europeo di Stabilità e le ipotesi di una sua riforma, costituiscono una tappa di una via sbagliata, è possibile valutarne l’impatto reale.

Questo percorso errato è quello determinato dall'annacquamento della politica europea, delle speranze e degli ideali di cui essa è portatrice, in presunte “regole” di una ideologia economica, l’ordoliberismo, che in realtà riflette, nella migliore delle ipotesi, l’esclusivo interesse nazionale tedesco. Qui risiedono le cause dell’abbandono di ogni idea di solidarietà nell’Unione Europea, sempre più simile a una caserma nella quale lo Stato Egemone si è autoassunto il compito di disciplinare con ogni mezzo, anche riducendo alla fame (vedasi la Grecia), gli altri membri e suscitando la ribellione del popolo, quello britannico, che storicamente è allergico all’imperialismo tedesco ogni volta che quest’ultimo tenta di rinascere con conseguenze nefaste sull’intera Europa.

Qui è l’origine delle asimmetrie di ricchezza e di potere che caratterizzano l’Europa attuale, della sua, tragica, incapacità di esprimere politiche adeguate ai tempi, dell’assenza di visione sul proprio futuro, dell’immobilismo che la blocca.

In questo contesto nacque nel 2012 il MES dopo le tardive misure adottate dalla BCE, opportunamente “svegliata” da Mario Draghi, per fronteggiare le conseguenze sulla zona Euro della crisi finanziaria del 2008. Anche l’avvio dell’austerità nel nostro Paese è figlia di quella idea di Europa secondo cui il pilota automatico del Patto di stabilità creerà in un futuro indeterminato le convergenze fra Stati. La politica non deve fare nulla, se non applicare le regole. Abbiamo visto come è finita in Italia e nel resto d’Europa: un decennio di deflazione che ha accentuato all’inverosimile le divergenze economiche fra gli Stati dell’Unione anziché ridurle.

Si comprende allora che la riforma del MES non toglie e non aggiunge nulla al sistema in atto ma si limita ad accentuarne alcune contraddizioni ed insensatezze. Infatti, è da sette anni che sappiamo che la funzione del MES è essenzialmente quella di “strumento di tortura” per quei Paesi (tutti tranne la Germania, l’Olanda e alcuni micro-Stati), che non rispettano i parametri di Maastricth, una finalità ben lontana, ad esempio, da quella della New Development Bank, creata dai Paesi Brics nel 2015 per sostenere concreti progetti sviluppo di quei popoli (ponti, dighe, treni veloci, autostrade, infrastrutture digitali, ecc.).

Si può osservare che questo limite del MES, di mirare a puntellare il sistema finanziario e creditizio ma non l’economia reale di un Paese, che anzi contribuirebbe in caso di necessità a strangolare mediante l’imposizione di pesanti misure di austerità, assomiglia al limite oggettivo delle pur benemerite politiche espansive della BCE di Mario Draghi. Alla lunga continuare a iniettare liquidità nel circuito finanziario senza che ciò sortisca degli effetti concreti all’economia reale (le banche che tornano a fare credito a imprese e famiglie), si rivela illusorio. Per questo la domanda: “quanto ci conviene contribuire a un fondo di cui può beneficiare, senza condizioni ma su semplice richiesta, unicamente la Germania?”, in realtà si sarebbe dovuta porre sin dalla costituzione del MES.

Cosa ci aggiunge la sua riforma? Tale riforma risponde innanzitutto alla necessità di fronteggiare le pessime condizioni dell’economia e delle banche tedesche. Necessità che in un clima di “comunità” fra partner europei che pensano realmente a un futuro in comune, al “matrimonio europeo”, potrebbero benissimo esser sostenute da un intervento ad hoc della BCE, indolore, senza pesare sui contribuenti e sui correntisti, neanche su quelli tedeschi.

Invece, poiché il clima prevalente nelle relazioni intra-europee è quello competitivo, ognuno per sé, e punitivo, allora la riforma mira a dare più forza agli obiettivi perseguiti dalla Germania. Che sono essenzialmente due: sottrarre il MES che è un organismo internazionale dalla natura ibrida e problematica (un Trattato internazionale che si comporta da fondo per Stati seguendo però il diritto commerciale e bancario, e che pertanto opera con una segretezza che mal si concilia con la democrazia), al controllo della Commissione e del Consiglio europeo, rafforzandone gli automatismi di valutazione e d’intervento (nell’organismo direttivo o governatorato, del MES gli Stati contano in base al loro peso economico, la Germania conta da sola per quasi un terzo e con accordi con i suoi satelliti del Nord Europa può imporre scelte arbitrarie e insindacabili a scapito degli altri grandi Paesi, fra cui l’Italia); introdurre, con una proposta parallela alla riforma del MES, la ponderazione, ossia la valutazione di rischio dei titoli di Stato detenuti dalle banche, sebbene questi siano universalmente riconosciuti privi di rischio. Misure che sembrano architettate ad hoc contro l’Italia. Ma davvero la Germania può pensare che con un alleggerimento (del 20, 30% o più) dei conti correnti degli italiani, l’Euro sarà più stabile? Anche i sassi sanno che il giorno (o la notte) in cui ciò si realizzasse, si consegnerebbe l’Italia al caos, contribuendo ad accendere una miccia in un’Europa già resa una polveriera sociale dalla prolungata austerità, con la Francia sull’orlo dell’insurrezione popolare e la Spagna attraversata da forti spinte separatiste.

Appare dunque chiara la strumentalità del dibattito intorno alla riforma del MES. Perché ciò che cambierebbe le cose non è solo evitarne la riforma, ma ridiscutere la funzione di uno strumento potenzialmente letale per l’Italia e per il futuro dell’Unione Europea. Ma per fare questo occorre fare chiarezza sulle intenzioni (e lo dobbiamo pretendere noi Popolari che siamo europeisti nei fatti, eredi di una grande tradizione europeista): siamo un gruppo di Paesi che stanno per unirsi in uno Stato federale in tempi definiti, nell’arco al massimo del prossimo decennio? Se è così allora il MES non è un problema, perché si dovranno fare presto l’unione bancaria, quella fiscale, l’emissione di bond europei, la messa in comune del rischio, dotare la BCE delle prerogative di tutte le altre banche centrali di questo mondo.

a se così non fosse, allora il MES, riformato o meno, costituisce una delle tante trappole di cui è costellata una convivenza logora che si trascina per inerzia e senza grandi progetti per il futuro, qual è divenuta l’Europa attuale. In tal caso sarebbe meglio pensare a chiedere la fine del MES. Il buon senso lo consiglierebbe.

Ritirandosi dal MES, l’Italia potrebbe più proficuamente impiegare l’ingente sua quota di partecipazione per nazionalizzare qualche grande banca sistemica e renderla finalmente utile al sostegno dell’economia reale e non più solo a gratificare i propri azionisti. Che potrebbe essere benissimo Unicredit, prima che il controllo franco-americano la spogli del tutto di asset che sono il frutto del lavoro di generazioni di italiani e di importanti territori, fra cui quello subalpino. Per non permettere, tra l’altro, che il suddetto gruppo finanziario decida seimila esuberi in Italia al fine dichiarato, di accrescere ulteriormente i già lauti dividendi per i propri azionisti.

Più in generale serve la capacità, la dote politica, di inquadrare la vicenda del fondo salva-Stati e il suo essere fuori strada, inadatto ai tempi, nel processo di cambiamento in atto a livello globale, tanto in Occidente che in America Latina, Asia e Africa. Le disuguaglianze e, per contro, la concentrazione di ricchezza in circuiti finanziari autoreferenziali che non servono l’economia reale, è giunta a dei livelli non più sostenibili. Il monetarismo, che è sciaguratamente divenuto il fondamento di questa, brutta, Europa “tedesca”, smarrita lontana dai progetti dei padri fondatori, è giunto al capolinea. C’è bisogno di una fase espansiva globale, orientata al uno sviluppo sostenibile ed ecocompatibile. Che certamente arriverà. L’incertezza riguarda il modo attraverso in cui si passerà a questo nuovo ciclo economico. La storia ci insegna che le prolungate fasi di deflazione, come quella in cui la Germania in questi anni ha gettato l’intera Europa, conducono, prima o poi, a grandi rivolgimenti sociali e bellici.

Il compito della politica in una siffatta fase è precipuamente quello di “trasformare”, anziché “riformare”, come ci ricorda il Manifesto Zamagni, finché si è in tempo a evitare l’irreparabile. Perché l’Europa così com’è, fondata nei fatti sul pareggio di bilancio, sulla fobia del debito, sull’impossibilità di investire per lavoro, sviluppo innovazione in modo efficace e non solo per annunci che non possono disporre di adeguate risorse (a questa logica sembra non sottrarsi neanche il piano per la transizione ecologica della Von der Leyen) appare incamminata verso uno schianto non meno tragico di quelli avvenuti nel secolo scorso.


1 Commento

  1. Condivido in pieno la lucida analisi di Giuseppe Davicino. E purtroppo non mi sento di dissociarmi neppure dal pessimismo espresso a fine articolo.

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