Le vere finalità dell’Unione



Daniele Ciravegna    9 Maggio 2019       1

Negli ultimi tempi si è andata espandendo e accentuando – un po’ ovunque in Europa – la critica nei confronti dell’Unione Europea e dell’euro, in conseguenza del fatto che molti imputano alla gestione dell’una e dell’altro i risultati economici negativi avutisi a partire dal 2009, nella fase recessiva successiva alla crisi finanziaria mondiale del 2007-2008, nel corso della quale quasi tutti i Paesi che formano la prima, e in particolare quelli che adottano il secondo, sono quelli che hanno registrato le peggiori performance economiche nei confronti delle altre regioni economiche del mondo.

Come quasi sempre capita in situazioni del genere – così fu anche a metà degli Anni Novanta del secolo scorso riguardo all’adesione o no dei Paesi, allora costituenti la neonata Unione Europea, alla istituenda Unione Economica e Monetaria dell’UE che doveva portare alla nascita dell’area monetaria dell’euro – il dibattito si riduce alla semplicistica contrapposizione fra il partito dei e il partito dei no, senza che venga affrontata l’unica questione sensata da porre, che dovrebbe essere: quale tipo di Europa?

Per poter continuare occorre aver ben presente il modello di UE che emerge dal consolidamento dei tre documenti che ne costituiscono la struttura istituzionale: la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea (CDF), il Trattato dell’Unione Europea (TUE) e il Trattato per il funzionamento dell’Unione Europea (TFUE), quali risultano a séguito del Trattato di Lisbona del 13 dicembre 2007, in vigore, nei testi attuali, dal 1° dicembre 2009. Ma questo non basta, ché v’è poi il modo in cui le istituzioni europee applicano i principi.

Nel fare ciò, occorre avere ben presente che sarebbe del tutto inadeguato elencare semplicemente, via via che s’incontrano, le “cose” che i trattati prendono in considerazione. È essenziale analizzare queste alla luce della sequenza di finalizzazione, che vede a monte i valori (o principi etici); da questi scaturisce la visione del problema, che si estrinseca in uno o più obiettivi finali, le “cose” che veramente contano di per sé, in quanto il raggiungimento di essi comporta la realizzazione dei valori e della visione. Dalla visione scaturisce la missione da compiere ed è possibile, anzi è probabile, che la missione – attraverso la quale si punta a dar campo alla visione che presiede il tutto – individui alcuni principi istituzionali o strategie, che si concretizzano in uno o più obiettivi intermedi, che di per sé non sono rilevanti, ma attraverso i quali occorre però transitare (o almeno così appare) per arrivare agli obiettivi finali. È però possibile che si abbiano errori di prospettiva, nel senso che la realizzazione di alcuni obiettivi che paiono sensati (ad esempio, la stabilità finanziaria di un sistema economico) determini l’allontanamento da un obiettivo intermedio di grado più elevato (più vicino a obiettivi finali; ad esempio, la piena occupazione), che è consono a uno o più obiettivi finali (ad esempio, la dignità delle persone). Il puntare sul primo obiettivo intermedio porterebbe allora ad un risultato perverso, poiché farebbe allontanare il sistema dal suo obiettivo finale o da uno dei suoi obiettivi finali.

Di questa posizione relativa fra obiettivi finali, obiettivi intermedi, strumenti e vincoli occorre avere una consapevolezza piena per avere una chiave di lettura e di sistemazione delle diverse “cose” indicate nei trattati dell’UE, tenendo comunque presente che, fin dal Trattato di Roma del 1957, che fondò la Comunità economica europea, e, a maggior ragione, dal Trattato di Maastricht del 1992, che fondò l’UE, la Comunità/Unione europea non è mai stata solo un progetto puramente economico, una zona di libero scambio commerciale, bensì un progetto politico costruito sulla condivisione di una serie di valori morali, tra i quali fondamentali e tipici della cultura europea sono il principio della giustizia sociale e della pace, al suo interno e nel mondo.

Con riferimento all’UE, i “valori” sono innanzitutto evidenziati nel preambolo della CDF: «I popoli d'Europa, nel creare tra loro un'unione sempre più stretta, hanno deciso di condividere un futuro di pace fondato su valori comuni. Consapevole del suo patrimonio spirituale e morale, l’Unione si fonda sui valori indivisibili e universali della dignità umana, della libertà, dell'uguaglianza e della solidarietà; essa si basa sul principio della democrazia e sul principio dello Stato di diritto. Pone la persona al centro della sua azione, istituendo la cittadinanza dell'Unione e creando uno spazio di libertà, sicurezza e giustizia, […] nel rispetto della diversità delle culture e delle tradizioni dei popoli d'Europa nonché dell'identità nazionale degli stati membri e dell'ordinamento dei loro pubblici poteri a livello nazionale, regionale e locale. Essa si sforza di promuovere uno sviluppo equilibrato e sostenibile e assicura la libera circolazione delle persone, dei servizi, delle merci e dei capitali nonché la libertà di stabilimento».

Già la CDF non mostra di avere le idee ben chiare fra obiettivi finali e obiettivi intermedi, poiché introduce i predetti obiettivi alla rinfusa e non graduandoli secondo il loro grado di finalità. La graduazione degli stessi porta a contemplare, quale obiettivo finale, la dignità umana, la quale non può realizzarsi appieno se non ci sono la libertà e l’uguaglianza e non opera lo spirito di solidarietà e se non sono rispettati i principi di democrazia e dello Stato di diritto, che assicurino a ciascuna persona il diritto della cittadinanza e il diritto della giustizia. Intermedi sono gli obiettivi dello sviluppo equilibrato e sostenibile e della libera circolazione delle persone, dei servizi, delle merci e dei capitali nonché della libertà di stabilimento.

Per conto suo, l’Art. 3, comma 3, del TUE ribadisce i principi fondamentali degli obiettivi finali e intermedi: «L'Unione instaura un mercato interno. Si adopera per lo sviluppo sostenibile dell'Europa, basato su una crescita economica equilibrata e sulla stabilità dei prezzi, su un'economia sociale di mercato fortemente competitiva, che mira alla piena occupazione e al progresso sociale, e su un elevato livello di tutela e di miglioramento della qualità dell'ambiente. Essa promuove il progresso scientifico e tecnologico. L'Unione combatte l'esclusione sociale e le discriminazioni e promuove la giustizia e la protezione sociali, la parità tra donne e uomini, la solidarietà tra le generazioni e la tutela dei diritti del minore. Essa promuove la coesione economica, sociale e territoriale, e la solidarietà tra gli stati membri. Essa rispetta la ricchezza della sua diversità culturale e linguistica e vigila sulla salvaguardia e sullo sviluppo del patrimonio culturale europeo».

Le parti sopra evidenziate in corsivo definiscono gli obiettivi, in campo economico e sociale, dell’UE, non distinguendo però chiaramente fra obiettivi finali e obiettivi intermedi. Invece è proprio su questa distinzione che si gioca la bontà o meno del modello economico-sociale europeo. Una lettura attenta, alla luce del principio di distinzione sopra precisato, porta, a mio avviso, all’individuazione, quale obiettivo finale dell’Unione, della realizzazione dello «sviluppo sostenibile dell’Europa basato su:

1) una crescita economica equilibrata e sulla stabilità dei prezzi;

2) un’economia sociale di mercato fortemente competitiva, che mira alla piena occupazione e al progresso sociale;

3) su un elevato livello di tutela e di miglioramento della qualità dell’ambiente».

Ora, le tre “basi” non si presentano sullo stesso livello di finalità. Se il valore di fondo sta – come evidenziato sopra – nella “dignità della persona”, pare evidente che il livello più avanzato di finalità sta nella “piena occupazione e nel progresso sociale” (che si realizza “combattendo l’esclusione sociale e le discriminazioni e promuovendo la coesione economica, sociale e territoriale dell’Unione Europea” – successivi due capoversi dello stesso comma) e che la crescita economica equilibrata, la stabilità dei prezzi, l’economia sociale di mercato fortemente competitiva, la tutela e il miglioramento della qualità dell’ambiente, il progresso scientifico e tecnologico, la giustizia, la protezione sociale, la parità fra donne e uomini, la solidarietà tra le generazioni (e perché non anche fra le persone della stessa generazione?), la tutela dei diritti del minore, la solidarietà tra gli stati membri, e, ancor più, la creazione di un mercato interno e l’istituzione di un’unione economica e monetaria (la cui moneta è l’euro) siano, con diversi livelli di prossimità rispetto all’obiettivo finale, obiettivi intermedi o meri strumenti operativi.

Con un’espressione di sintesi, alla luce dei trattati dell’UE, l’enfasi va posta sulla dimensione sociale piuttosto che sulla dimensione dell’elevata competizione di mercato. Infatti il sintagma “economia sociale di mercato fortemente competitiva” viene specificato con l’indicazione “che mira alla piena occupazione e al progresso sociale. “Piena occupazione” e “progresso sociale” sono così gli unici obiettivi esplicitamente indicati, mentre tutti gli altri sono presenti in quanto caratteristiche di àmbito necessarie affinché si possano realizzare i due obiettivi finali predetti. Infatti, un obiettivo finale non può riguardare che la persona umana, la sua piena realizzazione; non certo delle caratteristiche d’àmbito, quali sono il mercato interno fortemente competitivo, l’istituzione di un’area monetaria unica, la stabilità dei prezzi, il progresso scientifico e tecnologico… Non ha senso e sarebbe contro i trattati europei puntare sui secondi, se questi portassero all’allontanamento dagli obiettivi finali.

Ora, la gestione dell’UE nell’ultimo ventennio non risulta affatto in linea con i predetti obiettivi, poiché ha puntato su obiettivi intermedi che hanno fatto allontanare gran parte dei Paesi dell’Unione dagli obiettivi finali statuiti nei trattati europei.

Sull’altare della stabilità finanziaria – che ha il ruolo di obiettivo intermedio – è stata impostata una politica di austerità che ha portato diverse aree dell’UE in situazioni di ristagno economico, elevata disoccupazione e rilevante crescita della povertà. L’austerità ha comportato principalmente una politica di tagli profondi alla spesa pubblica, mirati all’obiettivo di ridurre i deficit di bilancio pubblici. Se questi tagli avessero riguardato solamente spese inutili o dannose nei confronti delle loro ricadute sociali, sarebbe stato un bene, e non ci sarebbe stato bisogno del richiamo del principio di austerità, per tagliarle: una spesa inutile o dannosa non va fatta, comunque essa sia finanziata; non con imposte (evitando di creare deficit di bilancio, quindi), non con indebitamento, non con creazione di moneta; non dev’essere fatta!

Il fatto è che questi tagli, in diversi Paesi, hanno riguardato le spese sociali, portando alla riduzione significativa del volume dei servizi erogati e/o al peggioramento della loro qualità: spese per erogazione di servizi alle famiglie, per le cure dei figli e di altri famigliari in stato di bisogno; spese sanitarie; spese per attività di formazione scolastica e professionale atte a permettere l’entrata, o il mantenimento della presenza, delle persone nel mercato del lavoro ecc.

Il continuo martellamento della Commissione Europea e del Consiglio dell’UE nonché del Presidente della Banca Centrale Europea (e di quest’ultimo non vedo la competenza in merito!) nei riguardi delle “riforme”, che quasi tutti i Paesi dovrebbero introdurre in tempi brevi – e dal conclamato o supposto imbocco di processi di realizzazione delle quali viene fatto dipendere il riconoscimento dello status di Paese virtuoso o di Paese vizioso, con conseguente applicazione di bonus o di malus nei rapporti economici, finanziari, o anche solo fiduciari, fra il governo centrale dell’UE e i singoli Stati – risente della presenza di un modello di valutazione e di comportamento non in sintonia con gli obiettivi finali fissati nei trattati europei.

Si tratta di riforme, in parte, non del tutto chiare nei loro contenuti, che garriscono al soffiare di venti di origine non ben chiara, ma che richiamano generici odori di efficienza – disgiunti da considerazioni circa l’efficacia in termini di “bene comune” per la collettività – di oscuri equilibri di lungo periodo, difficili da monitorare, di vaga solidarietà intergenerazionale ecc. In parte, di riforme che chiaramente tendono a smantellare il Welfare State e il sistema di relazioni industriali create in Europa – specie a partire dalla fine della Seconda guerra mondiale – riducendo i diritti, le garanzie e le condizioni dei lavoratori, subordinandoli agli interessi dei proprietari del capitale.

La motivazione sta nella difesa della capacità dell’economia dell’UE di competere con il resto del mondo in termini di prezzi; a beneficio di quella parte del mondo imprenditoriale europeo che, per sopravvivere, punta sulla capacità di competere in termini di prezzi, non essendo capace di competere in termini di qualità. In una tale situazione, la presenza di un robusto sistema di protezione sociale, di giustizia sociale, costituisce un importante atout.

In conclusione, la gestione dell’UE svolta nell’ultimo decennio risulta non rispettosa degli obiettivi finali contenuti nei trattati europei.

Alla luce dei valori e principi etici che presiedono il contenuto di bene comune, il modello d’Europa definito dai trattati europei (da ultimo, il Trattato di Lisbona del 2007) appare assai migliore rispetto all’effettiva gestione che alla comunità europea danno gli organismi investiti del governo dell’Unione Europea.


1 Commento

  1. Davvero interessante ed originale l’analisi del prof. Ciravegna, che ha animato anche l’incontro dell’Associazione del 22 febbraio scorso. La sua tesi, a mio avviso, oltre ad essere un pregiatissimo esempio di europeismo vero, che riconosce e dibatte i problemi aperti per risolverli, anziché negarli o ridimensionarli, stimola la discussione su almeno due questioni. La prima: se la gestione dell’Ue da parte di Commissione, Consiglio, Bce nell’ultimo decennio di crisi si è discostata dagli obiettivi sanciti dai trattati europei, chi può ricondurre le suddette istituzioni al rispetto delle priorità definite da questi trattati? Non il Parlamento europeo, con i poteri assai limitati di cui dispone, non il Consiglio europeo, almeno finché sarà lo Stato egemone che impone la propria visione e gli altri vi si adeguano, sotto il tacito ricatto: “volete l’Europa? Allora siete obbligati a digerire il fatto che l’unica Europa possibile è quella a trazione tedesca”. Il ritorno della “questione tedesca”, avvertibile in modo potente e drammatico nell’ultimo decennio, sembra esercitare un ruolo fondamentale in questo prevalere dei mezzi sui fini, illustrato brillantemente da Daniele Ciravegna, il quale, mi par di capire, implicitamente ammette che altre sono le logiche reali che presiedono alle valutazioni di politica economica sugli Stati membri da parte degli organismi UE. Tali modelli di valutazione sostitutivi di quello previsto nei trattati europei sono essenzialmente due: il prevalere su tutto, appunto, dell’interesse nazionale tedesco (la geopolitica è una bestia che va addomesticata dalla politica, cosa che la Germania non sa fare perché è una potenza impolitica, se si vuole evitare che la geopolitica riemerga dagli scantinati della storia per imporre la sua agenda nel vuoto lasciato dalla politica). La seconda logica sostitutiva è quella dei grandi interessi finanziari e speculativi i quali perseguono, dietro il paravento europeo un disegno tendente alla svalutazione del lavoro e allo smantellamento del welfare e ad una competizione, intra-Ue e nelle esportazioni, al ribasso, in ciò assecondando un altro caposaldo del neo-nazionalismo tedesco.

    L’altra questione che emerge dall’analisi di Ciravegna riguarda la sostenibilità di una moneta unica in un’area monetaria non ottimale come quella costituita dall’eurozona. L’austerità è stata uno snaturamento dei fini dell’UE oppure un metodo connaturale a una moneta senza stato? Ritengo più plausibile la seconda ipotesi. In assenza della messa in comune del debito, di trasferimenti di risorse dal centro dei Paesi del Nord alla periferia mediterranea, la politica economica dello Stato più forte è riuscita ad imporsi alla Bce. Con conseguenze esplosive sulle società e sulle economie degli altri stati membri. L’euro che era stato pensato come strumento per imprimere un’accelerazione all’integrazione europea, ha finito alla prova dei fatti per aumentare la divergenza economica e sociale fra gli Stati e fra le classi sociali, concentrando la ricchezza negli Stati e nei ceti più ricchi e rendendo gli stati periferici e la classe media più poveri. «La compressione dei salari, la disoccupazione e il precariato, a cui si è aggiunta una dinamica depressiva nel ciclo degli investimenti pubblici, hanno messo ai margini una parte sempre più ampia dei cittadini». I famosi due terzi della popolazione, costituiti dalla classe media impoverita. Anche uno degli artefici dell’adesione dell’Italia all’Eurozona, Romano Prodi, lo ha dovuto riconoscere (Il Messaggero, 21 aprile u.s.). E il prof. Ciravegna è anche più puntuale dell’ex presidente della Commissione Ue nella individuazione degli effetti, che credo sia lecito definire “antieuropei”, dell’austerità: lunga stagnazione economica, aumento di povertà e disuguaglianze. Anziché tagliare gli sprechi, con l’austerità è stata tagliata la spesa buona, per gli investimenti per lo sviluppo, mentre è rimasta intatta la spesa clientelare e quella a vantaggio dei più forti. I tagli sono stati scaricati su chi meno poteva difendersi.

    Sta alle forze politiche, a partire da quelle con un più consolidato profilo europeista, accorgersi che urge fare quanto il prof. Ciravegna ha ben focalizzato: ricondurre la gestione concreta delle politiche economiche e monetarie al perseguimento degli obiettivi finali espressi dai trattati europei. Senza perdere altro tempo, a nuovo parlamento e commissione europei insediati. Per evitare una inarrestabile deriva sul piano sociale, economico e della tenuta delle istituzioni democratiche, di cui già si intravvedono chiari sintomi.

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