Sturzo, la Sicilia, il Sud



Giuseppe Matarazzo    8 Agosto 2019       0

«Arriviamo al punto principale: formazione di tecnici, di studiosi, di specializzati; costino quel che costino, la Regione invece di tenere due o tre mila impiegati più o meno senza titolo nei vari dicasteri ed enti, che ha il piacere di creare a getto continuo, ne tenga solo mille; ma contribuisca ad avere mille tecnici, capi azienda specializzati, professori eminenti, esperti di prim’ordine. Solo così la Regione vincerebbe la battaglia per oggi e per l’avvenire; sarebbe così benedetta l’autonomia da noi vecchi e dai giovani; i quali ultimi invece di chiedere un posticino nelle banche o fra le guardie carcerarie sarebbero i ricercati delle imprese industriali agricole e commerciali nazionali ed estere».

La Regione in questione è quella siciliana. E la battaglia dell’avvenire è stata sostanzialmente persa. È il 1959 e alla vigilia delle nuove elezioni per il rinnovo dell’Assemblea regionale don Luigi Sturzo si appella ai siciliani. L’appello ai “Liberi e Forti” del 1919 con cui lanciava il Partito Popolare è di un’altra epoca: di storia e di vita ne sono passate sotto i ponti della politica, della democrazia e dell’autonomia siciliana così tanto auspicata.

Eppure ci sono molti mali che spingono il prete di Caltagirone a scrivere parole che oggi, sessant’anni dopo la pubblicazione sul “Giornale d’Italia”, il 24 marzo 1959, risultato di estrema attualità (così come, per una singolare congiuntura politica ed economica, l’appello del 1919), come se non fossero passati questi decenni.

Un appello che ha il sapore di un’accusa lucida, involontaria e quanto mai oggettiva dello stato dell’isola. Perché la Regione Siciliana, invece di ridurre e affinare il personale e le intelligenze, liberarsi dalla dipendenza statalista e lottare contro l’assistenzialismo, ha moltiplicato le migliaia di dipendenti: sono oltre 15mila, senza contare il corollario di altre categorie assai discusse come i quasi 30mila forestali, i dipendenti delle partecipate, i lavoratori socialmente utili che fanno lievitare il conto fino a superare la soglia monstre di 50mila. Un esercito che zavorra il bilancio al collasso della Regione e il futuro della Sicilia, invece degli auspicati «mille tecnici» che avrebbero magari permesso di lavorare per colmare il gap che divide l’isola (con tutto il Mezzogiorno) dal resto del Paese. Quello che la Germania, all’indomani dell’unificazione, ha risolto in vent’anni.

Sebbene in apertura don Sturzo dica di non avere «titolo specifico per parlare ai siciliani, tranne i miei 87 anni compiuti» e di non pretendere «di essere ascoltato, né seguito», «in un momento assai tormentato per i miei conterranei, reputo doveroso non mancare all’appello, se non altro come rinnovata testimonianza di solidarietà e di affetto a quell’Isola che ci rende, o dovrebbe renderci, uniti, non nell’isolamento geografico, né in quello politico e culturale, ma nelle speranze di bene, nelle attività di lavoro, nel progresso morale e materiale, nel desiderio anche ambizioso, di portare la Sicilia al più alto livello fra le regioni italiane e contribuire ad affermarla, quale dovrebbe essere: Perla del Mediterraneo».

E si chiede: «Appartiene al campo del realizzabile simile obiettivo?». Una domanda che appare oggi retorica. Ma non per il fervente don Sturzo.

In un altro discorso, a Napoli nel 1923, il sacerdote si era rivolto al Mezzogiorno, lo aveva fatto con ottimismo, con fiducia, sicuro della rinascita del Sud (mentre il “pessimista” Giustino Fortunato replicò con scetticismo).

Nel marzo del 1947 per le prime elezioni regionali, aveva scritto un messaggio firmato però dalla Democrazia Cristiana. Nel 1959 don Sturzo, in uno scenario politico e istituzionale cambiato interviene ancora, e ancora con ottimismo: «Il Mezzogiorno può risorgere, anzi sta risorgendo». Senza nascondere gli errori dell’autonomia conquistata: scelte «pompose e costose» e poi la «crescente e opprimente partitocrazia», la sottomissione una volta a Botteghe Oscure, un’altra a Piazza del Gesù.

«Cuore siciliano di indipendenza e di resistenza dove ti trovi oggi?», sembra gridare Sturzo, prima di passare alla questione prettamente economica, che «va riveduta da capo a fondo», a cominciare dal «sistema forestale»: «Diceva un tecnico americano della FAO, venuto dieci anni fa a visitare la Sicilia, che il mare che la circonda in mezzo secolo ha assorbito le terre fertilizzate di tutto il nostro territorio – scrive don Sturzo nelle colonne del “Giornale d’Italia” –. La prima e capitale cura dovrebbe essere quella dei rimboschimenti delle zone montane e calancose delle zone non altrimenti fertilizzabili».

Sappiamo purtroppo com’è poi stato gestito il «sistema forestale». Così come l’industrializzazione, senza politiche e senza farne sistema. Quando ritorna dall’esilio nel 1946, don Sturzo ha 75 anni e «molti, anche dei suoi amici ex popolari ora confluiti nella democrazia cristiana nella quale don Sturzo non si identificò mai, confidano che la vecchiaia freni la sua voce severa. Ma la sua voce, invece, risuonerà ancora, alta, libera e forte, sino all’8 agosto1959, giorno della sua scomparsa – fa notare l’economista Marco Vitale che per decenni ha studiato e presentato in diversi saggi il pensiero di Sturzo –. È la sua ultima grande battaglia contro la partitocrazia, lo sperpero di denaro pubblico, la corruzione, che caratterizzano l’ultima fase della sua vita. Ma poiché questi tre mali, che lui chiama le tre male bestie, fanno comodo a molti, egli vive quello che è stato giustamente chiamato un “secondo esilio”, fatto di ignoranza e di isolamento. Da molti fu definito sorpassato – dice Vitale – ma era semplicemente solo perché davanti a tutti». Solo e avanti.

«La sua voce è ancora così attuale, come attuale è l’impegno, la speranza, l’ottimismo che non lo lasceranno mai. Sturzo si impegna, sin dagli Stati Uniti per uno statuto che assicuri alla Sicilia una forte autonomia e, una volta ottenuto questo traguardo, per un uso retto, produttivo e serio dell’autonomia. A tutti i siciliani raccomanda di contare sulle proprie forze, di creare, rifare, riorganizzare localmente senza aspettare nulla dal centro. Raccomanda di non scimmiottare la burocrazia romana, di impegnarsi per l’industrializzazione non per costruire cattedrali nel deserto, di non inventarsi le sue “partecipazioni statali”. Stringe il cuore leggere i suoi scritti di quegli anni sulla Sicilia e sul Mezzogiorno – conclude Vitale –. I siciliani e i meridionalisti in generale fecero esattamente il contrario di quello che raccomandò Luigi Sturzo».

Don Sturzo morirà dopo pochi mesi, con l’ottimismo che lo ha sempre accompagnato. Non è un caso che l’appello si chiudeva così: «Sono un ottimista impenitente, anche di fronte a una oscura situazione, alla vigilia di una battaglia elettorale tormentata, con l’incubo del social-comunismo che ci opprime. Ma voglio andare all’altro mondo, quando Dio vorrà, col mio ottimismo».

Sessant’anni dopo quell’ottimismo resta un’occasione mancata. Un tradimento, forse. Che la Sicilia paga con una fuga inarrestabile di giovani qualificati, l’esercito con cui l’isola potrebbe forse ancora vincere la battaglia «per oggi e per l’avvenire».

(Tratto da www.avvenire.it)


Il primo dei commenti

Lascia un commento

La Tua email non sarà pubblicata.


*